Le conseguenze del covid sul turismo italiano

Attualità & Cronaca

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ESCLUSIVA AGI 

Dopo lo shock il setore ha bisogno di essere ripensato e non potrà tornare a essere quello di prima della pandemia. Il rapporto AGI/Censis fotografa una situazione disastrata, ma con spiragli per il futuro

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© Aleandro Biagianti / Agf – Impianti sciistici chiusi all’Abetone

Crollate le presenze negli alberghi, spariti i turisti stranieri, migliaia di persone senza lavoro. A quasi vent’anni di distanza dallo stop dell’11 settembre, “il turismo ha conosciuto una nuova, imprevista, ma soprattutto devastante battuta d’arresto”. A spiegare le conseguenze della pandemia è il dossier AGI/Censis dedicato al settore nel quadro di “Italia sotto sforzo. Diario della transizione 2020/2021”.

Dati da brividi: -60/80% dei flussi globali (Ocse) e perdite economiche globali superiori a 1.100 miliardi (Unwto). Per l’Italia, 219 milioni di presenze in meno negli esercizi ricettivi nei primi undici mesi del 2020, pari a -52,2% (stime Istat). Secondo i dati di Assoturismo, gli arrivi diminuiscono del 61,8% e le presenze del 55%.

Pesanti le conseguenze sui consumi che perdono 50 miliardi di euro. Gravissime le conseguenze sull’occupazione, nonostante il blocco dei licenziamenti: -265 mila occupati solo nel secondo trimestre 2020. A livello europeo l’Italia rischia di essere uno dei Paesi più colpiti: è infatti quello con il più alto numero di esercizi ricettivi (più del 30% del totale di tutta l’Unione), il secondo Paese per presenze straniere e tra i primi quattro per presenze negli esercizi ricettivi.

I problemi del turismo vecchia maniera

Dopo lo shock Covid il turismo ha bisogno di “un pensiero alto di riprogettazione” è l’indicazione del dossier AGI/Censis, secondo cui il Piano nazionale di ripresa e resilienza può consentire di superare storiche criticità. I punti su cui intervenire sono la qualità dell’offerta extralberghiera, la spiccata stagionalità, la prevalenza del turismo balneare e delle città d’arte, l’eccessiva prevalenza del segmento tedesco (il 47% dei turisti stranieri proviene dalla Germania), la ridotta durata media dei soggiorni, la polarizzazione sulle località più rinomate (il 58% dei flussi riguardano 5 sole regioni).

A tutto ciò si aggiungono i problemi della logistica, del sistema portuale e aeroportuale e dei collegamenti ferroviari. Fattori che contribuiscono a porre l’Italia al settimo posto nell’indicatore mondiale di competitività turistica.

Più qualità e meno quantità

La prima esigenza, forse la più urgente e di maggior valore strategico, è – secondo il dossier – quella del riequilibrio dell’offerta complessiva, puntando anche alla destagionalizzazione. Occorre poi intervenire sull’accessibilità dei luoghi di pregio ancora in parte misconosciuti.

È quindi necessario creare valore turistico individuando nuovi format di fruizione, creando specifici eventi e presidiando il dibattito culturale internazionale. Infine, il dossier indica l’obiettivo di aiutare gli alberghi a ripensarsi e riprogettarsi sotto l’aspetto dell’impatto ambientale e della responsabilità ecologica, dell’efficientamento energetico, dei servizi innovativi e della transizione digitale.

Nel Pnrr sono previsti 8 miliardi di euro dedicati a “Turismo e Cultura”: ora si tratta di capire come impiegarli. Una maggiore qualità, di fronte alla riduzione delle quantità – sostiene il rapporto – può essere la strada. Puntando a trasformare il turista-cliente in uno stakeholder del nostro territorio e delle nostre eccellenze.

Il modello AirB&B

Di necessità, virtù: con le restrizioni agli spostamenti imposte dalla pandemia è tornata di moda la vacanza di corto raggio. E Airbnb e seconde case, anche dopo l’emergenza, sono destinate a ritagliarsi sempre più un ruolo da protagonista.

Non a caso “il colosso degli affitti brevi Airbnb – dopo il licenziamento di circa un quarto dei dipendenti – ha resettato la sua offerta proprio sul turismo di prossimità. Un turismo fatto di spostamenti brevi, effettuati perlopiù in auto, che in realtà ha come ‘ingrediente’ fondamentale le seconde e terze case che sono nella disponibilità delle famiglie italiane.

Si tratta di un capitale fatto di case ‘a disposizione’, localizzate in parte nei paesi di origine e in parte in località turistiche di mare o di montagna, originatosi anche come bene-rifugio per il risparmio di tante famiglie, che nell’epoca del boom del turismo globale era finito in secondo piano.

Un capitale poco utilizzato per via dei mutamenti degli stili di vita che hanno portato gli italiani a viaggiare di più, andando più lontano e per vacanze più brevi, spesso mal conservato, con crescenti difficoltà di collocazione sul mercato immobiliare”.

“Un po’ come è avvenuto nelle città per il commercio, dove i piccoli alimentari di quartiere hanno registrato un imprevisto ritorno di clientela – spiegano gli autori della ricerca – la crisi sanitaria legata alla pandemia ha offerto una seconda giovinezza a questo comparto e molte località turistiche, anche secondarie, sono tornate a ripopolarsi grazie ai proprietari di seconde case, come non succedeva da tempo”.

Il ritorno delle seconde case

Secondo una recentissima indagine Censis (ottobre 2020), “poco meno di un italiano su 4 (24%) dispone di almeno un’altra residenza collocata in un comune diverso da quello di residenza. Naturalmente i valori cambiano considerevolmente in relazione alla condizione economica della famiglia. La quota di famiglie che ha accesso a una ‘seconda casa’ (ridottissima tra le famiglie di livello economico basso) si attesta sul 18% tra i nuclei di livello medio-basso e sale addirittura al 40,6% nelle famiglie di livello economico medio-alto”.

Non solo: il 34% delle famiglie, secondo i dati della stessa indagine, dichiarano di averne fatto nel 2020 un utilizzo maggiore che in passato: grazie anche al diffuso ricorso allo smart working, per alcuni mesi le seconde case, delle località turistiche e non, hanno temporaneamente svolto la funzione di prima casa”.

Le ragioni sono tante e diverse: la principale è il maggior senso di sicurezza legato al fatto di poter soggiornare nella propria casa (35,9%), a seguire la rinuncia forzata alla vacanza all’estero, motivazione diffusa tra i ceti medio-alti (26,1%) e, in qualche modo all’opposto, l’esigenza di ridurre le spese non essenziali in una congiuntura difficile: motivazione addotta dal 21,7% di coloro che si collocano in una fascia di reddito medio-bassa.

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