Il lento tramonto del Sant’Uffizio

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Non sarà più il primo dei dicasteri della Curia, sopravanzato da una nuova creatura dedicata non a condannare ma a persuadere.

© Cristiano Minichiello / AGF –

AGI – Il nuovo nome è stato ufficializzato mezzo secolo fa, ma nel linguaggio comune molto spesso resta ancora valido quello vecchio: vuoi per brevità, vuoi per le emozioni lontane che è ancora in grado di evocare. Così la Congregazione per la Dottrina della Fede continua ad essere indicata come l’ex Sant’Uffizio, denominazione che sa nel sentire comune di fustigatrice dei libri proibiti e di tribunale dalle terribili sentenze.

La sua storia è cinquecentenaria ed inizia nei fatti ancor prima che a Trento il Concilio innestasse la storia della Riforma Cattolica in quella della Controriforma. Oggi, dopo i colpi assestatigli da tre papi dopo un altro concilio, il Vaticano II, un nuovo – fortissimo – declassamento. Non sarà più il primo dei dicasteri della Curia, sopravanzato da una nuova creatura dedicata non a condannare ma a persuadere. E in una struttura governo divenire secondi dopo secoli di lustro è un colpo molto duro.

Nato nel 1542 per volere di Paolo III Farnese sull’evoluzione dell’Inquisizione Romana (ben più mite della consorella Spagnola) ricevette nove anni dopo anche la competenza sull’Indice dei libri pericolosi per la fede.

Non una cosa inusuale, all’epoca, che uno Stato avesse uno sportello preposto al controllo e alla censura: anche la Repubblica di Venezia era dotata del suo, e funzionava bene. Si chiamava “Ufficio degli Esecutori contro la Bestemmia”; viene un brivido solo a sentire il nome.

Sisto V, il vero fondatore dello Stato della Chiesa come sarebbe durato fino ai tempi dei bersaglieri, assegnò alla Sacra Congregazione del Sant’Uffizio i compiti e le strutture poi rimaste nei secoli. Il cardinale prefetto, ad esso preposto, avrebbe assolto agli uni e gestito le altre attraverso momenti di particolari difficoltà per la Chiesa, talvolta con sagacia, altre volte con minor lungimiranza.

È il caso, per dire, di Antonio Rosmini: il suo “Le Cinque piaghe della Chiesa” finì all’indice nel 1849, non appena Pio IX ritornò da Gaeta, per divenire un secolo esatto più tardi uno dei testi preparatori del Concilio Vaticano II. Quanto a lui, ci fu la proclamazione a beato nel 2007: grande la sofferenza, grande la gloria. A Giordano Bruno toccò ancor più della prima, e della seconda tutto sommato poco.

Per dire: se Galileo ebbe i suoi grattacapi con il Sant’Uffizio (ma a costringerlo all’abiura non fu Bellarmino, contrariamente alla vulgata), con l’Indice in particolare ebbero a misurarsi anche Newton, Croce e persino Don Milani, per non parlare dei modernisti.

Viene facile immaginare la sua opera come una immensa quanto perdente battaglia di retroguardia, ma a guardar bene i manuali di storia moderna si ha la sensazione che il vezzo del controllo delle opinioni non fosse solo della Chiesa Cattolica, e che certi episodi di intolleranza fossero in qualche modo connaturati alla nascita delle istituzioni statuali da cui solo poi sarebbe scaturito lo stato liberale.

E poi c’è anche la vendetta della Storia, o eterogenesi dei fini come dicono gli studiosi. Nel senso che ogni processo ha le sue carte, ogni tribunale i suoi archivi. Quando sotto processo finiscono le idee, le carte sono libri e gli archivi divengono, loro malgrado, delle biblioteche. Spesso scrigni di tesori, perché i libri bruciati finiscono per essere conservati in unica copia a casa di chi accende il fiammifero. In questo modo l’unico esemplare originale dell’Etica di Baruch Spinoza, per dire, è riemerso alla luce del sole solo pochi anni fa, individuato da due studiosi olandesi negli scaffali più dimenticati dell’archivio dell’ex Sant’Uffizio. Ringraziamolo pertanto suo malgrado, il Sant’Uffizio, ed anche Spinoza sarà più contento.

Ciò non toglie che, all’indomani dell’ultimo concilio, un Papa ben immerso nel suo tempo decise di cambiar nome alla creatura di Sisto V e Paolo III. E siccome è già nel Genesi il fatto che il nome è parte determinante della natura e dell’anima, cambiando nome al Sant’Uffizio Paolo VI volle chiaramente ritoccarne le caratteristiche fondamentali. Ecco che nasce la Congregazione per la Dottrina della Fede, definizione che lascia intendere come il pontefice che aveva raccolto la difficile eredità di Giovanni XXIII volesse non solo vino nuovo in otri nuovi, ma anche certezza sui valori e sui principi. Nessuna condanna, ma fraterna indicazione anche nei confronti di chi reagiva al Concilio chiudendosi a riccio oppure con confuse fughe in avanti.

Era il 1965, tempi in cui Montini raccoglieva i primi frutti dell’Ostpolitik vaticana e soppesava l’istituzione della giornata mondiale della Pace. Un ventennio dopo il quadro era radicalmente mutato. Giovanni Paolo II, un anno prima del fatidico 1989, emanava la costituzione “Pastor Bonus” in cui metteva nero su bianco che la Congregazione avesse come compito quello di “promuovere e tutelare la dottrina della fede e i costumi in tutto l’orbe cattolico”.

Insomma: un occhio alla Teologia della Liberazione, ma l’altro alla secolarizzazione promossa dal relativismo occidentale. Non a caso ormai da anni il prefetto curatore si chiamava Joseph Ratzinger. Avrebbe occupato il posto fino al 2005, anno della sua elevazione al Soglio di Pietro.

Secondo il volere di Wojtyla, la rinnovata Congregazione si articolò in tre uffici: disciplinare, dottrinale e matrimoniale. Se il compito del terzo è delicatissimo, visto il ruolo centrale che matrimonio e famiglia hanno anche nella pratica della Chiesa, sono il primo ed il secondo ad essere stati oggetto negli anni del pubblico interesse. Il secondo di fatto usa l’indice per segnare la strada da percorrere in materie di magistero. Il primo, poi, giudica i delitti contro la fede e – cosa molto delicata – quelli che riguardano abusi sessuali commessi da ecclesiastici. In questa fase della storia della Chiesa, luogo nevralgico di decisioni gravi e delicate.

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