L’anno nero del Dragone. Ombre si addensano sulla Cina.

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La Cina non è più così attraente per le compagnie multinazionali. La politica zero Covid imposta dal governo e gli scarsi indicatori economici stanno offuscando l’orizzonte per gli investitori stranieri.

Il declino di Shangai
La disoccupazione giovanile urbana (16-24 anni) è balzata al 18,2%. Si preoccupa il primo ministro, Li Keqiang, che annuncia una situazione occupazionale complessa e cupa. La produzione industriale è in calo del 2,9%, mentre le vendite al dettaglio scendono dell’11,1%. I timori non finiscono. Ad aprile, l’economia cinese è stata persino peggiore di quanto previsto dagli analisti. Nessuno, infatti, aveva immaginato che Pechino, in nome della sua politica zero Covid, sarebbe arrivata a imporre un rigoroso lockdown alla sua capitale economica, Shangai, per circa due mesi.

Dalla comparsa del virus nel 2020, questa città non è più riuscita ad essere la bella vetrina del Paese. Grazie alla rigidità, le autorità cinesi hanno saputo essere pragmatico e gestire lo zero Covid. Ma la popolazione shanghaiese ha mal digerito ogni nuova restrizione di Pechino, secondo gli umori facilmente percepibili nella megalopoli.

Fino a qualche anno fa, per molte multinazionali, stabilirsi in questa città, significava beneficiare dell’accesso al mercato cinese, garantendo allo stesso tempo condizioni di vita occidentali ai propri dipendenti espatriati. Il mito è crollato.

La spiegazione della sudditanza di Shangai rispetto a Pechino è facile. Alla sua guida c’è Li Qiang, un uomo di Xi Jinping nato nello Zhejiang, la cui carriera dipende molto più dal segretario generale del Partito Comunista Cinese (PCC) che dalla popolarità tra i suoi elettori. Risultato: secondo Bloomberg, più di centottanta aziende nel mondo credono già che il lockdown di Shanghai avrà un impatto negativo sui loro risultati.

La rivoluzione copernicana delle politiche di Pechino
Ai potenti di Pechino, imporre il lockdown della politicamente sottomessa Shangai, ha fatto comprendere che in questa fase la crescita economica non è più una priorità. Dalla repressione della rivolta di Piazza Tienanmen nel giugno 1989, sembrava essersi stabilito un tacito consenso. Il potere centrale garantiva la crescita economica e la prosperità al popolo. In cambio, quest’ultimo lasciava che il PCC gestisse gli affari a proprio piacimento.

Secondo gli occidentali, la politica zero Covid ha dettato la fine di questo paradigma. Per Xi Jinping, il controllo politico e la stabilità sociale hanno la precedenza sullo sviluppo economico. Lo hanno già dimostrato l’acquisizione da parte del PCC dei colossi tecnologici cinesi dall’autunno del 2020, la chiusura programmata delle organizzazioni che offrono lezioni private agli studenti nell’estate del 2021 o i proclami martellanti sulla cosiddetta prosperità comune.

Il paradosso di Xi Jinping è stato l’annuncio, a settembre 2020, della vittoria del popolo cinese contro il virus, grazie alla politica zero Covid. Oggi la sua coerenza ad oltranza, affinché i fatti non possano dargli torto due anni dopo, proprio alla vigilia del 20° Congresso del PCC, comporterà il mantenimento di misure estremamente drastiche, qualunque sia il costo economico.

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