Intervista all’astrofisico  prof. Roberto pesce

Scienza & Tecnologia

Di

Prof. Pesce, proviamo tutti stupore osservando il cielo stellato ma occuparsi per professione o per passione di astronomia necessita di attrezzature adeguate.

Qual è tecnicamente la dotazione indispensabile per iniziare e fino a che punto di potenzialità esplorativa possiamo disporre per esplorare l’universo?

Quali sono i Centri di osservazione astronomica più attrezzati a livello mondiale?

Considerando I nuovi telescopi posizionati direttamente nello Spazio possiamo dedurne vantaggi o svantaggi rispetto a quelli ubicati sulla Terra?

Per avvicinarci alle meraviglie celesti in realtà non servono grandi strumentazioni, basta un semplice paio di binocoli o anche la sola visione ad occhio nudo a spalancarci le porte del cosmo. Il grosso problema è l’inquinamento luminoso che rende sempre più difficile l’osservazione astronomica dalla Terra, oltre ad avere gravi conseguenze in termini ambientali ed economici.

Attualmente i più avanzati osservatori astronomici si trovano in luoghi abbastanza sperduti, come le montagne del Cile (Very Large Telescope) o dell’Arizona (Large Binocular Telescope), le Canarie (Gran Telescopio Canarias) e molti altri. Questi enormi complessi utilizzano molti strumenti di piccole dimensioni oppure ottiche “segmentate”, per consentire un adattamento in tempo reale alle condizioni della trasparenza atmosferica, consentendo di ottenere immagini eccezionali.

Un’alternativa, che evita i problemi legati alla trasmissione atmosferica, è quella di osservare dallo spazio, ma qui il limite è nelle dimensioni degli strumenti che possono essere messi in orbita; l’esempio più celebre è quello del telescopio Hubble, ma a breve dovrebbe essere lanciato il “James Webb Telescope”, che avrà prestazioni ancora migliori. Da diversi anni sono operativi, sia a terra che in orbita, anche strumenti per osservare il cosmo a tutte le frequenze elettromagnetiche, dalle onde radio ai raggi X, e per monitorare non solo i segnali luminosi ma anche a livello di “particelle elementari” (come i neutrini, i raggi cosmici o l’antimateria). In questo ambito non posso non ricordare l’Osservatorio Pierre Auger in Argentina, in cui ho lavorato, con rivelatori di raggi cosmici distribuiti nella pampa su un’area di 3000 km quadrati, e l’esperimento IceCube per rilevare i neutrini che arrivano dallo spazio nei ghiacci del Polo Sud.

 Che si osservi la volta celeste ad occhio nudo o che ci si avvalga dei più potenti strumenti di penetrazione visiva dell’universo non riusciamo a dare un senso all’idea che il nulla esista o possa essere descritto, e insieme ad esso il concetto di infinito.

Secondo me in questa infinità consiste il vero fascino della ricerca perché, come ho detto, mette in crisi i concetti di tempo, di spazio, di limite, di presenza o di assenza.

Che idea personale ha al riguardo?

Guardando il cielo stellato per me si apre veramente una finestra sull’infinito. La cosa bella è che c’è sempre qualcosa di nuovo da osservare e da scoprire, ma dall’altro lato è anche triste pensare che in una vita intera non si potrà conoscere veramente tutte le bellezze racchiuse nel nostro Universo.

Un altro aspetto divertente della ricerca è che non si sa mai dove si andrà a parare. La storia della Fisica dei primi del ‘900, con l’avvento della Teoria della Relatività e della Meccanica Quantistica, insegna proprio come la ricerca sia riuscita a mettere in crisi i concetti di spazio e tempo, ma anche quello di determinismo, rendendo necessaria l’elaborazione di nuove teorie scientifiche, che hanno portato a rivoluzioni non solo in ambito accademico (basti pensare ad esempio alla teoria cosmologica del Big Bang) ma anche nella vita di tutti i giorni (senza queste teorie oggi non avremmo gli smartphone o il GPS, tanto per fare alcuni esempi).

Cosa scopriremo domani? Non lo possiamo sapere, e questo è quello che a mio parere rende avvincente la ricerca scientifica.

           “Tempo” è la parola più ricorrente in tutte le opere di Shakespeare.

              Il Prof. Arnaldo Benini – emerito all’Università di Zurigo- con cui avevo realizzato un’intervista

               sulle neuroscienze pone l’accento sui meccanismi cerebrali che regolano la percezione del Tempo:     

               “la neurobiologia del tempo, nonostante i molti aspetti ancora non chiariti, ha dimostrato oltre

              ogni  dubbio che il senso del Tempo è prodotto da meccanismi nervosi sparsi in tutto il cervello.

              (il cervello è la macchina del Tempo)”, in polemica con i Fisici che non si sono mai interessati alla

              neuroscienza del tempo (cita ad es. il Fisico quantistico Lee Smolin, che sostiene che il Tempo deve

              ritornare nella Fisica).

              La teoria della Relatività Generale ci dice che il Tempo da solo non esiste. Esiste invece

              lo ‘Spaziotempo’ e lo descrive con formule matematiche precise. 

              Come si sposa questo concetto con le recenti teorie sull’eternalismo, che vedono il

              Tempo come dimensione relativa e non assoluta? È davvero unidirezionale?

              Il concetto di dimensionalità apre a sua volta al Multiverso e alla Teoria delle ‘stringhe’. 

              Come si colloca in tal senso il concetto di Tempo?

L’argomento “tempo” è uno dei più complessi e trasversali, in quanto lega fisica, filosofia, neuroscienze, etc. Se posso dare un suggerimento, consiglio la lettura de “L’ordine del tempo” di Carlo Rovelli.

Einstein, con la Teoria della Relatività, elaborata tra il 1905 e il 1915, ha mostrato come il tempo è un’altra dimensione che non può essere separata dalle (almeno) tre dimensioni spaziali. L’unidirezionalità del tempo è legata al secondo principio della termodinamica, tanto per capirci quello che impedisce che mettendo a contatto un oggetto caldo e uno freddo, quello freddo diventi più freddo e quello caldo più caldo, ma che avvenga il contrario.

L’esistenza di ulteriori dimensioni spaziali e temporali è oggetto di dibattito tra varie teorie, anche non del tutto scientifiche. Tra tutti gli approcci “seri” al problema, a me affascina la teoria del Multiverso di Hugh Everett: banalizzando, ogni volta che l’Universo si trova davanti ad una scelta, si suddivide in universi paralleli in ciascuno dei quali si verifica una delle possibili alternative. Pensiamo al celebre esempio del Gatto di Schrodinger: un ipotetico gatto è chiuso in una scatola ed ha una certa probabilità che un dispositivo lo uccida; nel momento in cui apro la scatola si crea un universo in cui il gatto è vivo e un altro in cui il gatto è morto. Della Teoria delle Stringhe, che prevede l’esistenza di altre dimensioni “arrotolate” intorno alle altre, in numero variabile a seconda della teoria specifica, sono un po’ meno entusiasta ma rimane un campo di ricerca interessante.

Tutte queste sono sicuramente tutte idee affascinanti ma anche impossibili da verificare sperimentalmente, almeno per il momento. Se posso altri consigli di lettura, suggerisco “L’universo matematico” di Max Tegmark e “Il paesaggio cosmico” di Leonard Susskind. Parlare di questi argomenti in poche righe è impossibile, ma i libri che ho citato possono dare una buona idea a livello divulgativo, anche se non sono proprio letture facilissime.

In questi giorni si ha notizia (riporto testualmente) di un “brillantamento solare di classe 1.6 prodotto da una macchia solare denominata AR 2882”. A conferma di ciò vi sono le immagini del Solar and Heliospheric Observatory recentemente diffuse che mostrano l’emissione nota come “alone” o “aureola”.  La nota di agenzia riferisce di tempeste magnetiche: sono frequenti questi eventi? In che cosa consistono e perché si verificano? Può in un futuro, vicino o ragionevolmente lontano, questo fenomeno diventare sempre maggiore a motivo del ciclo vitale della Stella, al punto da mettere in difficoltà lo scudo dell’atmosfera/magnetosfera terrestre?” 

L’attività del Sole segue un ciclo di circa 11 anni, di cui le macchie sono l’evidenza più marcata. Queste macchie sono create dal campo magnetico del Sole, ma ad oggi non sono ancora del tutto chiari i vari aspetti che regolano questa attività, che a volte riserva sorprese. Ad esempio è significativo il minimo dell’attività solare iniziato a metà del ‘600 in cui per quasi 70 anni non si osservò quasi nessuna macchia: ad esso pare essere associata la “piccola era glaciale” di quegli anni. Ogni tanto si verificano invece fenomeni di enorme intensità, anche se di breve durata, come il brillamento solare del 1859, che ha portato alla generazione di aurore polari visibili in tutto il mondo, anche nelle zone equatoriali. La previsione di fenomeni di questo tipo con largo preavviso non è ancora possibile, ma in futuro brillamenti molto potenti potrebbero mettere in crisi tutte le nostre apparecchiature elettroniche, che nell’800 non esistevano. Si stanno comunque facendo molti studi in proposito, proprio perché un eventuale “black out magnetico” potrebbe avere ripercussioni molto gravi. Sicuramente, con l’avanzare dell’età della nostra stella, non sarà più possibile la vita sulla Terra a causa dell’aumento di radiazioni solari, ma questo non si dovrebbe verificare per almeno un miliardo di anni.

L’Entropia dell’Universo non diminuisce mai: come si sposa questo concetto con l’Orizzonte degli Eventi?

Il Secondo Principio della Termodinamica afferma che l’Entropia di un Sistema chiuso non può mai diminuire.

Se ho ben compreso Hawking, considerando come Sistema chiuso un Buco nero, per non violare tale Principio, la somma della sua Entropia e di quella ordinaria deve essere in continuo aumento.

Di conseguenza, l’aumento dell’Entropia del buco nero corrisponde ad un aumento dell’area dell’orizzonte degli eventi.

Il concetto stesso di buco nero però esaspera ciò che sta oltre l’orizzonte degli eventi, facendolo tendere idealmente a quello di “densità massima a volume zero”.

L’Entropia una volta superato l’Orizzonte degli eventi dunque come si sposa con questo concetto?

Lo scenario descritto nella domanda è corretto: in pratica più il buco nero “ingurgita” materia, più aumenta l’area del suo orizzonte degli eventi ed aumenta la sua entropia. Quello che succede una volta superato l’orizzonte degli eventi è incognito. L’idea, elaborata da Hawking, è che il buco nero sia una “singolarità” dello spazio tempo (tanto per rendere l’idea, un punto in cui la densità di materia tenderebbe all’infinito), e l’orizzonte degli eventi un limite in pratica irraggiungibile. Esistono molte teorie, anche qui non sempre del tutto serie, su cosa possa accadere riuscendo ad entrare nell’orizzonte degli eventi (ma ricordiamoci che non è possibile!). Un ottimo spunto di riflessione in merito è il celebre film “Interstellar” (sicuramente curato dal punto di vista scientifico, ma rimane comunque un film). Anche in questo campo la ricerca continua a fare passi in avanti: penso che tutti ricorderanno a tal proposito la celebre “fotografia” di un buco nero supermassiccio realizzata nel 2019.

              Il pianeta Marte sembra essere il prossimo obiettivo per una missione spaziale con astronauti:   

              quali potrebbero essere i tempi di attuazione? Da Marte ci sono giunte foto nitide che non

              mostrano segnali visibili di vita. Il Pianeta Rosso ospita sia la montagna più alta che la valle più

              profonda e lunga del sistema solare. Il Monte Olimpo è alto circa 27 chilometri, ovvero tre volte

              più alto del Monte Everest, ed è un massiccio vulcano con un diametro di circa 600 km. Il 18

              febbraio 2021 il Rover Perseverance della NASA è atterrato con successo sul suolo marziano. Tra i

              vari obiettivi della missione vi è quello di analizzare frammenti di roccia e terreno alla ricerca di

              indizi riguardo ad una possibile vita microbica nel passato del pianeta rosso. 

            Che cosa può dunque interessarci di questa missione nello spazio certamente più impegnativa

              dello sbarco sulla Luna?

Marte non ha un campo magnetico forte per via delle ridotte dimensioni e per via di un sottilissimo strato di atmosfera quasi inesistente: in che modo progetti come quello di Elon Musk prevedono di poter “produrre” acqua su Marte?

Da sempre il pianeta Marte affascina l’uomo: è uno dei mondi a noi più vicino e potrebbe ospitare o aver ospitato delle forme di vita, che potrebbero addirittura aver portato la vita sulla Terra stessa. Lo abbiamo visitato con molte missioni spaziali, ma l’essere umano non ha ancora posato piede sulla sua superficie. L’ambiente marziano è altamente inospitale: ha un’escursione termica di oltre 100 gradi tra giorno e notte, una bassissima pressione atmosferica che impedisce la presenza di acqua allo stato liquido, ma solo gassoso o solido, e non possiede un campo magnetico in grado di schermare dalla radiazione solare e cosmica, solo per citare alcuni “problemi”. Non escludo tuttavia di poter vedere, nel giro di pochi decenni, degli esseri umani sbarcare sul pianeta rosso. Musk propone di estrarre l’acqua facendo esplodere degli ordigni nucleari, ma questo contribuirebbe a peggiorare ancora l’ambiente marziano. Qualcuno ha proposto di creare un campo magnetico artificiale e quindi un’atmosfera di anidride carbonica facendo sublimare il ghiaccio secco presente nelle calotte polari. Grazie all’effetto serra si riuscirebbe ad ottenere abbastanza pressione e per far sciogliere il ghiaccio normale. Credo che questo secondo approccio sia più sensato.

                Secondo una recente ipotesi potrebbe essere messa in discussione la genesi dell’Universo

                per effetto del famoso fenomeno denominato “Big-bang”. Un Fisico dell’Università di Liverpool,

               Bruno Bento, spiega, in uno studio (basato su una nuova teoria della gravità quantistica,

               denominata “teoria degli insiemi causali”) che, in effetti, un Universo “eterno” potrebbe esistere.

Questa teoria è stata ripresa da Paul M. Sutter, professore di Astrofisica della Stony Brook University e del Flatiron Institute, recentemente in un articolo su Live Science.

Bento e Sutter ci riferiscono di un Universo in cui l’insieme causale risulterebbe “infinito al passato, e quindi c’è sempre qualcosa prima”, in pratica l’universo sarebbe sempre esistito. L’espansione che vediamo oggi potrebbe essere stata provocata da un singolo evento, chiamiamolo pure “Big Bang”, che però rappresenterebbe solo un momento nell’evoluzione eterna degli insiemi causali, non un vero inizio. Come può sposarsi quest’ultima teoria con l’espansione metrica espressa matematicamente da Friedmann – Lemaître – Robertson – Walker?

Anche nell’ambito delle teorie cosmologiche, abbiamo moltissime opinioni. L’evidenza sperimentale a favore di quello che si definisce comunemente “Big Bang” è schiacciante, ma dal punto di vista teorico non abbiamo ancora tutti i pezzi del puzzle: da un lato abbiamo la Teoria Generale della Relatività, dall’altro la Meccanica Quantistica, ma queste due importantissime teorie non si parlano tra di loro. E la genesi dell’universo è un campo di applicazione in cui servirebbe proprio una “teoria quantistica della gravità”, argomento sul quale tra i fisici non vi è ancora una visione unitaria. La Fisica procede per “approssimazioni successive”: le vecchie teorie non sono sbagliate ma solo approssimazioni meno precise delle nuove teorie.

Speriamo di arrivare al più presto ad una teoria che unifichi la gravitazione e la meccanica quantistica, non è assolutamente banale, tant’è vero che Einstein provò a trovarne una ma non c’è mai riuscito.

Mi capita di ripensare al 1° gennaio 2019 quando, alle 6.33  la sonda spaziale della NASA  New   

        Horizons aveva raggiunto in fly by “Ultima Thule” , cioè  l’ultimo corpo celeste n° 486958 – 2014

        MU69, appartenente alla “fascia di Kuiper”, ai confini del sistema solare e a 6,5 miliardi di km

        dalla

        Terra, inviandoci foto a 10.000 pixel che arrivavano insieme a segnali tecnici attesi dalla missione

        al Centro Applied Physics Laboratory della Johns Hopkins University, viaggiando alla velocità della

        luce,  in 6 ore e 25 minuti. Una vicenda che mi aveva coinvolto e affascinato.

E’ assai probabile che terminata la sua missione, New Horizons seguirà le sorti delle

              sonde Voyager 1 e 2, esplorando l’eliosfera esterna, l’elioguaina e l’eliopausa, che potrebbe

              raggiungere nel 2047.   Poco importa che di Ultima Thule nel sorvolo più ravvicinato di New

              Horizons sia giunta alla NASA l’immagine inusitata di un corpo celeste a forma e colore di tartufo:

              sono moltissime le informazioni ricevute che gli scienziati studieranno nei prossimi anni per

              ricostruire la storia dell’universo. Prof. Pesce come immagina che sia l’universo “oltre” Ultima

              Thule? Queste astronavi progettate per inviare immagini alla Terra si perderanno nello Spazio?

Purtroppo queste astronavi si perderanno inevitabilmente nello spazio. Non abbiamo ancora sviluppato una eventuale tecnologia che consenta di far muovere questi veicoli a velocità vicine a quelle della luce. Anche in questo caso ci vorrebbero comunque almeno cinque anni per raggiungere la stella a noi più vicina dopo il Sole. Aver raggiunto Ultima Thule è stato meraviglioso, ma, per fare un paragone, se pensassimo all’Universo come alla nostra Terra, è come se ci fossimo semplicemente alzati dal letto. C’è molto da scoprire, là fuori, non ho proprio idea di tutto quello che potremmo trovare.

Se osserviamo la volta celeste di notte in montagna o in un posto dall’aria rarefatta notiamo il brillare delle stelle e questo è dovuto all’energia che emettono. Agli antichi servivano come orientamento. Tuttavia nulla nell’universo è immutabile: come si possono rilevare spostamenti, misurare distanze e osservare le stelle nella loro veste meno poetica di corpi planetari o pianeti?

              Con gli strumenti in dotazione ai centri di ricerca spaziale e agli osservatori astronomici riusciamo     

              ad avere una sorta di geometria del cielo? Come possiamo mantenere questa “geometria

              spaziale”, a distanze enormi? Se il 68% della massa-energia dell’Universo sfugge agli attuali

              metodi di  rilevazione e se sale addirittura al 95% considerando anche la Materia Oscura,

              l’Universo che “vediamo” (non solo visivamente), può raggiungere dimensioni al di là di ogni

              immaginazione?

Nessuno sa con precisione quanto sia grande l’universo. La velocità della luce è finita e pertanto oggetti molto distanti non possono essere osservati in quanto la loro luce non ha fatto ancora in tempo a raggiungerci. Se consideriamo l’espansione cosmologica e il fatto che il nostro universo ha un’età di circa 14 miliardi di anni, si ottiene per l’universo visibile un raggio di circa 46 miliardi di anni luce, un numero spaventoso, ma che non è detto sia la reale dimensione del cosmo. Se aggiungiamo a questo il fatto che solo circa il 5% del contenuto energetico dell’universo sia costituito da materia “ordinaria” (il 27% circa da materia oscura e il 68% dalla misteriosissima energia oscura), è chiaro che quello che vediamo in una notte stellata rappresenta solo un granello di una spiaggia immensa. Si spera che il telescopio spaziale Webb, che dovrebbe essere lanciato a fine 2021, contribuisca a far parzialmente luce su questi misteri.

La cosa che mi sorprende, se ci penso, è che fino a meno di un secolo fa pensavamo che l’universo fosse limitato alla sola Via Lattea; è infatti del 1924 l’osservazione cruciale di una stella variabile nella “nebulosa di Andromeda” che ha consentito ad Hubble di misurarne la distanza e capire che in realtà si trattava di un’altra galassia, scardinando ancora una volta il dogma aristotelico che ci vorrebbe al centro dell’universo, già demolito nel 1600 da Galileo e Newton.

Credo che l’osservazione e lo studio dello Spazio, oltre che essere Scienza e quindi Astronomia, siano anche una delle occupazioni più affascinanti che esistano.

Che sensazioni prova ad immergersi con il cannocchiale in questa infinità incommensurabile?

Non crede che dovrebbe essere materia di studio anche per gli studenti delle scuole superiori, oltre il dato strettamente scientifico, come fonte di insegnamento utile per attribuire la giusta misura a tutte le cose, per misurare e commisurarsi, specie in questa epoca buia di complottismi, negazionismi e disinformazione?

Sulla Terra vivono 7,5 miliardi di esseri umani, a fine secolo saranno 11 miliardi: il futuro è dunque nella esplorazione dello Spazio?

L’osservazione del cielo è indescrivibile, chi non ha provato la visione di una volta celeste incontaminata dalle luci artificiali non può capire. Tutto quello che possiamo vedere con un telescopio è stato catalogato ed ha un nome (o una sigla). A me piace non solo cercare qualche oggetto specifico, ma anche vagare a caso, tra le migliaia di stelle che si incontrano.

Purtroppo non esiste un corso di Astronomia per le scuole. Io tengo qualche lezione, conferenza, etc. per gli studenti e mi piacerebbe anche organizzare qualche evento osservativo, ma ritengo che dovrebbe essere dato più spazio a queste tematiche.

Sui complottisti, negazionisti e vari, dallo sbarco sulla Luna al cambiamento climatico al Covid, non spendo parole, dico solo che dovrebbero guardare meglio il mondo, provare stupore ed apprezzarne la bellezza, invece di cercare cospirazioni che non esistono.

L’esplorazione spaziale è fondamentale non solo per garantire un futuro ad un’umanità sempre più in crescita in un mondo sempre più stretto. Essa ha anche delle ripercussioni più immediate sulla tecnologia che usiamo tutti i giorni, dal telefonino a materiali in grado di resistere al caldo e al freddo estremi.

Una delle ragioni, forse la principale, della ricerca spaziale consiste nel trovare altre forme di vita o ambienti dove la vita possa esistere. Dalla mitologia agli avvistamenti dei marziani, l’uomo guarda al cielo come fonte di soluzione a molti problemi che ci riguardano.

Ha una personale opinione circa la sussistenza di altre forme di vita nello spazio infinito che sta intorno a noi?

Sono fermamente convinto che esistano altre forme di vita nell’universo, ma che siano quasi impossibili da scoprire. In questa immensità di cui abbiamo parlato prima è impossibile che le condizioni che hanno portato alla nascita della vita si siano verificate solo sulla Terra. Sarebbe anche un po’ troppo presuntuoso crederlo, visto anche l’altissimo numero di pianeti extra-solari che vengono scoperti, parecchi anche con caratteristiche simili alla nostra Terra. Tuttavia le enormi distanze in gioco, il fatto che non si può superare la velocità della luce e la relativamente breve durata che si può stimare per una civiltà intelligente, tendono ad azzerare la probabilità che due civiltà differenti riescano ad incontrarsi o a comunicare in qualche modo.

Chiedo spesso ai miei intervistati quale valore abbia il silenzio nella loro vita: credo si tratti di un concetto importante nella considerazione e nello studio dello Spazio. Qual è il suo punto di vista e la sua esperienza?

Secondo me la società odierna da’ poco valore al silenzio. Parlando di osservazione del cielo, è sicuramente bello farla in compagnia, ma contemplare l’infinità del cosmo in silenzio è qualcosa di assolutamente unico. Ricordo che, quando lavoravo in Argentina, nelle notti in cui non ero di turno all’osservatorio (di fatto dietro un computer a manovrare gli strumenti) a volte mi incamminavo da solo lungo la strada cercando qualche angolo buio da cui contemplare il cielo, a occhio nudo o con il mio binocolo: semplicemente meraviglioso!

 

Francesco Provinciali

 

 

CV Prof. Roberto Pesce:

Da sempre appassionato di astronomia, è Dottore di Ricerca in Fisica, con specializzazione nella fisica astroparticellare. Dal 2003 al 2012 ha svolto ricerche sui raggi cosmici di altissima energia, collaborando con l’Università di Genova, l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e il “Pierre Auger Observatory” con sede in Argentina. Ha insegnato Matematica e Fisica in diversi licei genovesi, dal 2016 è docente di ruolo e dal 2018 svolge la sua attività didattica presso il Liceo “Luigi Lanfranconi” di Genova-Voltri. Dal 2012 è docente di astronomia presso il Centro Universitario del Ponente.

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