Il mio primo, avventuroso battesimo marocchino

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A un mese dalla nascita di suo figlio, il signor Abdellah – il guardiano dell’immobile in cui abito – invitò me e la mia coinquilina Manon a partecipare alla “festa di battesimo”.

Così un sabato ci recammo in un quartiere povero di Salè, la città separata da Rabat dal fiume Bouregreg, per festeggiare la nascita del piccolo Yassine.

Non sono mai stata a un battesimo, né in Italia né altrove.  

Trovammo il neo papà e il suo primogenito ad aspettarci lì dove il taxi ci aveva depositato, per portarci a casa sua orgoglioso e impaziente di mostrarci suo figlio.

ragazza-occidentale-jellaba

Entrammo da una porta bassa e stretta e salimmo una rampa di scale, poi un’altra e un’altra ancora. Il Signor Abdellah ci condusse direttamente alla camera da letto per vedere il piccolo: un angioletto di una settimana, avvolto in fasce nella sua culla, per metà occupata da borse, giacche e regali. Nella stanza vi erano altre donne in pigiama che iniziavano a prepararsi per la festa, con henna, kohl, smalto. Non tardarono a far indossare anche a noi una jellaba, una tipica tunica marocchina.

Intanto, nella sala adiacente, gli uomini ridevano e bevevano birra che nascondevano rigorosamente agli occhi dei più piccoli.

Una bambina ci condusse alla terrazza, che era stata preparata per l’occasione con tavoli, casse acustiche e addobbi, tutto nel limite delle loro possibilità.

C’erano più bimbi che adulti: le femmine vestite da principessina e i maschi in camicia e giacca. Le meno timide vennero a prenderci per ballare con loro, sostenute dalle madri a suon di battiti di mani e piedi per terra. Detta così potrebbe anche sembrare una bella scena, se non fosse che non ero e non sono assolutamente in grado di ballare a ritmo di musica sha’bi (popolare) marocchina.

Era una serata calda: jeans, maglia, jellaba mi misero alla prova ballando, saltando e cantando, sempre di più e sempre più veloce. Essendo persone non abituate al contatto con lo straniero, fecero di me e della mia coinquilina l’oggetto delle loro attenzioni, lasciandoci sudate, spettinate, con il trucco colato, senza fiato e senza forze.

Due ore più tardi, anche la neo mamma e le altre donne che erano nella stanza con il bebè ci raggiunsero in terrazza e tutti i familiari danzarono insieme. A un certo punto avvertii un odore disgustoso e dissi:

– “Manon perdonami, ma qualcuno ha vomitato e devo assolutamente allontanarmi”

– “Caspita Vero, hai ragione! Che schifo! Ti seguo o finirò per vomitare pure io”

Nonostante fossimo circondate da bambini, non riuscimmo a individuare il responsabile, ma poco importava, dovevamo uscire dalla terrazza. “Presto, corri in corridoio!” – gridò. Non lo avessimo mai fatto!

Una volta lì, sentimmo una vampata di odore da rigurgito e realizzammo che il colpevole non era un bambino, bensì la nonna all’opera in cucina.

Decidemmo che avevamo fatto la nostra parte e che era ora di andare a casa. Abdellah ci rispose: “Certo, certo, come volete voi. Potete mangiare ora e poi andare a casa, oppure aspettare, mangiare con noi e fare festa tutta la notte”. – “No, Signor Abdellah, non ha capito. Noi dobbiamo andarcene ora. Abbiamo ancora del lavoro da sbrigare, e soprattutto non vogliamo tornare da sole da Salé a Rabat con il buio, lo sa anche lei che non è sicuro”.

Ebbene, dopo aver tanto insistito per andarcene, Abdellah ci portò in salotto e ci fece sedere a un tavolo apparecchiato con teiere e bicchieri. “Ma sì, dai, un bicchiere di tè è un buon compromesso fra restare fino a notte fonda e andarcene subito”, pensai.

Mezz’ora dopo ci condusse nuovamente nella stanza del piccolo Yassine, dove era stato imbandito un tavolo apposta per noi, con un vassoio contenente un pollo intero e del pane. Chiuse la porta della stanza e ci lasciò li con il pollo. Erano appena le 19:00.

Nessuna delle due aveva fame, ma capimmo che, per farlo contento, dovevamo mangiare.

Quanto pollo dovevamo mangiare esattamente per potercene andare?

Non conoscevamo la risposta, ma facemmo del nostro meglio. Con noi c’erano anche sua moglie e l’altro figlio. Ci sentivamo come due ostaggi tenuti sotto controllo. Non potevamo lasciare la festa senza il loro consenso. A un certo punto la moglie lasciò la stanza e ne approfittammo per smettere di mangiare e toglierci le jellaba.

Infilammo le nostre giacche e andammo in terrazza per salutare tutti. Dopo una lunga serie di foto e selfie, e naturalmente un ultimo ballo, ci accompagnarono a prendere un taxi.

Un amico marocchino mi spiegò poi che ci chiusero in camera a mangiare pensando che non apprezzassimo la compagnia e volevano onorarci e scusarsi con del cibo. Noi eravamo le ospiti d’onore e loro dovevano fare il massimo per soddisfarci.

In quel momento mi sentii quasi in colpa. Eravamo le uniche persone alla festa al di fuori della famiglia, ed eravamo le ospiti d’onore perché straniere ed evidentemente in una situazione economica più agiata rispetto alla loro.

Per noi, invece, era un piacere essere state invitate alla festa di battesimo e vedere come si festeggia in Marocco questo evento importante.

Il giorno della festa, però, mi irritò moltissimo che mi venisse impedito di fare quello che volevo. Sentivo troppo la pressione del veder limitata la mia libertà di scelta da un uomo.

Un’altra cosa mi colpì quel giorno, questa volta in positivo: la capacità di divertirsi e di godere puramente dei momenti di gioia della vita anche quando si dispone di nulla o quasi.

La terrazza era sporca, le sedie sbilenche, le tende e le ciocche orribili, ma loro avevano creato il loro angolo di festa.

La cucina era inesistente, tanto che furono costretti a disporre le pentole per cucinare in salotto, ma se ne infischiarono e prepararono da mangiare per tutti gli invitati. E se io e Manon ricevemmo un pollo, lascio immaginare quanti altri ne stessero preparando per le 20 persone restanti.

La festa si stava svolgendo in casa, fra parenti, ma le donne impiegarono comunque due ore per prepararsi e farsi belle per l’occasione.

Apprezzare le piccole belle cose che ha in serbo la vita per noi, soprattutto quando potrebbe andare molto meglio, è un aspetto che ho notato nei marocchini in piccole scene quotidiane e che ho ritrovato durante questa festa.

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