Riportiamo integralmente l’intervento del 15 novembre del governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, sulla riforma del Mes, per dare la possibilità ai lettori di valutare esattamente le sue parole, in considerazione dei commenti molto ammorbiditi apparsi sul principale quotidiano ¹1economico italiano (vedi anche qui). In realtà insieme all’audizione alla Camera dei deputati di Giampaolo Galli, docente alla Luiss ed ex direttore generale di Confindustria, anche le parole di Visco hanno suscitato scalpore, perché i  due economisti, di provata fede europeista, hanno entrambi manifestato in maniera chiara le dovute preoccupazioni sui “rischi enormi” per il nostro paese derivanti dall’approvazione di questa riforma, peraltro già concordata a livello europeo anche dal governo italiano al di fuori di qualsiasi dibattito parlamentare, e ora in attesa solo di  ratifica. In proposito suggeriamo anche la lettura dell’ approfondita e completa analisi sul Mes e i suoi effetti del giurista ed ex sottosegretario agli Affari europei col Ministro Savona, Luciano Barra Caracciolo.

Questo seminario si tiene in una congiuntura difficile per l’Europa. La marea della crisi finanziaria globale e della crisi dei debiti sovrani è passata da tempo, ma la sua eredità velenosa e le tensioni geopolitiche stanno alimentando la sfiducia, la paura e anche pregiudizi che si pensavano ormai sepolti. La costruzione europea è a un punto morto, benché ce ne sia una forte necessità nelle aree chiave, dove l’Unione è più brava a proibire che a costruire.

Benché la moneta unica sia stata un passo fondamentale nel cammino verso l’integrazione europea, l’Unione economica e monetaria rimane una costruzione incompiuta. Gli architetti europei lo sapevano e desideravano e prevedevano progressi maggiori per il futuro. Anche prima dell’introduzione dell’euro, lo stato anomalo di una moneta senza Stato era stato sottolineato, così come la solitudine istituzionale della Banca centrale europea (BCE) e i problemi posti dall’imperfetta mobilità del capitale e del lavoro.

I rischi insiti in questa situazione si sono materializzati con violenza imprevista (veramente non del tutto imprevista, ndt) durante la crisi dei debiti sovrani. In questa occasione è venuta a galla tutta l’inadeguatezza della governance economica dell’area dell’euro. Le esitazioni nel definire le procedure per sostenere i Paesi in difficoltà hanno alimentato i timori di una rottura dell’euro. Gli spread sui rendimenti dei titoli di Stato si sono notevolmente allargati, in alcuni casi andando ben oltre ciò che sarebbe stato giustificato dalle condizioni economiche e finanziarie dei Paesi interessati, rendendo così ancora più difficile uscire da tali condizioni.

Le proposte di riforma elaborate dopo il picco della crisi prevedevano il graduale rafforzamento dell’integrazione, prima nell’area finanziaria e poi per le finanze pubbliche. Eppure, sette anni dopo, sono stati compiuti progressi solo parziali. L’unione bancaria è incompleta e non priva di difetti, le regole di base per l’unione di capitali sono ancora in fase di determinazione e l’unione fiscale è stato rinviata a una data futura non meglio specificata.

Le preoccupazioni per le vulnerabilità finanziarie pubbliche e private accumulate durante la crisi e la sfiducia reciproca ostacolano i progressi. Mentre la riduzione e condivisione del rischio dovrebbe andare di pari passo e rafforzarsi reciprocamente, l’incertezza sul come procedere, il disaccordo sulla successione e sugli effetti degli interventi e le paure di ricadute negative producono un arresto nel processo di riforma. Di conseguenza, l”integrazione economica dell’area dell’euro viene frenata e l’area stessa continua a essere esposta a rischi finanziari.

Questo stallo deve essere sbloccato e devono essere create le condizioni per consentire in futuro passi avanti che oggi sembrano impossibili. In questo contesto, vorrei condividere con voi alcune riflessioni, in primo luogo, su come sono affrontati i rischi sovrani e bancari in Europa, e in secondo luogo, sullo stato dell’unione fiscale e dei mercati dei capitali.

Il rischio sovrano e bancario

La diffusa preoccupazione per i debiti pubblici elevati è giustificata. Sono una fonte di rischio sistemico. Anche se fondamentalmente in grado di sostenere il debito, i Paesi fortemente indebitati sono più vulnerabili agli shock di liquidità e ricevere una valutazione negativa da parte dei mercati sull’impegno delle autorità nazionali nel garantire la stabilità finanziaria. Inoltre, in un’area valutaria, una crisi del debito sovrano può avere forti ripercussioni per i paesi vicini, visti gli stretti legami economici e finanziari.

Al momento sta giungendo in porto la riforma del Trattato sul Meccanismo europeo di stabilità (MES), per rafforzare il suo ruolo nella prevenzione e gestione delle crisi sovrane negli Stati membri dell’area dell’euro. Fa parte di uno sforzo volto a ridurre l’incertezza su come e quando un debito sovrano può essere ristrutturato. Chiarire le condizioni e le procedure per la ristrutturazione del debito ridurrebbe certamente la parte del costo di un default del debito sovrano che può essere attribuita all’incertezza sulle modalità e sui tempi della sua soluzione.

Ma questa è solo una piccola parte del costo dell’insolvenza di uno Stato. Si tratta di una questione da gestire con molta prudenza. I piccoli e incerti benefici di un meccanismo per la ristrutturazione dei debiti sovrani devono essere soppesati considerando l’enorme rischio che il semplice annuncio della sua introduzione inneschi una reazione a catena di aspettative di default, che può diventare una profezia che si autoavvera. Dovremmo tutti tenere a mente le terribili conseguenze dell’annuncio del coinvolgimento del settore privato (ovvero della ristrutturazione del debito sovrano della Grecia, ndT) nella risoluzione della crisi greca dopo l’incontro di Deauville alla fine del 2010.

Non si sottolineerà mai abbastanza l’importanza di politiche di bilancio rigorose a livello nazionale. Ma ridurre il rapporto debito/PIL richiede tempo e c’è il rischio che una crisi possa interrompere il processo, anche se non come diretta conseguenza di decisioni politiche. L’Europa dovrebbe cercare i modi per sostenere e incoraggiare gli sforzi che devono essere intrapresi dagli Stati membri per ridurre il loro debito. Ecco perché è necessaria una qualche forma di assicurazione sovranazionale, ad esempio attraverso la creazione di un Fondo per il rimborso del debito europeo (ERF), finanziato dalle risorse dedicate dei paesi partecipanti.

Il meccanismo può essere progettato in modo da impedire trasferimenti sistematici tra Paesi e riducendo al contempo il rischio di instabilità finanziaria per l’intera area. L’introduzione di un ERF rafforzerebbe l’impegno nazionale per la riduzione del debito (perché la quota del debito nazionale trasferita al fondo sarebbe sostenuta da un flusso di entrate specifiche) e ridurrebbe la rilevanza sistemica del debito nazionale (residuo).

Questo sarebbe utile per migliorare la credibilità della clausola che vieta il bailout e l’esecutività delle regole fiscali europee.

Nel dibattito accademico e politico, l’introduzione di un meccanismo di ristrutturazione del debito sovrano è spesso collegato a proposte sulla introduzione di requisiti prudenziali che limitano le esposizioni verso il debito sovrano delle banche. Qui, è importante tenere a mente che il nesso tra banche e debito sovrano non agisce esclusivamente attraverso l’esposizione diretta delle banche: una crisi di debito sovrano colpirebbe anche le banche attraverso l’aumento dei loro costi di finanziamento (in particolare in caso di downgrade del rating) e, soprattutto, attraverso i suoi effetti sull’economia complessiva. Un forte aumento del rischio percepito sul debito di uno Stato può innescare rapidamente una spirale recessiva, infiammando le tensioni sociali, con risultati imprevedibili. Il colpo per il sistema sistema bancario sarebbe pesante, indipendentemente dalla sua capitalizzazione ed esposizione diretta. Pertanto, se si vuole veramente spezzare il legame tra banche e debito sovrano, bisogna ridurre il rischio incorporato nelle obbligazioni sovrane, non solo gli importi detenuti dalle banche.

Inoltre, il semplice spostare le obbligazioni rischiose dal bilancio delle banche a quello di altri settori non ridurrebbe il rischio complessivo. Infine, dal momento che i requisiti prudenziali sulle esposizioni sovrane non sono imposte in nessun’altra giurisdizione, se dovessimo introdurle in Unione europea o nell’area dell’euro, dovremmo fornire ai mercati finanziari investimenti “risk-free” alternativi, come un qualche tipo di Eurobond  – e il fondo di rimborso del debito che ho citato prima sarebbe di valido aiuto.

Ridurre le esposizioni delle banche al debito sovrano così come il rapporto tra le sofferenze (crediti deteriorati) e il totale dei prestiti in essere sono spesso considerati due presupposti per il completamento dell’unione bancaria. Altre importanti fonti di rischio, tuttavia, non sono state sufficientemente considerate. Recenti iniziative del Meccanismo di vigilanza unico per determinare la gestione migliore delle attività illiquide e opache nei bilanci delle banche intendono rispondere a queste preoccupazioni.

Ancora peggio, è stata, ed è tuttora, trascurata la vulnerabilità prodotta da una struttura incompleta per una gestione efficace e ordinata delle crisi bancarie. Da una parte, è cresciuto il consenso attorno all’idea di rimandare l’implementazione del sostegno del MES al Fondo di risoluzione unico fino al 2024, a meno che non siano fatti ulteriori progressi nella riduzione del rischio, misurata esclusivamente in relazione ai volumi di crediti deteriorati (e nella creazione di riserve di disponibilità da utilizzare in caso di crisi). D’altra parte, si accetta una situazione per cui una liquidazione disordinata è l’unico risultato possibile per le crisi di intermediari di piccole e medie dimensioni che, come la maggior parte delle banche europee, non sono soggetti alla risoluzione (anche se – va notato – sono tenuti a contribuire al Fondo di risoluzione unico).

I recenti inviti della Germania al completamento dell’unione bancaria sono uno sviluppo da accogliere con favore,  in quanto dimostrano la volontà di mantenere aperto il dialogo. Però non affrontano alcuni dei problemi che ho appena menzionato. I rischi bancari sono di nuovo identificati esclusivamente con i crediti deteriorati e l’esposizione al debito sovrano. Inoltre, quando si considera una revisione del trattamento prudenziale di quest’ultimo, non si fa menzione della necessità introdurre uno strumento di investimento sicuro a livello europeo, il che è particolarmente in contrasto con i riferimenti frequenti al modello americano, in cui il ruolo del debito federale come strumento sicuro è fondamentale.

Una capacità fiscale adeguata e implementare l’unione del mercato dei capitali

Se la gestione dei rischi sovrani e bancari è fonte di preoccupazione, passare allo stato della discussione sull’unione fiscale e sull’implementazione dell’unione del mercato dei capitali non ci sarà di consolazione. La politica monetaria è stata l’unica linea di difesa contro il rischio di frammentazione finanziaria dell’area dell’euro durante la crisi del debito sovrano e contro i rischi di deflazione emersi negli anni successivi. Il Consiglio direttivo della BCE ha dimostrato la sua disponibilità a utilizzare tutti gli strumenti disponibili e, se necessario, a introdurne di nuovi per perseguire l’obiettivo della stabilità dei prezzi. Ha avuto un notevole successo, ma le sue azioni avrebbero potuto essere ancora più efficaci se fossero state accompagnate da altre politiche economiche.

L’inflazione nell’area dell’euro rimane a livelli ancora troppo bassi e questi bassi livelli stanno ancora una volta deprimendo  le aspettative di inflazione a breve termine. È riemerso il rischio di un disancoraggio delle aspettative a medio-lungo termine. La risposta del Consiglio direttivo è stata tempestiva, adeguata e proporzionata. Ma ancora una volta stiamo vedendo che per sfruttare al massimo il potenziale espansivo delle misure di politica monetaria, altre politiche dovrebbero muoversi nella stessa direzione.

Le politiche fiscali a sostegno dell’attività economica nell’area dell’euro possono consentire un ritorno più rapido alla stabilità dei prezzi. Per garantire una crescita sostenuta e più elevata, sono necessarie riforme che rimuovano gli ostacoli allo sviluppo, favoriscano l’innovazione e aiutino a modernizzare il sistema produttivo. Agendo in modo isolato, la politica monetaria non può fare altro che proseguire lungo il percorso di misure “non convenzionali”. Ciò aumenta il rischio di effetti collaterali negativi, che a loro volta devono essere tenuti sotto controllo utilizzando strumenti di natura sempre più amministrativa.

Come ha recentemente ricordato l’ex presidente della BCE, “abbiamo bisogno di una capacità fiscale nell’area dell’euro di dimensioni e progettazione adeguate: sufficientemente ampie da stabilizzare l’unione monetaria”. Questa non è un’affermazione sovversiva. La teoria economica e l’esperienza concreta di altre unioni monetarie di successo, in particolare gli Stati Uniti, suggeriscono che l’area dell’euro trarrebbe grandi benefici dalla creazione di una capacità fiscale sovranazionale. In effetti, un rapporto sull’appello per un’unione fiscale – il rapporto MacDougall – fu pubblicato già nel 1977 per conto della Commissione europea, e persino il rapporto Werner del 1970 vi fa riferimento. Successivamente, i documenti tecnici allegati al Rapporto Delors del 1989 hanno discusso l’argomento in maniera approfondita.

Il 3 maggio 1998, quando l’Europa stava completando gli ultimi passi prima dell’adozione della moneta unica, Tommaso Padoa Schioppa scrisse in un articolo del Corriere della Sera: “l’Unione ha piena competenza per la politica microeconomica […], ma la sua capacità di intervento in politica macroeconomica è, ad eccezione del campo monetario, embrionale e sbilanciata: può evitare danni (disavanzi eccessivi), ma non può fare cose buone (una politica fiscale adeguata). […] È quindi giusto non solo applaudire il passo compiuto ieri, ma anche sottolinearne la natura incompiuta, i rischi che comporta e la sua imprevidenza”.

Ciononostante, sono stati compiuti ben pochi progressi nella direzione di porre rimedio all’asimmetria di una politica monetaria unica in presenza di più bilanci nazionali, forse per la paura di una condivisione dei debiti che potrebbe derivare dall’unione fiscale. Tuttavia, come ho già osservato, una capacità fiscale comune può essere strutturata in modo tale da evitare trasferimenti sistematici tra paesi, conciliando così il pieno esercizio della stabilizzazione macroeconomica con l’equilibrio dei conti pubblici in ciascun paese. L’unione fiscale consentirebbe di attuare politiche coerenti con le condizioni del ciclo economico nei vari Stati membri e nell’area dell’euro nel suo insieme, prontamente e senza dubbi in merito alla loro legittimità. La moneta unica ha la necessità di interagire con una politica fiscale unica.

È stato sostenuto che le politiche fiscali nazionali potrebbero assorbire gli effetti delle fluttuazioni cicliche negli Stati membri e che i mercati finanziari potrebbero fornire un’assicurazione analoga a quella che sarebbe fornita da un’unione fiscale. Tuttavia,  effetti di ricaduta tra paesi potrebbero ridurre l’efficacia delle iniziative nazionali e, nella situazione attuale, diversi bilanci nazionali hanno poco spazio di manovra a causa degli elevati debiti pubblici. Inoltre, i mercati finanziari europei sono lungi dall’essere perfettamente integrati, il che limita chiaramente la loro efficacia come ammortizzatori.

Negli Stati Uniti, in Canada e in altri stati federali, una parte significativa delle fluttuazioni del reddito dei singoli Stati è compensata dal sistema fiscale federale (le stime basate su metodi diversi sono in media del 10-15% sia per gli Stati Uniti che per il Canada). La differenza tra l’area dell’euro e le federazioni vere e proprie  in termini di capacità di assorbimento degli shock è ancora maggiore quando guardiamo ai mercati dei capitali.

Il buon funzionamento di un’area valutaria richiede un mercato unico dei capitali che faciliti l’accesso ai finanziamenti per le imprese. Inoltre, un mercato integrato aiuta ad assorbire gli shock macroeconomici locali, aumenta la solidità del sistema economico e rafforza la stabilità finanziaria. Ciò contribuirebbe ovviamente anche alla trasmissione efficace e rapida delle misure di politica fiscale e monetaria.

Ma è uno sforzo complesso. Implica un’azione decisiva in direzione dell’armonizzazione delle normative in materia di società, valori mobiliari, procedure fallimentari e fisco, nonché di procedure di vigilanza. Mentre tale armonizzazione può partire con delle modifiche alle legislazioni nazionali che si concentrino su quelle aree che possono produrre effetti più ampi, l’obiettivo finale deve essere quello di raggiungere una regolamentazione unica. Soprattutto, un mercato unico dei capitali richiede un asset sicuro comune. Affrontare questo divario sosterrebbe il mercato bancario e dei capitali, creando un prodotto omogeneo di alta qualità e dimensioni significative che potrebbe diventare un punto di riferimento per gli investitori e migliorare l’integrazione finanziaria.

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Non credo di incontrare difficoltà a convincervi della mancanza di progressi significativi nella costruzione europea. C’è stato un sostanziale trasferimento di sovranità in materia economica e finanziaria, specialmente negli ultimi anni. È davvero illusorio credere che possiamo dirigere il corso dell’economia e della finanza, fenomeni palesemente globali, all’interno degli stretti confini dei singoli paesi europei. La costruzione, tuttavia, è sbilenco e incompleta; la sua stessa sostenibilità richiede che gli elementi mancanti siano incorporati al più presto.

Oggi, procedere con dei compromessi sta diventando sempre più difficile. La sfiducia porta al disaccordo, e nella ricerca esasperata di una rassicurazione reciproca e di  guadagni a breve termine, i passi necessari sono difficili da prendere. Il raggiungimento concreto dell’unione monetaria, dell’unione bancaria, dell’unione dei mercati dei capitali e anche la prospettiva di una politica fiscale comune richiedono tutti un salto di qualità. L’Europa deve rimanere un’ancora di stabilità in un mondo che appare sempre più instabile e politicamente imprevedibile.

L’introduzione di un asset sicuro nell’area dell’euro è un obiettivo chiaro e immediato. È un’impresa di tipo tecnico, ma è anche il denominatore comune delle tre unioni (bancaria, del mercato dei capitali, fiscale) che devono affiancare l’unione monetaria. Sostituendo parzialmente i titoli di stato nazionali, uno strumento di debito europeo potrebbe contribuire a diversificare le esposizioni sovrane degli istituti finanziari. Potrebbe ridurre il rischio di fuga verso le attività più sicure da parte degli investitori nei periodi di tensione del mercato e consentire al mercato finanziario di svolgere un ruolo efficace come ammortizzatore, migliorando così anche l’efficacia della politica monetaria. Potrebbe essere uno strumento per finanziare stabilizzatori automatici condivisi nell’ambito di una capacità fiscale comune.

Come ho già detto, è possibile progettare meccanismi che consentano l’introduzione di un asset sicuro dotato delle garanzie necessarie contro il rischio di comportamenti opportunistici. Ma a parte le regole, il requisito essenziale per la fattibilità di questa soluzione risiede in un rinnovato e convinto impegno da parte di tutti per il progetto europeo e nella volontà di perseguire soluzioni comuni per problemi comuni.