Da l’amore al tempo del colera di Marquez al mio tempo del corona

Arte, Cultura & Società

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“Bisogna sorvegliarsi senza tregua per non essere spinti, in un minuto
di distrazione, a respirare sulla faccia d’un altro e a tras mettergli
il contagio. Il microbo, è cosa naturale. Il resto, la salute,
l’integrità, la purezza, se lei vuole, sono un effetto della volontà e
d’una volontà che non si deve mai fermare. L’uomo onesto, colui che non
infetta quasi nessuno, è colui che ha distrazioni il meno possibile. E
ce ne vuole di volontà e tensione per non essere mai distratti; sì,
Rieux, essere appestati è molto faticoso”, così Albert Camus in  “La
peste”.
“L’ignoranza in fisica può produrre degl’inconvenienti, ma non delle
iniquità; e una cattiva istituzione non s’applica da sè”. È Alessandro
Manzoni nel suo saggio sulla infame colonna. Un tempo la peste. Un tempo
la lebbra. Un tempo il colera. Siamo ad un nuovo tempo. Quello del virus
a forma di corona. Nessuno può essere immune.
Da “La colonna infame” a “La peste” di Albert Camus sino a “L’amore al
tempo del colera”.
La solitudine dei centanni raccontata da Marquez è una sintesi che si
somma al colera.  Ma è di Marquez che voglio parlare.
Cosa è  stato Gabriel García Marquez per una generazione che più volte,
negli anni Settanta, ha letto e riletto “Cent’anni di solitudine”?
E poi l’amore negli anni del colera e poi la tristezza delle puttane…
Il romanzo più malinconico è quello sul colera. Mi ricorda un pensiero
di Lucrezio: “Una tal causa di contagio un tale
mortifero bollor già le campagne
ne’ cecropi confin rese funeste,
fe’ diserte le vie, di cittadini
spopolò la città”.
Così come disse Gogol riprendendo una frase di Tucidide. Gogol: “Più
contagiosa che la peste la paura si diffonde in un batter d’occhio”.
Tucidide: “Atene fu distrutta dalla paura della peste, non dalla peste”.
Variazioni in tema e oltre. Considero Marquez riferimento insieme a
Camus.
E poi i racconti che raccontavano le donne nella America del Sud tra il
mondo boliviano e i balli cubani…
Marquez, non maschero nulla, è stato lo scrittore che non ho tanto amato
negli anni irregolari della mia inquieta e rivoluzionaria stagione
universitaria. Poi ho riletto quelle pagine in cui la solitudine era un
precipitato dell’esistenza e ho ritrovato la dispersione di un tempo tra
amore e disamore e il tremore di un popolo, oltre il fascino di quelle
donne che si portano sulla pelle e negli occhi la rabbia la passione e
il mare. Ora è un romanzo al quale resto legato. E poi è tra i libri che
mi è stato regalato da mio padre e sono libri intoccabili e segnati
dalla vita.
Possono anche esserci cent’anni di solitudine e non si supera perché la
solitudine resta senza la conta degli anni. Lo scenario è quello che poi
ho tanto amato in Jorge Amado con il personaggio di Gabriella anzi
Gabriela, con i profumi di cannella o il mare morto con la morte di un
amore.
La musicalità è quella che mi ha attraversato con i romanzi e la poesia
di Alvaro Mutis che attracca ai porti columbiani i destini dei marinai e
delle donne che non smettono di essere puttane. Perché le puttane hanno
il gioco e la tristezza e nella tristezza hanno lo sguardo delle notti
insonne.
Come quell’amore al tempo del colera che è una pagina di agonizzante
fine e di una implacabile poesia.
Così come il personaggio del patriarca che raccoglie, in uno spazio che
non conosce n’è tempo n’è storia, passaggi di generazioni e destini di
uomini dal pensiero inciso nella tradizione e dalle mani callose che
hanno stretto furono di terra e corde di acque salate.
Marquez ha segnato anche un “genere” al di là del Nobel che ormai si
nega a pochi.
Proprio in “Cent’anni di solitudine” la scrittura diventa devastazione
della sintassi. Ma questo è un bene. È stato un bene in una letteratura
o falsamente sperimentale o marcatamente marxista e accademica. Rompe le
strutture e il romanzo assume il viaggio di un respiro. Può piacere o
memo, può essere nella volontà dei  desideri o delle scelte ma Marquez
resta uno scrittore con le palle. Il suo incontro con Fidel? Mi
riguarda, oggi, poco. Ci credo a ciò che ha dichiarato, ovvero di non
essere mai stato un comunista. Ma anche se fosse…
La sua scrittura non conosce i limiti ischemici degli “ismi”. Ma tanto
si muore ugualmente. Si è ironici e tristi. La vita si misura osservando
gli occhi delle puttane tristi come in uno delle sue ultime pagine del
romanzare l’inquieto del vivere. Era nato nel 1927. È morto nel 2014.
Tutto questo cosa ha a che fare con il corona virus? Tutto è
contestualizzabile. La letteratura è il racconto di un passaggio e una
tregua del tempo.
Ma anche Boccaccio parlando della peste racconta: “lasciamo stare che
l’uno cittadino l’altro schifasse e quasi niuno vicino avesse dell’altro
cura…”.
Camus comprende tutto ciò: “Dal momento in cui la peste aveva chiuso le
porte della città, non erano più vissuti che nella separazione, erano
stati tagliati fuori dal calore umano che fa tutto dimenticare. Con
gradazioni diverse, in tutti gli angoli della città, uomini e donne
avevano aspirato a un ricongiungimento che non era, per tutti, della
stessa natura, ma che, per tutti, era egualmente impossibile”. 

Come è attuale! L’amore al tempo del colera è stato un tempo in
dissolvenza. È una testimonianza di un vissuto eroico come in Camus e il
narrare la peste: “In verità, tutto per loro diventava presente; bisogna
dirlo, la peste aveva tolto a tutti la facoltà dell’amore e anche
dell’amicizia; l’amore, infatti, richiede un po’ di futuro, e per noi
non c’erano più che attimi”. 

Proprio i contatti i rapporti tra persone creano timore come ben ha
raccontato Boccaccio: “fu questa pestilenza di maggior forza per ciò che
essa dagli infermi di quella per lo comunicare insieme s’avventava a’
sani, non altramenti che faccia il fuoco alle cose secche o unte quando
molto gli sono avvicinate. E più avanti ancora ebbe di male: ché non
solamente il parlare e l’usare cogli infermi dava a’ sani infermità o
cagione di comune morte, ma ancora il toccare i panni o qualunque altra
cosa da quegli infermi stata tocca o adoperata pareva seco quella cotale
infermità nel toccator transportare”.
Cosa ci resta? La solitudine. 

Centanni o forse meno.

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