“In Afghanistan una catastrofe evitabile”. Intervista all’esperto Paul D.Miller

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L’analisi all’Agi del direttore per l’Afghanistan e il Pakistan nel Consiglio di sicurezza nazionale americano dal 2007 al 2009, ex analista della Cia e veterano di guerra a Kabul.

Oltreoceano è considerato uno dei massimi studiosi della questione afghana.

di Alessandra Sestito

AGI – Una catastrofe che si poteva evitare. Così all’AGI il professore della Georgetown University Paul D. Miller, direttore per l’Afghanistan e il Pakistan nel Consiglio di sicurezza nazionale americano da 2007 al 2009, ex analista della Cia e veterano di guerra a Kabul. Miller è uno dei massimi esperti americani della questiona afghana, sulla quale sta preparando una ricerca approfondita in seno all’università. 

Professor Miller, era prevedibile questo epilogo in Afghanistan?

“Era assolutamente prevedibile ed è stato infatti previsto dagli osservatori, dagli accademici, dai critici. Il dipartimento di Difesa americano lo ha ripetuto per anni che il governo afghano non era pronto a farcela da solo. Le forze di intelligence avevano previsto il fatto che se l’amministrazione Biden avesse tolto il supporto al governo locale, l’esercito afgano sarebbe collassato in uno scontro armato. Certo, c’è sorpresa per la velocità con cui questo è accaduto ma di fatto tutti sapevano che sarebbe successo, il che rende ancora più riprovevole che l’amministrazione Biden abbia scelto di perseguire questa strada”.

I veterani che hanno combattuto in Afghanistan stanno esprimendo grande rammarico in queste ore, sia sui social sia sugli organi di stampa. Molti dicono di sentirsi traditi dal modo in cui gli Stati Uniti hanno abbandonato l’Afghanistan. Anche lei ha vissuto e combattuto molti anni lì, quali sono i suoi sentimenti in queste ore concitate?

È stata una settimana molto difficile. Ho passato dieci anni lì, prima come soldato in Afghanistan, poi come analista nella CIA e nello staff della Casa Bianca per la sicurezza nazionale. Ho lavorato per due presidenti. Oggi mi chiedo se tutti quegli sforzi siano valsi la pena. L’amministrazione Biden ha scelto di ignorare i successi che abbiamo raggiunto in oltre venti anni e ha scelto di ignorare l’opportunità di consolidare alcuni dei vantaggi che avevamo ottenuto nel Paese al fine di preservarne la fragile stabilità.

Sì, sono deluso da quello che sta succedendo ma non voglio farne una questione personale. Ricordiamoci che chi sta soffrendo di più non sono gli analisti a Washington ma il popolo afghano. Penso in particolare alle donne afghane e alle minoranze religiose.

In queste ore assistiamo a un rimpallo fra Trump e Biden. Sembra che nessuno voglia prendersi la responsabilità di ciò che sta accadendo e che si cerchi piuttosto di biasimare l’avversario politico. Qual è la sua percezione in proposito?

Un vecchio proverbio dice: la vittoria ha mille padri mentre la sconfitta è orfana. È chiaro che nessuno voglia prendersi la responsabilità di quello che sta accadendo. Ma se da una parte il presidente Biden merita tutte le critiche del caso per quella che, a mio parere, è stata una decisione irresponsabile e imperdonabile, dall’altra dobbiamo ricordare che i piani per lasciare l’Afghanistan sono iniziati molto tempo fa. Gli errori non sono mancati, un po’ in tutte le amministrazioni.

A partire dalla decisione dell’allora presidente Bush di intervenire con un “light footprint” un’impronta leggera, non solo nella potenza militare ma anche nelle risorse civili e nell’assistenza alla ricostruzione per poi passare alla catastrofica decisione di Obama di annunciare con molto anticipo la data del ritiro delle truppe.

Poi è stata la volta di Trump che ha portato a casa un pessimo accordo di pace coi Talebani e infine Biden che ha deciso di abbandonare il Paese in questo modo. La situazione attuale è stata l’effetto di una serie di iniziative errate. La differenza è che mentre nei casi precedenti si è cercato di raddrizzare il tiro, su quest’ultimo non è più possibile. Il mondo ricorderà sempre ciò che Biden ha fatto in questi giorni”.

Dai sondaggi emerge che la maggior parte degli americani è favorevole al ritiro delle truppe. Secondo lei è questo il motivo che ha spinto l’attuale amministrazione a lasciare l’Afghanistan nonostante il parere avverso di molti consiglieri?

Ho sentito alcuni colleghi che sono nell’amministrazione per capire cosa abbia portato a questa scelta e spero di interpretare correttamente il loro pensiero. Alla Casa Bianca sono convinti che lasciare il Paese fosse inevitabile, sarebbe successo prima o poi. Inoltre vogliono tagliare i costi.

C’è la convinzione che la guerra in Afghanistan sia una distrazione dai problemi che abbiamo in casa e da altre priorità come l’emergere della Cina e il disastro causato dalla pandemia. Io non sono assolutamente d’accordo con questa visione.

Il 28 luglio scorso, mentre le truppe americane si ritiravano, una delegazione di nove talebani guidati dal capo politico Mullah Abdul Ghani Baradar, ha incontrato a Tianjin il ministro degli esteri cinese Wang Yi e il consigliere di stato cinese. In quella occasione Wang Yi ha apertamente detto che Beijing si aspetta di “giocare un ruolo importante nel processo di riconciliazione e ricostruzione dell’Afghanistan. I talebani, dal canto, loro cercavano una legittimazione. Sembra che gli Stati Uniti abbiano servito l’Afghanistan su un piatto d’argento alla Cina. Ci sono accordi di cui siamo all’oscuro?

Ci sono sicuramente anche altre influenze. La Cina senza dubbio ma anche il Pakistan. Non so chi avrà più peso in questa fase fra i due Paesi. Nel lungo termine penso che vedremo anche la Russia e l’Iran avere guadagnare importanza nella regione. Non credo ci sia stato alcun accordo preciso fra la Cina e i talebani o fra gli Stati Uniti e la Cina.

Penso che l’avanzata cosi veloce dei talebani sia stata dovuta a negoziazioni locali fra i talebani e i piccoli signori della guerra, della serie: quando arriverà il momento unitevi a noi o vi uccideremo tutti, comprese le vostre famiglie. Questo messaggio deve essere stato preparato per tempo, ecco perché è bastata una settimana per arrivare a Kabul.

Parliamo per un secondo il linguaggio cinico della cosiddetta realpolitik: gli Stati Uniti hanno perso anche un’occasione economica?

Rispetto alla Cina sì. I talebani probabilmente sono consapevoli dell’opportunità economica che la Cina può portare per stabilizzare l’Afghanistan e la Cina può sicuramente trarne vantaggio-

In questi giorni abbiamo visto immagini di elicotteri che portavano via le persone dall’ambasciata americana e l’aeroporto di Kabul preso d’assalto. Nulla di tutto ciò è accaduto nelle ambasciate russe o cinesi. Le immagini che ci arrivano da Kabul ci dicono che gli americani e i loro alleati stanno scappando a gambe levate. Qual è il messaggio che secondo lei arriva al mondo in queste ore?

La Cina e la Russia non erano coinvolte nella guerra, non erano nostri alleati. Erano terze parti, spettatori. Adesso che gli Stati Uniti e gli alleati europei se ne sono andati, questi Paesi terzi hanno l’occasione di guadagnare sulle nostre spalle. Non dico che l’Afghanistan sia la zona più strategica al mondo per noi perché non è vero, ma è sempre negativo quando perdiamo. Il punto è: in che tipo di mondo vogliamo vivere?

Gli Stati Uniti e i loro alleati credono in un mondo liberale e abbiamo cercato di portare questa visione in Afghanistan ma purtroppo abbiamo fallito. Adesso l’Afghanistan soccomberà alla visione del mondo dei talebani e dei signori della guerra che ha un parallelo con la visione totalitaria del partito comunista cinese o degli oligarchi russi. Io soffro all’idea che abbiamo inflitto una sconfitta non necessaria al mondo liberale.

Alcuni osservatori credono sia impossibile vincere in Afghanistan per via del clima, delle zone estremamente impervie dove i talebani si sono nascosti per vent’anni e per altre cause contingenti. Per alcuni è un Paese inespugnabile. Lei come la vede?

Se si ragiona nei termini che tanto non si poteva fare niente in Afghanistan, allora quello che è accaduto questa settimana era inevitabile e questo sarebbe comunque stato il triste epilogo della storia. Io semplicemente non credo che ci siano fatti inevitabili. Avremmo dovuto fare le cose in modo diverso?

Certamente, e mi riferisco alle decisioni prese negli ultimi venti anni. Ci sono stati specifici errori che hanno inflitto un evitabile danno strategico al progetto in Afghanistan, da Bush a Biden. Se queste decisioni fossero state differenti forse oggi avremmo risultati diversi. Ovviamente non so come sarebbe andata a finire ma adesso non mi sembra che i talebani abbiano firmato un documento di resa o abbiano abbracciato un processo democratico.

Quello che è accaduto questa settimana è una catastrofe che non sarebbe dovuta accadere. Avremmo dovuto dare all’Afghanistan un po’ più di tempo di pace relativa e aprire le porte a una significativa negoziazione coi talebani. Adesso abbiamo instabilità e insicurezza e non doveva accadere.

Biden pagherà politicamente questa scelta?

Sta già pagando. Le critiche piovono dai media e dagli oppositori politici e sono meritate ma l’elettorato ha la memoria corta. Non sono convinto che la gente ricorderà questo momento fra un anno, quando ci saranno le elezioni di mezzo termine o alle prossime presidenziali. Mi auguro che accada perché questo è il momento più imbarazzante e umiliante a livello mondiale per la diplomazia americana cui ho mai assistito in vita mia. Non credo però che l’elettorato lo ricorderà alle urne”.

Lei conosce benissimo cosa è accaduto in Afghanistan negli ultimi 20 anni. Cosa prevede per il futuro?

I talebani hanno un dipartimento di pubbliche relazioni molto capace e stanno dicendo al mondo che si sono evoluti rispetto agli Anni ’90 e che vogliono un periodo di transizione pacifico. Io penso che non sia vero e che fra qualche tempo imporranno la loro quasi totalitaria teocrazia. Penso che le donne abbiano perso tutto ciò che avevano conquistato negli ultimi venti anni e che non ci sarà una società aperta in Afghanistan.

C’è però anche un altro aspetto che è forse quello più preoccupante perché concerne la sicurezza nazionale: Al Quaeda o gruppi similari troveranno rifugio in Afghanistan e nel Pakistan occidentale. Negli ultimi venti anni questi gruppi hanno avuto difficoltà a proliferare, non avevano molto spazio o tempo per reclutare nuove leve. Adesso lo avranno.

Noi, e includo gli alleati europei, siamo ad alto rischio di terrorismo internazionale. Fortunatamente la nostra sicurezza interna è decisamente migliorata rispetto al passato ma il rischio, a mio parere, è potenzialmente superiore rispetto agli Anni ’90. Ci sono poi altre ramificazioni di questa situazione. Lei ha menzionato la Cina. Ecco per me questo è un passo indietro per il sistema liberale internazionale e un passo avanti per le forze globali autocratiche e autoritarie. Penso che la NATO sia stata indebolita da questo evento.

La “causa” della democrazia non ha funzionato. L’Afghanistan era il primo passo per dimostrare al mondo che la democrazia può funzionare ovunque, inclusi i posti più remoti. Adesso questo ideale è stato spazzato via. Il mondo sarà un posto meno sicuro. Evitare di agire perché “tanto le cose non possono cambiare” renderà la vita delle persone che vivono in una condizione di crisi umanitaria ancora più difficile. Le implicazioni della guerra in Afghanistan si ripercuoteranno sul futuro per decadi a venire.

 

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