Il milite ignorato: storia o fiabe?

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Tutto lasciava credere che sulla scia del centenario dell’intervento nella Grande Guerra e della Vittoria del 4 novembre 1918 quello della Tumulazione del Milite Ignoto sarebbe stato ricordato degnamente. L’attesa, va detto con franchezza, è andata pesantemente delusa.

Un Centenario in tono dimesso

I Centenari ricorrono una volta al secolo. Ogni giorno se ne contano a bizzeffe, secondo popoli, paesi e “sensibilità” collettive e/o personali. I più scorrono via nell’indifferenza generale.

Alcuni invece hanno un significato particolare perché  l’evento memorando è (o dovrebbe essere) nella coscienza generale. Ne abbiamo avuto esempio nel marzo 2011, quando venne ricordato il 150° del regno d’Italia, sia pure rievocato sotto l’etichetta impropria di “unità nazionale” (nel 1861 mancavano Venezia, Roma, Trento, Trieste…).

Tutto lasciava credere che sulla scia del centenario dell’intervento nella Grande Guerra e della Vittoria del 4 novembre 1918 quello della Tumulazione del Milite Ignoto sarebbe stato ricordato degnamente.

L’attesa, va detto con franchezza, è andata pesantemente delusa. Senza voler spargere sale sulle ferite, i due “manifesti” approntati con egida dei massimi livelli (inclusa la Presidenza del Consiglio dei ministri, ovvero l’ignaro Mario Draghi) sono risultati grossolanamente sbagliati: errori marchiani, imbarazzanti e inescusabili.

Arrampicandosi sui vetri, l’apposita “struttura” ha addotto attenuanti risibili: i tanti impegni (un Centenario si improvvisa all’ultimo minuto…?) e addirittura la difficoltà di accedere a chissà quale “fonte” per sapere come era  fatto l’elmetto del fante italiano.

Fu così che nel “manifesto” del Ministero della Difesa (a quanto pare non affisso: le copie in circolazione diventeranno una sorta di “Gronchi-rosa”) è stato “stampato” un soldato con elmetto francese, anacronistiche stellette sul bavero e un tricolore stropicciato fra le mani, naturalmente senza ombra di scudo sabaudo. Fa il paio con il manifesto precedente, sul quale, anziché un Milite italiano, era raffigurato un soldato americano sullo sfondo di una carta geografica dell’America Latina…

Lo Stato non ha diritto di declassare la Storia a mera fiaba a fumetti. Men che meno nel ricordo del Milite Ignoto, simbolo del sacrificio della Nazione per il coronamento del Risorgimento.

Non bastasse la RAI la sera del IV novembre in “La scelta di Maria” ha narrato il Milite Ignoto focalizzando tre “personaggi”: Maria Maddalena Bergamas, deputata a scegliere la salma da tumulare all’Altare della Patria fra le undici raccolte nella Basilica di Aquileia; uno degli ufficiali incaricati della ricognizione delle sepolture e il ministro della Guerra all’epoca in carica, Luigi Gasparotto.

A parte gli spezzoni tratti da riprese d’epoca (gli unici meritevoli di essere visti), il filmato risulta del tutto privo di valore “didattico”. Il suo filo conduttore è la guerra dell’Italia contro “gli austriaci”, anziché, come in effetti fu, contro gli Imperi Centrali (austro-ungarico e germanico), quello turco-ottomano e il regno dei Bulgari: cioè un conflitto europeo prima ancora che l’Italia vi intervenisse, sbagliando la tempistica, senza adeguata preparazione e con retropensieri (l’arcaico “sacro egoismo”: moneta vecchia in un mondo nuovo) che suscitarono l’irritata diffidenza dei suoi nuovi alleati, in specie Gran Bretagna e Francia.

Gli errori del governo prima e dopo la Vittoria

Lo sceneggiato ha enfatizzato il ruolo del ministro Luigi Gasparotto quale artefice e regista della Cerimonia. Gli ha attribuito meriti che non sono affatto suoi e non ne ha ricordato il profilo politico autentico. Insomma, non ha fatto in alcun modo “storia”. Per quanto superfluo e ripetitivo, i primi a celebrare il loro Milite Ignoto furono gli inglesi e i francesi, che dalla Grande Guerra uscirono “più vincitori” non perché fossero prevalsi sul campo di battaglia ma perché seppero prevalere al tavolo della pace.

L’Italia fu la prima potenza in lotta a sconfiggere gli avversari sul fronte bellico, con la battaglia di Vittorio Veneto, che costrinse Vienna ad arrendersi alle condizioni chieste dal Comandante Supremo Armando Diaz: il diritto degli italiani ad attraversare in armi il territorio nemico per colpire la Germania da sud. Quella dell’Italia fu una “vittoria strategica”, come era stata immaginata da Luigi Cadorna sin dalla preparazione dell’ingresso in guerra: irrompere dell’Austria-Ungheria per far esplodere l’insurrezione dei “popoli oppressi” che da metà Ottocento guardavano al modello italiano di Stato nazionale. Sennonché, dopo l’arretramento del fronte dall’Isonzo al Piave tra il 24 ottobre e il 9 novembre 1917, il nuovo governo presieduto da Vittorio Emanuele Orlando, consentì che i vertici militari (Cadorna, il suo vice, Porro, il comandante della II^ Armata, Luigi Capello…) venissero sottoposti a una “Inchiesta” che si risolse in pesante accusa di incapacità, soprattutto nell’interpretazione di molti quotidiani.

Al Congresso di Versailles la delegazione italiana (Orlando, il ministro degli Esteri Sidney Sonnino e i loro pochi e non sempre adeguati consiglieri) si condussero secondo criteri prebellici, tanto da essere sfiduciati alla Camera ancor prima della firma del Trattato tra i vincitori e la Germania, il 28 giugno 1919, quinto anniversario dell’assassinio di Francesco Ferdinando d’Asburgo e della consorte a Sarajevo: quasi una firma in calce all’attentato.

Nei mesi seguenti la polemica imperversò e lacerò il Paese, specie quando, in risposta al Trattato di pace con l’Austria (detto di Saint-Germain) risultò che l’Italia non aveva ottenuto Fiume, da mesi indicata quale annessione indispensabile per non rendere mutilata la vittoria.

Sotto la guida del poeta- guerriero Gabriele d’Annunziò, debitamente istruito da logge e da cospiratori in divisa, reparti militari e volontari di vario orientamento (parecchi repubblicani fanatici) decisero di andare a prendere quello che era stato negato.

La “questione di Fiume” divenne “italiana” perché si riverberò sull’instabilità del governo presieduto da Francesco Saverio Nitti, più volte in crisi per l’opposizione di socialisti (parte dei quali filosovietici) e del neonato partito popolare italiano, capitanato da don Luigi Sturzo.

I socialisti contro l’ordine costituito e la riscossa della monarchia 

L’acme della crisi politica si registrò il 1° dicembre 1919 quando i 156 deputati socialisti uscirono dall’Aula di Montecitorio cantando l’Internazionale proprio mentre Vittorio Emanuele III stava iniziando a pronunciare il Discorso della Corona per l’apertura della XXV legislatura.

Da sociale ed economica la crisi stava precipitando in istituzionale. Nitti, che il 20 ottobre 1919 aveva proclamato festivo il 4 novembre rinviando però ogni festeggiamento in vista delle elezioni politiche del 16 novembre, dopo ripetuti rimpasti e il varo di un secondo governo (che durò poche settimane) cedette il campo al vero artefice della ricostruzione dell’Italia, il settantottenne Giolitti, monarchico e liberale senza se e senza ma, che operò di concerto con il re.

Mentre il colonnello Giulio Douhet (citato con elogio nel filmato RAI) mirava a contrapporre il Milite Ignoto alle gerarchie militari, alimentando una lacerazione che andava invece guarita, il governo puntò a restituire alle Forze Armate il prestigio conquistato sul campo.

La prima grande “prova generale” avvenne il 4 novembre 1920, con la Festa delle Bandiere militari all’Altare della Patria. Per comprenderne l’importanza va ricordato che nel settembre precedente le regioni industrializzate (Piemonte, Liguria, Lombardia, qualche lembo della Toscana…) erano state teatro della “occupazione delle fabbriche” voluta dall’ala estrema del partito socialista italiano, capitanata dall’“Ordine Nuovo” di Antonio Gramsci, Angelo Tasca, Palmiro Togliatti “e simili…”, convinti che potesse scaturirne la rivoluzione politica sull’esempio di quanto era avvenuto in Russia nell’ottobre 1917 incluso lo sterminio della Casa Reale.

Come previsto da Giolitti, l’“occupazione” si esaurì. Pochi giorni dopo la Festa delle Bandiere la coalizione governativa registrò due successi di rilievo: la vittoria di blocchi nazionali alle elezioni dei consigli comunali e provinciali (che non si rinnovavano dal 1914) e il Trattato italo-jugoslavo di Rapallo che il 12 novembre restituì a Fiume lo stato di corpus separatum, favorevole al prevalere dell’influenza dell’Italia senza bisogno del ricorso alle armi. Quando fece sgomberare d’Annunzio da Fiume (dicembre 1920), il governo ebbe il consenso della generalità del Paese, avviato alla “normalità”.

Da quel momento anche in Italia venne accelerata la celebrazione del Milite Ignoto, non per contrapposizione tra soldati e gerarchie ma per la loro unione.

Dopo le elezioni politiche del 15 maggio 1921 e l’inaugurazione della XXVI legislatura (11 giugno) in un clima di ritrovata coesione civile e di disciplina (parola d’ordine del re e del presidente del Consiglio), il 20 giugno venne presentato il disegno di legge “per la sepoltura di un soldato ignoto” in Roma, senza indicazione della sede scelta per la tumulazione.

La celebrazione, affermò il ministro della Guerra Giulio Rodinò di Miglione, deputato del partito popolare italiano, rispondeva “alla coscienza che un popolo civile, uscito vittorioso dalla guerra”, aveva maturato “non solo della forza acquistata ma anche dei propri doveri verso quanti nella guerra trovarono morte gloriosa”.

Dinnanzi al dissenso del gruppo parlamentare dei Democratici sociali, capitanati dal teosofo duca Giovanni Antonio Colonna di Cesarò, Giolitti rassegnò le dimissioni. Ministro della Guerra del nuovo governo, presieduto da Ivanoe Bonomi, già socialista, poi socialista riformista e infine “democratico”, la più vaga delle etichette, fu nominato Luigi Gasparotto (Sacile, Udine, 3 maggio 1873 – Cantello, Varese, 29 giugno 1954).

Luigi Gasparotto: un “garibaldino” in cerca…

Quale fu il suo percorso politico? I videospettatori non ne hanno potuto capire nulla da “La scelta di Maria”. È quindi opportuno ricordarlo, poiché esso costituisce paradigma del marasma che dominò la vita pubblica italiana prima, durante e dopo la Grande Guerra. Figlio di un garibaldino fervente, seguace dell’Eroe nel 1866 e nella campagna del 1867 chiusa con lo sbandamento a Mentana sotto la fucileria francese, laureato in giurisprudenza a Padova, avvocato a Milano dal 1897, iscritto alla Società democratica lombarda, folta di massoni (ma non è affatto documentata la sua affiliazione: l’unico Gasparotto in loggia fu un Giuseppe, avvocato, iniziato il 1° dicembre 1892 alla “Arnaldo da Brescia”), a studi giuridici e ad articoli per la “Critica sociale” di Filippo Turati e Claudio Treves a sostegno del pubblico impiego (da lui definito “proletariato del pensiero”), Gasparotto unì militanza politica e ambizioni parlamentari.  

   Sconfitto nel 1909, fu eletto nel 1913 nel collegio Milano IV ove con 2214 voti prevalse sul cattolico moderato Carlo Ottavio Cornaggia per 134 preferenze su 6258 votanti e oltre 12.000 aventi diritto. Ottenne i il 20% dei voti potenziali. Avversario dell’“impresa di Libia” (per ostilità verso Giolitti più che per cognizione di causa), poi fautore dell’intervento nella Grande Guerra a fianco dell’Intesa anglo-franco-russa, il 27 maggio 1915 si arruolò volontario rinunciando all’esenzione riservata ai deputati e si condusse con valore meritando due medaglie d’argento, una di bronzo e due croci di guerra, cui si aggiunse la francese Legion d’Onore.

Da un Fascio all’altro

Dopo Caporetto fu tra i fondatori del “Fascio parlamentare di difesa nazionale”  (10 dicembre 1917), che accomunò interventisti democratici (ignari dei vincoli sottoscritti dal governo) e nazionalisti ed ebbe il sostegno del “Popolo d’Italia” dell’ex socialmassimalista Benito Mussolini. “Fascio”, va ricordato, era un termine largamente usato dalla Sinistra radicale e repubblicana. 

Tra i fondatori dell’Associazione nazionale combattenti, nel dopoguerra Gasparotto avversò i governi Nitti e Giolitti. In vista delle elezioni del 1919 propugnò il conferimento del diritto di voto attivo e passivo alle donne. Il disegno di legge, approvato dalla Camera il 5 settembre 1919, decadde per lo scioglimento della legislatura. Candidato nella lista degli ex combattenti e eletto a Milano e nella circoscrizione Udine-Belluno, optò per il secondo.

Tra i componenti del gruppo parlamentare Rinnovamento nazionale, nelle elezioni politiche del 1921 fu candidato nelle circoscrizioni di Milano-Pavia e Udine-Belluno nelle file del Blocco nazionale comprendente liberali, democratici, ex combattenti e fascisti. Vicepresidente della Camera (13 giugno 1921), fu voluto da Bonomi al dicastero della Guerra (4 luglio 1921-26 febbraio 1922). La sua opera di ministro è sapidamente ripercorsa da Angelo Gatti.

Gasparotto propugnò la “nazione armata”: riduzione della “ferma” a 12 mesi per formare un esercito bilanciato di 20 divisioni, sorrette da centri di mobilitazione permanente, pronti a mobilitarne altre 20 divisioni in caso di guerra. Dall’infanzia entrambi i sessi dovevano essere formati con esercizi pre-militari, da affiancare all’insegnamento scolastico orientato al culto della tradizione mazziniano-garibaldina. In concreto puntava alla militarizzazione permanente dei cittadini, poi propugnata dal regime, sino alla retorica mitizzazione degli “otto milioni di baionette”.

Come scrive il suo biografo Lucio D’Angelo, Gasparotto mostrò notevole indulgenza verso il fascismo, come la maggior parte dei demosociali e dei liberali. Il movimento era considerato utile per ripristinare l’ordine dopo il biennio rosso e il perdurante dilagare della scioperomania. D’intesa con Cesare Maria De Vecchi, futuro quadrumviro, e il nazionalista Luigi Federzoni, tra il settembre e l’ottobre 1921 Gasparotto condusse in porto la complessa ricerca del Milite Ignoto e la sua tumulazione al Sacello della Dea Roma sulla terrazza dell’Altare della Patria: una Cerimonia il cui “Sommo Sacerdote” non furono né lui né Bonomi ma il Re, Vittorio Emanuele III, pressoché ignorato dalla “Scelta di Maria” otre che dalle rievocazioni “ufficiali” del Centenario.

Il 17 dicembre 1922 Gasparotto votò a favore del presidente del Consiglio Benito Mussolini, fidente nel “suo cuore di soldato e di cittadino”. Del nuovo governo faceva parte il demosociale Colonna di Cesarò, ministro di Poste e Telegrafi. Già propugnatore dell’alleanza di liberali, nazionalisti, fascisti e demosociali nel rinnovo del consiglio comunale di Milano (dicembre 1922), alle elezioni del 6 aprile 1924 si presentò nelle file della Lista Nazionale comprendente nazionalfascisti e tanti “ex” liberali, come Orlando ed Enrico De Nicola, popolari, democratici… Eletto vicepresidente della Camera, Gasparotto rimase in Aula anche dopo l’”affare Matteotti”, come la pattuglia dei “liberali doc” (Giolitti, Marcello Soleri ed Egidio Fazio) e i Comunisti d’Italia.

Dopo lo scioglimento della Camera (1928) si appartò dalla vita politica. Sulla scia di Garibaldi, scrisse romanzi storici  quasi subito obliati. Vi si riaffacciò nel 1942. Nominato commissario dell’Associazione nazionale ex combattenti da Pietro Badoglio (11 agosto 1943), riparò in Svizzera per sottrarsi al prevedibile arresto. Chiamato in Italia (come Luigi Einaudi e altri) su indicazione di Bonomi, presidente del consiglio in successione a Badoglio, Gasparotto fu ministro dell’Aeronautica e successivamente dell’Assistenza postbellica nel governo De Gasperi.

Aderì all’evanescente Democrazia del Lavoro (come Bonomi e Meuccio Ruini). Candidato all’Assemblea Costituente per l’Unione democratica nazionale (comprendente anche monarchici) ebbe un esito modesto ma risultò eletto nel collegio unico nazionale.

Da laicista coerente, alla Costituente avversò l’inserimento dei Patti Lateranensi nella Carta e propose la sostituzione del servizio militare obbligatorio con un esercito di volontari. Senatore di diritto nella I^ legislatura repubblicana, declinò l’offerta della presidenza della Camera Alta propostagli dalla maggioranza governativa (democristiani, socialdemocratici, repubblicani e liberali) in vista della discussione della riforma elettorale che previde il “premio” in seggi alla coalizione che ottenesse il 50% dei voti più uno.

Dai socialcomunisti e da brandelli di “laici” essa fu demonizzata come “legge truffa”. Avrebbe garantito quella stabilità di cui l’Italia aveva bisogno anche dopo la sua adesione all’Alleanza Atlantica e alla Nato, di cui egli era stato fautore.

La tormentata vita politico-partitica-parlamentare della prima metà del Novecento ebbe dunque in Luigi Gasparotto un esponente di seconda fila ma interessante, sia per la sua opera di deputato e di ministro, sia per far comprendere perché non rese corpo un partito “di centro” (liberale, democratico, riformatore) capace di ammodernare l’Italia. I “costituzionali” si frantumarono in tanti gruppi parlamentari, clan regionali, clientele di capifila contrapposti da animosità inestinguibili (Giolitti, Nitti, Orlando…) e a volte inetti (Facta). Il torto peggiore di quei “centristi” fu la loro incapacità di accettare lealmente l’istituto monarchico, a tutto vantaggio degli avversari del Risorgimento: clericali e socialcomunisti.  

Il figlio di Gasparotto,  Poldo, comandante delle formazioni partigiane di “Giustizia e Libertà” in Lombardia, venne assassinato nel campo di concentramento di Fossoli, vicino a Carpi: una pagina tragica. L’itinerario politico di Luigi  Gasparotto i Luigi aiuta a comprendere l’ingovernabilità che anche oggi  affligge l’Italia, sempre in cerca di stabilità istituzionale e bisognosa non di “manifesti” erratici né di fiction televisive ma di verità storica.

Aldo A. Mola

 

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