Dei vincitori e dei vinti

Arte, Cultura & Società

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«Solo l’osservatore, travolto anch’esso dalla fiumana, guardandosi attorno, ha il diritto di interessarsi ai deboli che restano per via, ai fiacchi che si lasciano sorpassare dall’onda per finire più presto, ai vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvegnenti, i vincitori d’oggi, affrettati anch’essi, avidi anch’essi d’arrivare, e che saranno sorpassati domani».

Di Daniela Piesco

Così scrive Giovanni Verga nella prefazione dei Malavoglia datata 19 gennaio 1881: «Vinti» sono quegli esseri umani che cercano di opporsi a un destino che, fatalmente, finirà per schiacciarli, mostrando quanto fallaci e infondate siano le loro aspirazioni, e quanto inutili i tentativi per elevarsi socialmente ed economicamente.

La storia è densa di naufragi e di naufraghi. Oggi, come per i personaggi di Verga alla fine dell’800, e come continua ad accadere, sono sempre i più deboli a pagare.

Dai primordi della vita umana, e non solo, le andate così: c’è stato un dominatore e un vinto. L’uomo, come dice il filosofo tedesco Georg Wihelm Friedrich Hegel, che si è lungamente occupato nella sua Fenomenologia dello spirito della dinamica interna alle classi sociali , ha sempre cercato la sua autoaffermazione e la sua identità nel dominio sul proprio simile.
E’ da questo istinto “primordiale”, afferma il filosofo, che nasce la civiltà, dallo scontro con l’altro, che fa prendere all’uomo “coscienza” di sé stesso.

Identificarsi col più forte, col vincitore, è da sempre motivo di vanto all’interno di ogni tipo di società, anche la più primitiva o la più ristretta. Siamo, insomma, secondo Hegel, antropologicamente portati al biasimo, al rifiuto del più debole, dell’inetto, e al riconoscimento del modello del forte e dell’impavido. Come afferma Hegel, all’inizio di questo processo (che porterà all’autoaffermazione) lo scontro è causato da motivi elementari, legati alla mera sopravvivenza. Ma man mano che aumentano e si complicano i meccanismi della società, si vengono a creare veri e propri sistemi, all’interno dei quali ci si organizza per vivere.

L’eroe vinto nella tragedia di Sofocle

Forse chi, tra i poeti tragici dell’antica Grecia, meglio ha rappresentato conflitti interiori dei personaggi e la loro immensa solitudine è Sofocle (Colono 496 a.C – Atene 406 a,C), l’autore dell’ Edipo re e dell’Aiace, le tragedie che meglio evidenziano la tesi qui portata avanti, la parabola di Edipo, della sua famiglia e della città di Tebe, rappresenta l’ascesa e il declino dell’Atene del tempo di Sofocle. La peste narrata nella tragedia è un probabile richiamo all’epidemia che colpì Atene nel 430 a. C. Inoltre, la tragedia di Sofocle è la tragedia di un uomo solo. Nel corso della storia Edipo si scoprirà sempre più isolato, allontanato dalla propria comunità. La disfatta dell’individuo, mosso dalla volontà di sapere, è il lato oscuro dell’umanesimo ateniese riassunto nel motto del sofista Protagora “l’uomo è misura di tutte le cose”.

Edipo re di Pasolini

Nel 1967 Pier Paolo Pasolini gira l’Edipo Re, un film liberamente ispirato alla tragedia di Sofocle.

Il tema del destino che si accanisce contro il singolo, incapace di vedere e discernere ciò che gli accade fino a quando è troppo tardi, viene proposto anche come metafora dell’uomo moderno, cieco verso le sue mancanze e incapace di prendere coscienza di sé e della sua situazione.

Il regista vi inserisce anche elementi autobiografici con un inizio e una conclusione evidentemente contemporanee ed estranee alla storia narrata, che hanno invece forti elementi della sua infanzia; la quasi totalità del film è invece girata nel deserto del Marocco, scegliendo uno scenario scarno e spoglio volutamente in contrasto con l’immaginario opulento e borghese di quegli anni.

Lo sconfitto può essere analizzato a livello sociale, ma se ne può anche fare un’analisi più interiore e intimistica.
Possiamo partire proprio da qui e dall’illustre esempio che ci viene offerto dalla tragedia greca, per dimostrare questa tesi attraverso la quale gli eroi che la popolano sono anche, anzi soprattutto, dei vinti.

L’eroe tragico è dunque, come abbiamo visto fino ad ora, un esempio di “vinto” un po’ sui generis. Ma se si pensa a chi, in seno ad una società, è “sconfitto”, all’idea “moderna” del “vinto”, costui deve appartenere ad una categoria di persone schiacciate, per i più svariati motivi, dal funzionamento o malfunzionamento, dal progresso (in questo caso apparente e alienante) della società in cui vive e dalla quale viene prodotto.

La personalità autoritaria

L’argomento è stato studiato dallo psicologo Theodor Adorno, negli anni cinquanta, nel suo libro: “La personalità autoritaria”.

Nel dopoguerra, gli psicologi scioccati dai crimini a sfondo razzista compiuti in pieno secolo ventesimo dai regimi totalitari furono indotti a pensare che il pregiudizio fosse il frutto di deformazioni della personalità dovute ad un’educazione sbagliata.

La prima ricerca importante su questo tema è stata compiuta dai sociologi della Scuola di Francoforte emigrati in America e guidati da Adorno. Si tratta dell’opera “La personalità autoritaria”, pubblicata nel 1950 (tr. it. Comunità, Milano 1973) nella quale si sostiene che sono gl’individui con la personalità autoritaria che tendono a formarsi opinioni distorte sugli altri e in particolare sulle minoranze, sviluppando pregiudizi etnocentrici.

La personalità autoritaria è caratterizzata, secondo l’equipe di Adorno, da rigidità morale e convenzionalismo. Le relazioni interpersonali vengono concepite in termini di potere e di status sociale, senza riguardo per l’originalità dei singoli. C’è la tendenza a idealizzare la forza e la durezza e a disprezzare debolezze e tenerezze. Mentre si è servili verso i superiori e l’autorità costituita, i deboli e i subordinati vengono guardati dall’alto in basso.

All’origine ci sarebbe un’educazione repressiva

La formazione della personalità autoritaria viene spiegata da Adorno in termini psicanalitici. All’origine ci sarebbe un’educazione repressiva. Sottoposto a continue frustrazioni, il bambino sviluppa ostilità nei riguardi dei genitori. Però non è in grado di ribellarsi e di conseguenza impara a identitificarsi con le figure autoritative o superegali e a scaricare l’aggressività sui deboli.

E’ stato dimostrato che, in ordine all’insorgere di pregiudizi nell’età infantile, fondamentale è la figura materna. Allport pone l’accento su una particolare atmosfera di rigidità che può regnare in casa, per esempio riguardo ai problemi dell’igiene. E’ possibile che nel bambino si determini un’associazione d’idee tra lo sporco e chiunque non abbia la pelle chiara.

Adorno mise a punto un questionario sulla personalità autoritaria, definito Scala F (scala del fascismo).
Negli ultimi decenni le posizioni di Adorno sono state ridimensionate. Si è compreso che non è vero che i fabbricatori di pregiudizi siano solo persone disturbate o gente che vive momenti sociali difficili. Si è fatta strada l’idea che le distorsioni conoscitive in materia sociale (social cognition) sono massicciamente diffuse e non risparmiano nessuno.

Aronson ha analizzato i cosiddetti “pregiudizi delle menti aperte”, cioè forme sottili di avversione per gruppi e categorie che si nascondono dentro pensieri apparentemente neutrali. La gente, sotto la pressione delle campagne antirazziste, passa da forme grossolane di razzismo (il cosiddetto razzismo cafonesco) ad altre sofisticate, ammantate di saggezza (il cosiddetto razzismo simbolico): dei negri non si dice più che sono primitivi, di intelligenza inferiore, sessualmente superdotati, ma che i loro valori mal si accordano col sistema capitalistico o con l’etica individualistica occidentale.

Si pensi anche (l’esempio è proposto da Aronson) al complesso di superiorità delle tipiche famiglie benestanti americane (oggi definite WASP: White, Anglo-Saxon, Protestant)(Luciano Verdone, Schede strutturate di Sociologia, Andromeda, 1999)

Dei Vincitori e  dei vinti

Come non citare anche il film dalla regia  di Stanley Kramer,su sceneggiatura di Abby Mann, ambientato in un contesto storico determinante tutta la Storia del secondo 900 che dovrebbe essere non dimenticata: questo film è un invito alla memoria e un monito allo stesso tempo. La tragedia dell II Guerra Mondiale e l’impatto devastante del nazismo sotto la lente del processo di Norimberga dove i Vinti sono giudicati dai Vincitori per le nefandezze compiute dal regime hitleriano. Il dramma e la consapevolezza della tragedia da parte del popolo tedesco, il difficile compito di giudicare di fronte alla Storia da parte degli Alleati, la extrema ratio di comporre lo scenario occidentale da parte degli Alleati insieme alla Germania, ormai divisa in due blocchi ideologici contrapposti tra Occidente e Patto di Varsavia in itinere: tutti aspetti trattati nello scenario delle storie drammatiche processuali raccontate in tre ore di film.

Un film che dovrebbe essere proiettato nelle Scuole d’Italia, per introdurre non solo la tragedia del Nazismo e le sue conseguenze nelle vite di noi Europei, ma per far capire come un processo come quello di Norimberga abbia rappresentato nella sua drammaticità la presa di coscienza di responsabilità di un intero Paese come la Germania e magari chiedersi: se ci fosse stata anche da noi una Norimberga, forse la tanto e spesso ricordata pacificazione sociale sarebbe stata raggiunta anche in Italia? Agli storici, seri, e non faziosi lascio la risposta.

Ma chi sono oggi i vinti?

Sono coloro che abitano nei quartieri degradati delle periferie delle nostre città? Sono i contadini delle campagne del sud?Sono i clochard?

Non sono più pescatori di Aci Trezza, come i Malavoglia. I vinti oggi sono gli sconfitti, prodotti di scarto di una società che ha bloccato l’ascensore sociale, non permette alcun tipo di miglioramento e costringe a un’esistenza accelerata.

La forza motrice del cambiamento che ormai domina la società umana è un meccanismo crudele che schiaccia necessariamente il più debole, il vinto. È la realtà, illusoria, che ancora oggi, in sordina, ci suddivide, a suo modo, in vinti e vincitori.

Verga ha abbassato lo sguardo sui vinti per mostrare la grandezza della battaglia che avevano combattuto e perduto, e farci capire che c’era dell’ingiustizia in quella sconfitta. Il grande nemico contro il quale avevano combattuto e perso era il destino, che poteva anche chiamarsi il mare…

Ma, come dice Verga nella sua prefazione dei Malavoglia, «Chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se riesce a trarsi un istante fuori del campo della lotta per studiarla senza passione, e rendere la scena nettamente, coi colori adatti, tale da dare la rappresentazione della realtà com’è stata, o come avrebbe dovuto essere».

Dove stiamo andando? Difficile dirlo, le bussole sembrano impazzite.

Redazione Corriere Nazionale

Redazione Radici

pH Giovanni Franco

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