Mal comune, quello americano: l’autofagia democratica

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Editoriale

Danilo Breschi

Un tempo erano stati uniti in America. Da qualche tempo sono sempre più divisi in America. Mai perfettamente uniti, ad onor del vero, nemmeno dopo la sanguinosissima e spietata guerra civile (1861-1865), ma pluralisticamente coesi in alcuni valori di fondo: così hanno sostanzialmente convissuto i cittadini della Repubblica federale degli Stati Uniti d’America, appartenenti a diverse etnie, provenienti dalle più diverse parti del mondo. Almeno così è stato per una quota significativa di quella popolazione; diciamo la soglia minima per la tenuta del patto federale e democratico. La contestazione nei confronti delle pubbliche autorità, pur crescente, veniva per lo più espressa e praticata nel nome della Costituzione, di un sistema politico ed istituzionale mai messo in discussione nei suoi fondamenti valoriali. Da qualche tempo, però, tutto questo è sempre meno vero e le tensioni crescono anno dopo anno, sfociando spesso in rivolte urbane e talvolta in velleità persino anarco-insurrezionaliste o vagamente sovversive.

Dalla presidenza Obama a quella Trump, dal gennaio 2009 al gennaio 2021, le due ali estreme dello schieramento politico-culturale statunitense, consolidatesi nel corso degli anni Sessanta e cresciute nei quarant’anni successivi, si sono definitivamente espanse e dispiegate. Posizioni di centro e moderate ne sono risultate oscurate, complice la fine del periodo di maggior benessere dell’economia americana, come di tutta quella occidentale. Sono sempre più emerse agli onori della cronaca posizioni radicali di destra e radicali di sinistra, tanto per usare due espressioni parzialmente improprie nel contesto statunitense, ma anche parzialmente esplicative dei due orientamenti schierati in campo e sempre più contrapposti. Siamo reduci dalla primavera-estate 2020 in cui moltissime città americane sono state travolte dalle proteste seguite alla brutale uccisione di George Floyd da parte della polizia di Minneapolis. Black Lives Matter, Antifa ed altri gruppi estremisti “di sinistra” hanno messo a ferro e fuoco, provocando altri morti, feriti e miliardi di dollari di danni a beni mobili e immobili. In nome della cosiddetta Cancel Culture si sono abbattuti numerosi monumenti, statue e targhe pubbliche di personalità della storia politica e culturale americana con l’accusa di razzismo, sessismo e altre forme di intolleranza e discriminazione.

Dal canto suo, dal 2016 in poi Trump ha riportato il populismo là dove era sorto, per quanto concerne l’Occidente, ossia negli Stati Uniti, lo ha collocato nell’area repubblicana, e ha così soffiato sul fuoco di un’ala – quella “radicale di destra” – che da tempo cova frustrazioni, odio e rancore, acuiti dalla crisi economico-finanziaria del 2007-2008, da una presidenza Obama mal tollerata e infine dalla pandemia. Appena eletto presidente, dopo aver sbaragliato tutti i suoi competitori in area repubblicana durante le primarie (e questo è stato il primo campanello d’allarme), Trump ha subìto costanti contestazioni e accuse delegittimanti – dure, ma pacifiche – e così per quattro anni è stato segnalato come un pericolo per la democrazia americana da un sistema massmediatico e accademico di orientamento liberal e radical.

Il risultato più immediato di questa campagna denigratoria è stato alimentare a dismisura il suo populismo, dunque la sua linea politica anti-establishment, che di odio – dato, ma anche ricevuto – si nutre per restituirlo a beneficio dei propri sostenitori, ai quali dimostra come gli avversari siano “falsi tolleranti”. Fatto sta che il trumpismo, così aggressivamente anti-istituzionale, ha raccolto alle ultime elezioni 74.223.744 voti contro gli 81.283.485 voti ottenuti da Biden. Il dato deve far riflettere, perché, al netto della logica secca, da aut-aut, a cui sempre sottopone un’elezione tendenzialmente bipolare, cioè tra due candidati (ininfluenti gli altri due contendenti, Jo Jorgensen e  Howie Hawkins  rispettivamente del partito libertario e del partito verde), per cui si vota “il meno peggio” o “il meno lontano”, ci sono stati decine di milioni di voti di pieno sostegno al trumpismo, alla sua figura, alla sua retorica, ma anche alla sua azione di governo, che evidentemente ha soddisfatto milioni e milioni di cittadini americani. Tutto questo resterà nel tempo, sedimentato nella società statunitense. Domande che non potranno restare inevase a lungo.

Una linea anti-establishment, quella di Trump, che è culminata al termine del suo mandato. Basti vedere il modo con cui ha gestito l’esito elettorale dello scorso novembre, che lo ha visto sconfitto, fino alla manifestazione di ieri, 6 gennaio, e all’occupazione violenta da parte di suoi sostenitori dell’edificio del Campidoglio, sede del Congresso americano, ossia il Parlamento federale degli Stati Uniti d’America. Il primo ad intervenire pubblicamente, con un discorso trasmesso via tv, non è stato il presidente in carica, bensì quello eletto, in pectore fino al giuramento del prossimo 20 gennaio, ossia Joe Biden, che ha espresso una dura condanna: «Siamo un Paese in cui la legge viene rispettata. Siamo un Paese dove ha sempre trionfato la democrazia. Dove il rispetto, la decenza, la tolleranza per le idee degli altri sono sempre stati la nostra condotta. Ora la nostra democrazia viene minacciata per interessi personali senza che ci sia una causa. L’America è molto meglio di quello che stiamo vedendo in televisione». Ha quindi concluso con un’esortazione a Trump: «Intervieni».

Solo dopo Trump è apparso in video. Ha invitato i propri sostenitori a «tornare a casa». Il suo breve discorso è stato soprattutto un avallo di quella dimostrazione di forza che ha sfregiato un’istituzione-simbolo della democrazia americana. Se anche si trattasse di manifestazione andata oltre le intenzioni di chi l’aveva organizzata o supportata, resta il fatto che non è stata immediatamente ed inequivocabilmente condannata e che nessun riferimento è stato fatto alla difesa di quelle istituzioni di cui egli è il rappresentante e il garante. In quel videomessaggio Trump ha infatti ribadito che le elezioni presidenziali del 3 novembre 2020 sono state rubate e che comprende «il dolore» dei manifestanti. Questo è invece il contenuto di un primo tweet, poi rimosso da Twitter: «Capisco il vostro dolore, so che state male, abbiamo avuto un’elezione che ci è stata rubata. Tutti lo sanno, soprattutto l’altra parte, ma ora dovete andare a casa. Serve pace. Serve legge e ordine»). Ha successivamente twittato un secondo messaggio rivolto ai manifestanti: «Questo è il genere di cose che succedono quando una sacra vittoria elettorale a valanga viene strappata in modo così sgarbato e maligno da grandi patrioti che sono stati trattati male e ingiustamente per così tanto tempo. Andate a casa in amore e in pace. Ricordate questo giorno per sempre!» (These are the things and events that happen when a sacred landslide election victory is so unceremoniously & viciously stripped away from great patriots who have been badly & unfairly treated for so long. Go home with love & in peace. Remember this day forever!).

D’altronde, l’irruzione nel palazzo e nelle sale del Congresso è avvenuta poco dopo un breve comizio che Trump aveva tenuto davanti ad alcune migliaia di suoi sostenitori, radunatisi nel parco a sud della Casa Bianca per la manifestazione “Save America”, organizzata contro i presunti brogli elettorali. «Non ci arrenderemo mai, non concederemo mai la vittoria», aveva così esordito il presidente in carica. L’incitamento iniziale è evidente, altrettanto l’avallo finale che conferma intenzioni del tutto incompatibili con il ruolo ricoperto: nientemeno che la massima carica dello Stato federale americano. Le responsabilità di Trump sono dunque molto gravi.

Il risultato finale del suo soffiare sul fuoco sono stati 4 morti tra i manifestanti, 13 feriti, compresi alcuni agenti della polizia, e una cinquantina di arresti, oltre allo sfregio arrecato ad un importante simbolo della democrazia statunitense, quale è l’assemblea rappresentativa federale, presa d’assalto e fatta oggetto di atti di vandalismo per la prima volta nella sua storia plurisecolare. La polizia ha inoltre confermato che sono stati rinvenuti ordigni esplosivi davanti al quartier generale sia del Dnc (Democratic National Convention) sia dell’Rnc (Republican National Convention).

Il male di cui sta soffrendo in forme sempre più acute la democrazia americana è la delegittimazione, ossia la difficoltà a giustificare in modo condiviso e pacifico il trasferimento del potere, negando il riconoscimento dell’avversario, ossia il fatto che è giusto e ragionevole che i governanti siano lì dove sono, a comandare, perché hanno intercettato legalmente la maggioranza dei consensi tra i cittadini che hanno inteso esprimere liberamente il proprio diritto di voto.

Se il problema è solo Trump, la ferita potrebbe essere rimarginata con il tempo, anche se il mondo repubblicano dovrà fare un gran lavoro di riposizionamento politico e culturale, senza annacquare la propria identità, bensì rafforzandola e rendendola più netta e contrapponibile ai democratici, in modo da risultare vincente sin dalle elezioni di midterm del novembre 2022. I democratici, dal canto loro, dovranno contenere le spinte di minoranze etniche che intendono sostituire l’american way of life, insieme individualista e patriottica, con la “identity politics” e la condanna del passato culturale wasp (white anglo-saxon protestant). Nei prossimi mesi ed anni lo vedremo. Vedremo se e in che misura la presidenza Biden sarà all’altezza di questa sfida, tanto complessa quanto decisiva per le sorti della democrazia americana. Occorreranno prudenza e coraggio, comprensione e fermezza nel ristabilimento di un patriottismo repubblicano davvero bipartisan.

La malattia non è soltanto americana, però. Anzi. Sempre più le democrazie europee soffrono dello stesso problema, ossia la contestazione frontale della legittimità dell’avversario quando è (legalmente) vincente o prossimo alla vittoria alle elezioni. L’uso della propaganda, intesa come manipolazione dell’opinione pubblica a proprio vantaggio e discredito dell’avversario, è stato sempre presente in ogni tempo e in ogni luogo. Ovviamente prima poteva contare su mezzi che non sono nemmeno lontanamente paragonabili alla potenza pervasiva e persuasiva degli odierni mass media, dalla tv ai social network. La crescita della potenza comunicativa, favorita dall’innovazione tecnologica, induce coloro che competono nell’agone politico a ricorrere in modo sempre più massiccio alla propaganda, perché naturale è la tendenza del potere a conservare se stesso, a consolidarsi e perpetuarsi.

In tal senso ritengo che uno dei fattori che maggiormente incide nell’alimentare l’attuale malattia della delegittimazione del sistema democratico sia la rivoluzione tecnologica e culturale avvenuta negli ultimi tre decenni nel campo della comunicazione e dunque anche dell’informazione giornalistica. Oggi più che mai diventa fondamentale capire cosa stia accadendo nel mondo della comunicazione perché da lì si può condizionare l’opinione pubblica, alterando gli esiti elettorali e l’immagine dei governanti in modo costante e con inedite capacità di penetrazione nelle menti dei cittadini.

La prima sfida da affrontare e vincere è mantenere pluralistico il mercato della comunicazione e dell’informazione, colpendo i monopoli palesi od occulti che naturalmente tendono a formarsi in quel settore (e che peraltro sono già presenti e operano da tempo, in America come in Europa). La seconda sfida è educare la cittadinanza in modo tale che sappia decifrare le immagini e i messaggi quotidianamente iniettati dal sistema massmediatico. La sensazione è che la nostra vita quotidiana stia progressivamente entrando dentro un’enorme bolla mediatica, di realtà virtuale, in cui la distinzione tra vero e falso diventa impossibile, per cui vero è ciò che la potenza politico-mediatica maggiore introduce ed impone, mentre falso è ciò che essa rifiuta ed espelle. Il quarto potere sta alterando pericolosamente gli equilibri dei nostri sistemi rappresentativi a legittimazione popolare, altrimenti detti “democrazie”.

A ciò aggiungasi l’impoverimento educativo prodotto dalla combinazione tra indebolimento della scuola e potenziamento/ampliamento nell’uso/abuso dei social media, in cui prevalgono la tribalizzazione (ognuno fa gruppo solo con chi la pensa in modo uguale) e la semplificazione (impossibilitato o denigrato il ragionamento articolato e l’argomentazione documentata) del messaggio. Perché il medium è il messaggio, come ammoniva Marshall McLuhan. Le nostre menti e i nostri modi di pensare stanno diventando conformi alla logica binaria e spettacolare di tv e social media. Pertanto, oltre al problema cruciale di chi controlla i media, vi è quello della mediatizzazione della nostra forma mentis, che s’inaridisce e ritorna a modalità primitive e manichee. Una democrazia che vede ridursi il dibattito pubblico a manicheismo, ad eticismo, ad una contrapposizione tra noi, il Bene, e loro, il Male, non può che deperire fino ad implodere nella guerra civile. La guerra delle parole diventa così la preparazione alla guerra delle armi. Occorre fare molta, molta attenzione, da ambo le parti. Da destra e da sinistra, dai repubblicani e dai democratici, dai conservatori e dai progressisti. I segnali di allarme ci sono tutti, e da tempo. Tutti ben udibili, da oggi ancor di più. Restare sordi sarebbe una colpa non perdonabile. Il male è diagnosticato: autofagia. La democrazia che mangia se stessa. Diagnosticato, però, il male potrebbe essere persino convertito in opportunità di cura e guarigione. In biologia, infatti, autofagia cellulare è il meccanismo col quale una cellula rimuove in modo selettivo componenti danneggiati del citoplasma, ingerendoli e distruggendoli, e favorendo così la formazione di nuovi componenti. Ci vorrà molta scienza e coscienza per riparare i danni accumulatisi in varie parti delle nostre democrazie.

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