L’omicidio di Paolo Borsellino 29 anni dopo, un punto

Attualità & Cronaca

Di

Fra indagini, mandanti, processi dello Stato e a pezzi di Stato si cerca ancora una verità definitva sulla morta del giudice scomparso nel 1992

© Wikipedia – Paolo Borsellino e Giovanni Falcone (wikipedia)

AGI – Un depistaggio che non è mai finito. Nuove indagini, processi, ex pentiti che tornano alla ribalta… Un’ombra lunga che ancora non è stata dissolta. Cinquantasette giorni separano la strage di Capaci del 23 maggio 1992 da quella di via D’Amelio del 19 luglio. Ventinove anni i due eccidi da una verità piena la cui ricerca è ancora in corso tra nuove e false piste. Un tempo tragico, oscuro e colmo di tensione. Gli attentati contro Giovanni Falcone e Paolo Borsellino si consumarono in un contesto di incapacità e complicità che va ben oltre il livello della mafia, in un quadro, certificato da una sentenza, di “colossale depistaggio”.

Il verdetto del processo Stato-mafia è del 20 aprile 2017. “Uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”, lo definì la Corte d’assise di Caltanissetta, nelle motivazioni della sentenza, lunga quasi duemila pagine e depositata nell’estate del 2018. A novembre 2019 si è concluso in appello il quarto processo per la strage di via D’Amelio, confermando la condanna all’ergastolo per i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, imputati il primo come mandante e il secondo come esecutore della strage, e a 10 anni per i falsi pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci, accusati di calunnia. Dichiarato estinto per prescrizione il reato di calunnia contestato a Scarantino.

“Altri soggetti e gruppi di potere”

Per quei giudici “non sussiste alcuna prova che consenta di collegare la trattativa Stato-mafia con la deliberazione della strage di Via D’Amelio”. Secondo la Corte d’appello nissena, “la strage di via d’Amelio rappresenta indubbiamente un tragico delitto di mafia, dovuto a una precisa strategia del terrore adottata da Cosa nostra, in quanto stretta dalla paura e dai fondati timori per la sua sopravvivenza a causa della risposta giudiziaria data dallo Stato attraverso il Maxiprocesso, nato anche, da una felice intuizione dei giudici Falcone e Borsellino”.

“Ogni tentativo della difesa di attribuire una diversa paternità a tale insana scelta di morte e di terrore – proseguono i giudici – non può trovare accoglimento, potendo, al più, le emergenze probatorie indurre a ritenere che possano esservi stati anche altri soggetti, o gruppi di potere, interessati all’eliminazione del magistrato e degli uomini della sua scorta. Ma tutto ciò non esclude la responsabilità principale degli uomini di vertice dell’organizzazione mafiosa che, attraverso il loro consenso tacito in seno agli organismi deliberativi della medesima organizzazione, hanno dato causa agli eventi di cui si discute”. Borsellino fu ucciso per “vendetta e cautela preventiva”.

Il prossimo 5 ottobre toccherà alla quinta sezione penale della Cassazione. I giudici del ‘Palazzaccio’ dovranno esaminare i ricorsi presentati contro la pronuncia dei giudici di secondo grado che ha confermato la tesi del depistaggio.

Cinquantasette giorni

Il 23 maggio del 1992, Giovanni Falcone, direttore degli Affari penali del ministero di Grazia e Giustizia e candidato alla carica di procuratore nazionale antimafia, era appena atterrato all’aeroporto di Punta Raisi con la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato. Alle 17.58, sull’autostrada Trapani-Palermo, nei pressi di Capaci, la tremenda esplosione che li uccise con gli uomini della scorta.

Circa 500 chili di tritolo piazzati dentro un canale di scolo esplosero mentre transitavano le Croma. La prima auto blindata – con a bordo i poliziotti Antonino Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo – venne scaraventata oltre la carreggiata opposta di marcia, su un pianoro coperto di ulivi. La seconda Croma, guidata dallo stesso Falcone, si schiantò contro il muro di detriti della profonda voragine aperta dallo scoppio. L’esplosione divorò un centinaio di metri di autostrada. Poco più di un mese dopo, il 25 giugno, Paolo Borsellino denunciò la costante opposizione al lavoro e al metodo di Falcone di parti consistenti delle istituzioni.

“Secondo Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io – disse Borsellino – condivido questa affermazione. Oggi che tutti ci rendiamo conto di qual è stata la statura di quest’uomo, ci accorgiamo come in effetti il Paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò a farlo morire il primo gennaio del 1988, quando il Csm con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Meli”. A un certo punto “fummo noi stessi a convincere Falcone, molto riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Cercò di ricreare in campo nazionale e con leggi dello Stato le esperienze del pool antimafia. Era la superprocura”. La mafia “ha preparato e attuato l’attentato del 23 maggio nel momento in cui Giovanni Falcone era a un passo dal diventare direttore nazionale antimafia”.

Ore 16.58

Paolo Borsellino, 51 anni, da 28 in magistratura, procuratore aggiunto nel capoluogo siciliano dopo aver diretto la procura di Marsala, quel 19 luglio 1992 pranzò a Villagrazia con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia. Poi si recò con la sua scorta in via D’Amelio, dove vivevano la madre e la sorella.

Una Fiat 126 parcheggiata nei pressi dell’abitazione della madre con circa cento chili di tritolo a bordo, esplose al passaggio del giudice, uccidendo anche i cinque agenti. Erano le 16.58. L’esplosione, nel cuore di Palermo, venne avvertita in gran parte della città. L’autobomba uccise Emanuela Loi, 24 anni, la prima donna poliziotto in una squadra di agenti addetta alle scorte; Agostino Catalano, 42 anni; Vincenzo Li Muli, 22 anni; Walter Eddie Cosina, 31 anni, e Claudio Traina, 27 anni. Unico superstite Antonino Vullo.

Messina Denaro, l’anello stragista

Il 21 ottobre 2020 la Corte d’Assise di Caltanissetta ha condannato all’ergastolo Messina Denaro, riconosciuto tra i mandanti delle stragi del 1992 e già condannato per le bombe del 1993 a Firenze, Roma e Milano.

La sentenza ha riconosciuto il ruolo nella ‘strategia stragista’ di Cosa nostra del latitante, quale anello di collegamento tra le bombe del 1992 e gli attentati nel nord Italia, a Firenze, Milano e Roma del 1993. I magistrati di Caltanissetta stanno adesso anche valutando la consistenza dello spunto su via d’Amelio emerso dalle intercettazioni in carcere di Totò Riina, da cui si evincerebbe la presenza, in via D’Amelio del latitante, bollato in altri passaggi intercettati come “quello della luce”, in relazione ai suoi interessi nel business delle energie rinnovabili.

“Quello della luce”

“Da sua madre… deve venire da sua madre… gli ho detto… preparati… aspettiamolo a quello della luce… anche perché devono essere tutte cose pronte”: è il contenuto dell’intercettazione registrata in carcere il 6 agosto 2013, depositata dalla procura generale di Palermo, assieme al resto dei brogliacci, nel processo d’Appello in corso sulla Trattativa Stato-Mafia. Una frase ‘spezzata’, dicono dalla procura di Caltanissetta, su cui verranno eseguiti degli accertamenti, tra cui il riascolto del file originale, anche per valutare la corrispondenza tra quanto detto, in siciliano, dal capo dei corleonesi e il testo riportato nelle trascrizioni.

​”Messina Denaro – ha detto Paci – è il frutto marcio di ciò che fu Totò Riina, è stato un membro della commissione regionale, ha partecipato alla deliberazione di morte e all’esecuzione di fatti eccellenti collegati a quella decisione, fu il primo a partecipare ai tentativi di uccidere Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, nemici storici di Cosa Nostra”.

 La decisione di uccidere i due giudici non fu un fatto isolato, “ma ben piazzato al centro di una strategia stragista a cui Matteo Messina Denaro ha partecipato con consapevolezza, dando un consenso, una disponibilità totale della propria persona, dei propri uomini, del proprio territorio, delle famiglie trapanesi al piano di Riina che ne fu così rafforzato e che consentì alla follia criminale del capo di Cosa nostra di continuare nel proprio intento: anzi, più che di consenso – ragiona Paci – parlerei di totale dedizione alla causa corleonese”.

Dopo 29 anni restano tanti misteri. La sentenza di primo grado del processo Stato-mafia, che ha condannato boss, ex alti ufficiali del Ros come Mario Mori e politici come Marcello Dell’Utri, a giudizio di molti – mentre è alle battute finali il processo d’appello – ha dato linfa e impulso a nuove inchieste a Caltanissetta sulle stragi.

Lo Stato processa Lo Stato

Tre poliziotti sono sotto processo a Caltanissetta con l’accusa di essere i tasselli di una complessa strategia di depistaggio delle indagini sull’eccidio di via D’Amelio. A febbraio scorso il gip di Messina ha accolto la richiesta di archiviazione della procura per gli ex pm di Caltanissetta, Carmelo Petralia e Annamaria Palma, accusati di calunnia aggravata in merito alla gestione del falso pentito Vincenzo Scarantino. Per il giudice ci furono “anomalie e irregolarità” su questo fronte, ma sui due ex sostituti procuratori non è stata individuata “alcuna condotta penalmente rilevante” volta “a indurre consapevolmente Scarantino a rendere false dichiarazioni e a incolpare ingiustamente”.

La (falsa) storia infinita

Dopo la strage di via d’Amelio, “a quasi trent’anni da quella stagione di eversione mafiosa, le sue verità sono ancora materia viva e scomoda. Verità che preoccupano, oggi come ieri; e che inducono taluni a forzare la ricostruzione dell’attentato verso spiegazioni meno traumatiche, oggi come ieri”, afferma la recente relazione dell’Antimafia regionale.

Una storia che “non è mai finita e i depistaggi sono ancora in corso”, ha affermato, durante la sua audizione, il procuratore Roberto Scarpinato. Il riferimento è anche alla dinamica della strage proposta dall’ex collaboratore di giustizia Maurizio Avola che “suona falsa”.

Una “riscrittura radicale e assai tranquillizzante della strage”, una versione dei fatti e dei mandanti che “vorrebbe ribaltare la ricostruzione processuale di Spatuzza che in più occasioni ha confermato la presenza di un estraneo a Cosa nostra attorno alla 126 imbottita d’esplosivo il giorno prima della strage”. Il procuratore Paci ha parlato di elementi che “inducono a dubitare tanto della spontaneità quanto della veridicità” del racconto di Avola.

“L’epilogo di questa putrida vicenda – disse una volta Fiammetta Borsellino – è la storia dell’Italia: lo stivale dei maiali che affonda sempre di più nel fango come cantava Battiato in ‘Povera Patria’, pensando a quei corpi in terra senza più calore”.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

CAPTCHA ImageChange Image

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Traduci
Facebook
Twitter
Instagram
YouTube