“Ha diritto al suicidio anche chi non è attaccato alle macchine”

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Lo sostiene Marco Cappato, tesoriere dell’associazione Coscioni, che dopo aver accompagnato in Svizzera Elena, una donna con un cancro terminale, si è autodenunciato. Rischia 12 anni di carcere.

di Manuela D’Alessandro

 

© @AGI –  Marco Cappato davanti alla caserma di Milano dove si è autodenunciato

 

AGI –  Il posto è sempre quello, la caserma dei carabinieri di via Fosse Ardeatine vicino al Duomo di Milano. E’ cambiato molto da allora, ma non ancora abbastanza per Marco Cappato che il 2 febbraio del 2017 venne a denunciarsi per aver aiutato a morire in Svizzera un giovane uomo cieco e paralizzato dopo un incidente e ora per avere fatto lo stesso, ieri, con una donna di 69 anni sofferente per un cancro in fase finale.

“Una discriminazione insopportabile”

Nel nome di Fabiano Antoniani, che tutti conoscevano come Dj Fabo per la sua passione di far ballare i ragazzi di tutto il mondo, la Consulta ha riscritto nel 2019 le regole del fine vita in Italia stabilendo che esiste un diritto al suicidio assistito in presenza di certe condizioni e facendolo assolvere dai giudici milanesi.

Per Elena c’erano tutte tranne una: non era attaccata a nessuna macchina, respirava con fatica ma da sola.

“Una discriminazione insopportabile tra i malati che soffrono. Immaginare che da questo debba dipendere il diritto a evitare l’’inferno’, come Elena ha definito il suo orizzonte di vita se non se ne fosse andata prima, non è degno di un Paese civile” dice Cappato che ripete più volte, prima e dopo le dichiarazioni in caserma, che “se ce lo chiederanno lo rifaremo con altre persone e tocca alla magistratura decidere se c’è il pericolo di reiterazione del reato”.

Ai carabinieri, con al fianco l’avvocato Filomena Gallo, ha raccontato “nel dettaglio” quello che ha fatto, scrivendosi il suo capo d’imputazione. “Volevo essere preciso in modo che fosse chiaro che il mio è stato un aiuto indispensabile per Elena perché non avrebbe mai accettato di mettere a rischio  il marito e la figlia. Alla sette del mattino sono andato in auto nel suo paese in Veneto, ho citofonato, sono salito in casa e poi l’ho accompagnata in auto a Basilea dove l’ho aiutata a interpretare quello che chiedevano prima di procedere. L’ho fatta sentire un po’ meno in esilio, per quanto possibile”.

Il reato di ‘aiuto al suicidio’ prevede la pena massima di 12 anni di carcere. “Pronto ad andarci? Il nostro obbiettivo non è lo scontro, il vittimismo o il martirio. Siamo qui con la speranza che le aule di Tribunale possano riconoscere, com’è accaduto per Fabo, un diritto fondamentale. Certo, il rischio lo conosciamo. Quando Elena è venuta da noi, avremmo potuto girare la testa dall’altra parte o farci carico della sua richiesta esponendoci alla luce del sole”.

Il silenzio del Parlamento e il no al referendum

In questa scelta, indica dei responsabili per omissione. “Il Parlamento che non ha discusso nemmeno un minuto in due legislature la nostra iniziativa di legge popolare sul fine vita, che così è decaduta, e che non ha dato seguito alle richieste della Consulta di fare chiarezza; l’attuale Corte Costituzionale,  presieduta da Giuliano Amato, che ha impedito agli italiani di decidere liberamente sull’eutanasia bocciando il quesito referendario”.

Per accedere al suicidio assistito in Italia occorrono la presenza di “una patologia irreversibile, una grave sofferenza fisica o psicologica, la capacità di prendere decisioni libere e consapevoli e la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale”. Prima di morire a Basilea, Elena ha registrato un video messaggio.

Il respiro difficile per il cancro ai polmoni ma le parole molto chiare: “Sono sempre stata convinta che ogni persona debba decidere sulla propria vita e debba farlo anche sulla propria fine, senza costrizioni, senza imposizioni, liberamente, e credo di averlo fatto, dopo averci pensato parecchio, mettendo anche in atto convinzioni che avevo anche prima della malattia. Avrei sicuramente preferito finire la mia vita nel mio letto, nella mia casa, tenendo la mano di mia figlia, la mano di mio marito. Purtroppo, questo non è stato possibile e quindi sono dovuta venire qui da sola”.

Alla fine, ha salutato le persone “che mi vogliono e mi hanno voluto bene” da uno schermo. La Procura nelle prossime ore riceverà la denuncia e aprirà un’indagine.

L’inizio della storia è identico a quello di cinque anni fa. Un uomo che aveva chiesto aiuto all’associazione per un familiare è confuso tra i militanti dell’associazione Coscioni davanti alla caserma.

Dopo che ha finito le interviste, si avvicina a Cappato e lo abbraccia in lacrime spiegandogli che, nel frattempo, il suo caro è morto.

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