La “profonda rabbia” delle donne afghane contro i Paesi della missione

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Simona Cataldi, rappresentante del coordinamento italiano che affianca le attiviste afghane, spiega in un’intervista all’AGI perché le donne ritengono la comunità internazionale responsabile della situazione attuale. Il loro appello è di aprire subito un corridoio umanitario mentre sono in corso i rastrellamenti   

© @Sajjad Hussain/AFP – Donne afghane che indossano il burqa salgano su un taxi a Kabul 

AGI – “Le donne afghane sono profondamente deluse e arrabbiate nei confronti degli Stati che hanno preso parte alla missione di pace. Ora chiedono che si facciano carico della crisi politica e umanitaria di cui li ritengono responsabili”.

Lo riferisce Simona Cataldi, rappresentante del Cisda (Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane) con sede a Milano, che è in costante contatto con le donne nel Paese asiatico riconquistato dai talebani, conosciute e affiancate nelle battaglie per i diritti durante la lunga permanenza dell’associazione nel Paese asiatico, a partire dagli anni ‘90.

“Se ne sono andati riaccreditando i talebani”

In un’intervista all’AGI, spiega perché questi sentimenti vengano da lontano e come quella che definisce la “narrazione” della loro condizione nel Paese liberato dagli estremisti, fino al ritorno al passato delle ultime ore, non sia del tutto veritiera: “Da tempo le donne afghane criticano la presenza della comunità internazionale perché non ha mai affrontato il tema della giustizia in un Paese dilaniato da occupazioni e guerra che non ha mai fatto i conti col passato. Questo ha significato non portare avanti un processo di pace reale ma mettersi nelle mani dei ‘signori della guerra’ e dei loro giochi, di quei personaggi che, con l’avallo della comunità internazionale, hanno continuato a stare al potere e a esercitare corruzione e malaffare. Da tempo le donne pregano la comunità internazionale di andarsene di andarsene e lasciare spazio all’autodeterminazione. Non è vero, come si dice, che gli afghani in questi anni siano rimasti inermi. In tanti si sono dati da fare per i diritti”.

Il loro auspicio sembrerebbe essere stato accolto col passo indietro dei Paesi che hanno portato avanti la missione: “E’ vero che se ne sono andati ma l’hanno fatto attraverso trattative di pace coi talebani, riaccreditandoli”.

“Subito corridoi umanitari e status di rifugiati”

L’appello delle donne afghane a questi Paesi, affidato al Cisda, è di “aprire dei corridoi umanitari non solo per gli stranieri residenti in Afganistan ma anche per chi è nel mirino dei talebani, a cominciare dalle donne, per chi in questi anni ha collaborato con la comunità internazionale. Bisogna che gli venga concesso lo status di rifugiati per le vie brevi con voli per andarsene. 

Donne medico, giornaliste, attiviste, artiste, sono in grave pericolo. Sono in corso rastrellamenti porta a porta, bisogna fare subito”.  Cataldi sostiene che la “narrazione” di un Afghanistan in cui le donne hanno goduto di diritti dopo la liberazione dai talebani 20 anni fa è vera in parte, “solo per Kabul e alcune altre poche provincie delle 34 presenti nel Paese”.

“Nella maggior parte del Paese le donne non sono mai state libere”

“Qui in effetti sono state riammesse alla vita pubblica, sono diventate libere di uscire senza un uomo della famiglia che le accompagnasse, come imposto dai talebani, di scegliersi un lavoro, se indossare o meno il burqa, di andare a scuola nelle classi miste, prima abolite”.

Ma nel resto del Paese, nei villaggi più poveri e sperduti in particolare, “anche se i diritti sulla carta erano per tutte, le cose sono andate avanti come prima a fronte della propaganda di chi ha speso i miliardi e doveva restituire una certa immagine.

Così in questi luoghi, le donne hanno continuato a essere date in moglie prima dei 16 anni, a essere vittime di violenze e imposizioni. E le donne stuprate hanno continuato ad andare in prigione perché disonoravano la famiglia. Ha continuato a vigere la legge del villaggio contro quella dello Stato.

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