Nadia, Meena, noi e il corridoio umanitario

Arte, Cultura & Società

Di

Maria Pia Latorre

Sono trascorsi ventisei anni da quel settembre 1995, quando i Talebani di Mohammed Omar entrarono in Kabul proclamando la nascita dell’Emirato islamico dell’Afghanistan. Era bastato il ritiro, qualche anno prima, delle truppe sovietiche che avevano lasciato il Paese in uno stato di totale caos, con i mujaheddin in lotta tra loro per il potere, a far approfittare i talebani della situazione. E in quattro e quattr’otto i fondamentalisti misero le cose in ordine. Sì, perché si fa presto a mettere le cose in ordine quando si tortura, mutila e trascina con una jeep il presidente della Repubblica di una democrazia. Come fecero presto a ordinare uccisioni di massa nei villaggi isolati dell’Hindu Kush, con l’appoggio dalle armi dell’Arabia Saudita e del Pakistan. E fin qui non una piega.

Ma quando si scopre che i signori della guerra non stanno più tutti dalla stessa parte e non si sa più dov’è il bene e dove il male, per i sortilegi compiuti dalla realpolitik, a partire dalle conseguenze dell’attentato delle Twin towers a New York, allora ci si sente destabilizzati. E non si ha il tempo per capire, perché la storia incalza, e la violenza, che per sua natura usa la strategia della rapidità d’azione, stordisce.

Scorrono le scene dell’invasione americana a Kabul del 2001, una nuova speranza di democrazia per l’Afghanistan. Certo la popolazione ci crede, come ci credono le donne che, timidamente, cominciano ad assaporare l’emancipazione su modello occidentale.

Ma può una promessa basata sulla vendetta di Ground zero portare buoni frutti?

Ovviamente no. Perché superato in qualche anno lo shock dell’attentato al cuore della democrazia, gli interessi dell’alta finanza mondiale fanno presto a buttare giù la maschera, mostrando al mondo il tradimento di fatto del sogno democratico.

Ancora sequenze di violenza ci colpiscono dal 15 agosto 2021, data che sarà consegnata alla storia come il ferragosto più infuocato di sempre. Scene così rapide da sembrare estranianti.

Così il 16 agosto 2021 assistiamo increduli alla caduta in volo di Zaki Anvari, appena staccatosi dal carrello di un Boeing statunitense a cui si era aggrappato nel tentativo di lasciare il Paese, che ci rimanda immediatamente ad altri corpi caduti in volo vent’anni prima: quelli di chi cercò di scampare al fuoco delle torri gemelle lanciandosi dalle finestre del grattacielo. Se possiamo dare un volto alla disperazione è questo.

Aveva 19 anni, Zaki, ed era una promessa della nazionale afghana. In uno dei suoi ultimi post pubblicati sulla pagina Facebook, aveva scritto: “Sei il pittore della tua vita. Non dare il pennello a nessun altro”.

In tutte le emergenze sono i più deboli a pagare per primi e più duramente, quindi donne e bambini.  E li abbiamo visti i bambini sollevati e passati di mano in mano fino a raggiungere quelle dei soldati americani, oltre i fili spinati dell’oscurantismo e  verso l’invocata democrazia occidentale: – Siamo genitori anche noi – piangevano le donne afghane – cercate di capire il nostro dolore.

E come non capirlo quel dolore fatto di millenni di sopraffazione nell’alternarsi dei popoli invasori, dolore della stessa durezza e aridità del suolo calpestato.

Cosa resta oggi  in mano a questo popolo così antico e fiero? Polvere. Polvere forse solo buona a nascondere la paura per ciò che sta per accadere. E allora servono nomi, storie, per capirla questa paura.

Storie come quella di Meena Keshwar Kamal, poetessa, fondatrice del movimento Associazione Rivoluzionaria delle donne afghane, assassinata dai fondamentalisti islamici nel 1987. O quella di Nadia Anjuman, poetessa uccisa nel 2005, dal marito, all’età di 25 anni, perché declamava in pubblico le sue poesie.

E come sempre la violenza si organizza e gioca d’anticipo. A Kabul già chiuse scuole e università, è in corso un censimento di ragazze e donne nubili dai 12 ai 45 anni di età (c’è da inorridire al solo pensiero di cosa ne faranno di quelle liste, come in un copione già visto, purtroppo) com’è in corso un rastrellamento delle donne istruite, considerate un pericolo per l’integrità del nuovo Califfato islamico. La maggior parte delle donne è stata rimossa dai posti di lavoro, tutte quante hanno ripreso ad indossare il burqa e a non girare più per le strade da sole, e ciò accade nell’ovvia indignazione dell’Occidente, indignazione che certo non le salverà dal loro destino, purtroppo.

Non basta un post di denuncia da far girare sui social o una firma in una petizione a tacitare la nostra coscienza.

Qui ci troviamo di fronte ad un’ecatombe umanitaria le cui cause sono tutte da ascriversi alla politica dissennata ed egoista delle potenze mondiali. Praticamente noi.

Noi siamo i responsabili e a noi tocca riparare i danni. Ma la violenza corre, va veloce, e non c’è tempo da perdere.

È necessario organizzare subito i corridoi umanitari, unica salvezza, al momento, per la popolazione. Tocca a noi, ora, perché la storia renda subito onore a Nadia, a Meena e a tutte le vittime dell’oscurantismo.

Riporto qui due poesie di Meena Keshwar Kamal (1957-1987).

 

Che cosa dovrei cantare?

Io, che sono odiata dalla vita.

Non c’è nessuna differenza tra cantare e non cantare.

Perché dovrei parlare di dolcezza?

Quando sento l’amarezza.

L’oppressore si diletta.

Ha battuto la mia bocca.

Non ho un compagno nella vita.

Per chi posso essere dolce?

Non c’è nessuna differenza tra parlare, ridere,

Morire, esistere.

Soltanto io e la mia forzata solitudine

Insieme al dispiacere e alla tristezza.

Sono nata per il nulla.

La mia bocca dovrebbe essere sigillata.

Oh, il mio cuore, lo sapete, è la sorgente.

E il tempo per celebrare.

Cosa dovrei fare con un’ala bloccata?

Che non mi permette di volare.

Sono stata silenziosa troppo a lungo.

Ma non ho dimenticato la melodia,

Perché ogni istante bisbiglio le canzoni del mio cuore

Ricordando a me stessa il giorno in cui romperò la gabbia

Per volare via da questa solitudine

E cantare come una persona malinconica.

Io non sono un debole pioppo

Scosso dal vento

Io sono una donna afgana

E la (mia) sensibilità mi porta a lamentarmi. 

Mai più tornerò sui miei passi

Sono una donna che si è destata

Mi sono alzata e sono diventata una tempesta

che soffia sulle ceneri

dei miei bambini bruciati

Dai flutti di sangue del mio fratello morto sono nata

L’ira della mia nazione me ne ha dato la forza

I miei villaggi distrutti e bruciati mi riempiono di odio contro il nemico,

Sono una donna che si è destata,

La mia via ho trovato e più non tornerò indietro.

Le porte chiuse dell’ignoranza ho aperto

Addio ho detto a tutti i bracciali d’oro

Oh compatriota, io non sono ciò che ero.

Sono una donna che si è destata.

La mia via ho trovato e più non tornerò più indietro.

Ho visto bambini a piedi nudi, smarriti e senza casa

Ho visto spose con mani dipinte di henna indossare abiti di lutto

Ho visto gli enormi muri delle prigioni inghiottire la libertà

nel loro insaziabile stomaco

Sono rinata tra storie di resistenza, di coraggio

La canzone della libertà ho imparato negli ultimi respiri,

nei flutti di sangue e nella vittoria

Oh compatriota, oh fratello, non considerarmi più debole e incapace

Sono con te con tutta la mia forza sulla via di liberazione della mia terra.

La mia voce si è mischiata alla voce di migliaia di donne rinate

I miei pugni si sono chiusi insieme ai pugni di migliaia di compatrioti

Insieme a voi ho camminato sulla strada della mia nazione,

Per rompere tutte queste sofferenze, tutte queste catene di schiavitù,

Oh compatriota, oh fratello, non sono ciò che ero

sono una donna che si è destata

Ho trovato la mia via e più non tornerò indietro.

 

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