I 70 anni dalla scomparsa di Cesare Pavese – Lo scrittore che innova per una celebrazione oltre il realismo

Arte, Cultura & Società

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di Pierfranco Bruni*

Quando gli occhi del nuovo giorno resteranno nell’immenso dell’indefinibile le tristezze conosceranno il gorgo muto. Cesare Pavese. In quel “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” si spegneva incanto e disincanto di un uomo, di un poeta, di uno scrittore. Era la notte del 26 agosto 1950. Albergo Roma. Torino.
Compagno di strada tra scavi nella parola e abitazione di tempo tra l’indefinibile viaggio omerico e l’amore per una donna venuta oltre frontiera. Era lei, Costance, quella verde luna che lo aveva amato e poi era partita distante dall’oblio mediterraneo di una Leucò alla quale Cesare aveva affidato il suo destino.
Per Costance o forse per l’amore o forse perché quella scrittura e quelle parole avevano smesso di essere origine. I gatti continueranno a saperlo e Piazza di Spagna resterà con i fiori sui gradini.
La mattina del 27 agosto del 1950 un gatto attraversa la soglia della camera dove si trova il corpo inerme di Cesare Pavese. Una estate torrida. Una fine estate in una Torino ancora intrecciata nell’oblio. Bustine di sonnifero e un bicchiere vuoto. Sul comodino il suo romanzo testamento: “Dialoghi con Leucò”. Sulla prima pagina una frase majakoschiana: “non fate troppi pettegolezzi”. Non uno sparo ma il sonno.
L’oblio lento per scendere in quel gorgo che sarà un vizio assurdo. Aveva soltanto 42 anni ma aveva scritto tanto, aveva dato poesie agli uomini e con la sua umiltà, con la sua coerenza nel linguaggio, nello stile della parola, nel suo costante antirealismo era riuscito a rompere gli schemi di una letteratura imperante dominata da un ideologismo deleterio.
Pavese era fuori dagli schemi. Pensa, scrive e pubblica “Lavorare stanca” in un contesto di dominio ermetico. Montale e Ungaretti si contendevano il primato. Erano gli anni Trenta. 1936. Quei “Mari del Sud” disegnano una metafora onirica, melviliana, witmaniana e omerica. Non ci sono sogni infranti. C’è un ulissismo che non si pone ancora le domande offerte da Calipso.
L’eternità o l’amore. Verranno altri giorni. “Paesi tuoi”, “La spiaggia”, “Il diavolo in collina”, “Tra donne sole”, “Il compagno”, “La casa in collina”, “Il carcere”. E così poi dimenticando altri titoli, pubblicò i suoi libri dalla fine degli anni Trenta al 1950, si giunge ai Dialoghi, a terra rossa terra nera, a verrà la morte, a la luna che cerca il falò… Scrive quella terra e la morte e verrà la morte… in una stagione di pieno realismo. Poesie che hanno un forte accento simbolico ed ermetico. Nei processi realisti Pavese si impone simbolista ed ermetico… Già.
Negli ultimi anni tra disamori e amori giungono ancora altre le donne: quella della voce roca, di anni prima, ritorna a recitare, l’attrice americana, la donna di fuoco grande… Questo mio volto triste… In te in un attimo ho visto la vita e la morte scriverà a Constance … ma non ci uccide per una donna…
Così, frammenti di lettura nel mio scavo quarantennale dedicato ad un poeta e scrittore fondamentale nella letteratura europea. Alcuni avranno timore di ammetterlo, altri parleranno di uno scrittore non cresciuto, altri ancora non sapranno cosa dire e ammetteranno il suo non conformismo alla cultura marxista. Già, Pavese non fu mai comunista e tanto meno marxista e tanto meno ancora è da classificarlo in una letteratura realista.
I non lettori di Pavese, chi ignora gli scritti di Cesare, chi ha la struttura comunistoide inserirà Pavese tra i neorealisti ma sappiamo bene che l’ignoranza dilaga. Perché? Ma Dio Santo… o dio del sole… Quando è lo stesso Pavese ad affermare che non ha mai inteso scrivere un testo neorealista e di non considerarsi tale e di non essere considerato annoverabile tra i neorealisti … tanto che è stato costretto addirittura a rispondere ai critici ignoranti o alla mediocrità dell’antologismo scolastico con una sua straordinaria premessa nella prima edizione di “Dialoghi con Leucò” affermando la supremazia dei simboli, del mito, del sogno, delle nostalgie sul semplicismo della descrizione …
Pavese è altro. Il poeta è il viaggiatore nell’invisibile… Forse un vizio assurdo… Non so se i gatti continueranno a saperlo o se quel suo fuoco grande continuerà ad avere fiamme o se la luna ha completamente spento il falò o se la cenere che ha bruciato Santa si è completamente dispersa nel vento delle alchimie …
Certo, ci saranno altri giorni e altri giorni verranno ma il destino è un labirinto e Cesare, grande studioso di Mircea Eliade, conosceva bene sia il filo di Arianna sia le parole di Tiresia … Il destino. Tutto è destino …
Anche vinto il nemico resta un uomo e bisogna dare senso al sangue sparso e quei morti, i morti repubblichini, restano uomini fino in fondo… Quegli uomini che Pavese aveva raccontato in “La casa in collina” non sono né peggiori né migliori di quelli che sparavano alla nuca, i partigiani, raccontati in un bel capitolo de “La luna e i falò”… sono sempre loro… quelli che sparano alla nuca.
Ma leggetelo Pavese e non consegnate versioni non attendibili alle nuove generazioni …
Resta ancora l’interrogativo? Da chi fu bruciata Santa? Non toccate Pavese con le lenti del tutto scontato dalla critica scontata, vi potete confondere? Santa fu bruciata dai comunisti e il giorno dopo del falò che si alzava con fiamme alla luna non rimase altro che cenere
Di quale Pavese vogliamo Parlare? Del vizio assurdo, di Costance, dell’anticomunista, dei difensore dei repubblichini… Di quale? Pavese, ancora oggi, resta scomodo. Questo è il punto! Il nemico quando è vinto bisogna sempre rispettarlo …
Forse aveva ragione Odisseo o Calipso? Pavese è il riferimento poetico oltre la ragione dello storicismo. Lo scrittore non amato da Moravia, odiato da Paletta, distorto da Natalie, apprezzato e capito da Diego Fabbri in una paziente religiosità nel teatro umano delle anime salve …
Sono trascorsi sessantuno anni. Un poeta nel mito oltre l’inaffidabile realismo in una letteratura tra il tragico e il tempo. Non un ricordo ma una permanenza in questa mia vita. Le parole incrociate lungo i destini di memoria e il senso delle partenze.
I mari del Sud hanno una metafora negli scavi di un tempo che ha attraversamenti. Cesare e Costance. senza sorriso. Un ulissismo che ha voce tra Tiresia e Calipso. Cosa resta? Continuo tra le ombre e la grazia.
Cesare ritorna con il suo canto, il recitativo e il tentativo di salvezza. La luna cammina tra le scogliere. Il falò è un cerchio in una fiamma rivelante. Quella fiamma che diventa grazia come in Maria Zambrano. Il suo vero amore? Bianca Garufi. Pavese andrebbe letto anche attraverso le coordinate “abitanti” o dell’abitare le parole testimoniate dalla Zambrano, che non ha conosciuto Pavese ma che con l’allegoria dei destini si sono trovati a vivere la metafora indissolubile del misterioso viaggio.

*Presidente Nazionale Centro Studi Francesco Grisi

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