Il lupo solitario che ferì un militare a Milano era pronto al “salto di qualità”

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Lo scrivono i giudici di Milano nelle motivazioni alla sentenza dicondanna di Mahamad Fathe, il 26enne yemenita che nel settembre 2019 aveva ferito con un paio di forbici un militare alla stazione Centrale di Milano.

 
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Un’azione da ‘lupo solitario’, ma pronto a fare un “salto di qualità” nel campo del terrorismo. E’ così che i giudici dell’ottava sezione penale di Milano hanno definito il gesto di Mahamad Fathe, il 26enne yemenita che nel settembre 2019 aveva ferito con un paio di forbici un militare alla stazione Centrale di Milano. Il quadro è stato tracciato nelle motivazioni con cui i togati spiegano la condanna a 14 anni e sei mesi per tentato omicidio aggravato dalle finalità terroristiche e violenza a pubblico ufficiale pronunciata il 26 novembre scorso. 

“Nell’azione di Mahmad Fathe riecheggiano inevitabilmente tutte le principali sfaccettature del terrorismo contemporaneo, poiché la sua eclatante violenza si colloca in pieno all’interno del solco culturale ed operativo sopra descritto, tracciato dai ‘lupi solitari’ e rinsaldato dalle organizzazioni terroristiche internazionali, che a tale fenomeno hanno concesso il crisma dell’autenticità”, si legge nelle 22 pagine a firma della presidente Maria Luisa Balzarotti. Che, insieme ai collghi Nosenzo e Iannelli ha deciso di aggravare di tre mesi la pena, rispetto a quanto chiesto nel processo dal pm Enrico Pavone.

Per i pm si era “inserito nel solco del terrorismo”

“E proprio l’essersi inserito nel solco” del terrorismo “attraverso la plateale auto-denuncia di fondamentalismo religioso, con il ‘grido di battaglia’ Allah Akbar, conferisce all’agito di Mahmad Fathe la sua concreta specifica pericolosità, costituita dall’implicita chiamata alla reiterazione da parte di altri soggetti animati dagli stessi intenti”, prosegue il collegio .

In prospettiva un’azione del genere avrebbe potuto causare “un grave danno al Paese”, per “riprendere le espressioni utilizzate dalla Suprema Corte”, visto che “la vocazione dell’imputato” era proprio “quella di innestarsi in una più ampia serie causale il cui motore può inviduarsi nell’emulazione di matrice religiosa”. 

Benché Fathe non fosse inserito in “ambienti eversivi organizzati” la sua personalità risulta “quantomeno incline ad un salto di qualità” verso il terrorismo “con conseguente accentuato pericolo per l’ordine pubblico”.  

Decade per i magistrati la versione difensiva, portata avanti dalle avvocatesse Paola Patruno e Nicola Saettone, che nel corso del processo, avevano contestato l’aggravante terroristica puntando a convincere la corte a riconoscere le attenuanti vista la condizione di “disadattamento” del giovane yemenita.

Una circostanza che “non è incompatibile – scrivono i giudici – con la finalità di terrorismo. Anzi: “il fatto che l’imputato sia precario sul territorio italiano, privo di attività lavorativa e di stabile inserimento sociale, rende più possibile che lo stesso finisca per orbitare più o meno stabilmente in circuiti criminali”. Inoltre, le sue dichiarazioni nel processo sono state definite “contraddittorie e nebulose”.

“Ha mostrato una temerarietà fuori dal comune”

“Il profilo dell’intimidazione diffusa è strettamente connesso al pericolo di ‘grave danno’ insito nella prassi operativa dei lupi solitari” che il 26enne, secondo la Corte, “aveva di fatto ha scelto di fare propria”.

“La spettacolare azione di Mahmad Fathe consistita nel ‘pugnalare’ al collo un militare impegnato in un presidio fisso, e quindi presumibilmente armato, rivela già di per sé una temerarietà fuori dal comune”, continuano i togati. Che in un altro passaggio delle motivazioni sottolineano la “portata macro-intimidatoria” dell’azione, realizzata in una “piazza ad alta frequentazione”, il che “restituisce alla popolazione la chiara percezione di una insicurezza generalizzata e di pericolo costante, ciò soprattutto in forza del plateale richiamo al terrorismo di matrice islamista”.

Già il pm Enrico Pavone, nella sua requisitoria aveva sottolineato come il punto in cui il 26enne colpì il militare, ovvero il collo, era un chiaro segnale della sua intenzione di uccidere, trattandosi di una “parte vitale del corpo umano”.

Ma i giudici vanno oltre: la singola violenza in questo caso “trascende la sua dimensione periferica” rievocando “una entità malevola più grande e ineffabile che di tanto in tanto, in modo cieco e imprevedibile, si manifesta e miete vittime”.

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