Paragone dei dirottamenti

Politica

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di Andrea Ermano direttore ADL 

Il 23 maggio scorso il “Presidente” Lukashenko ha di fatto costretto un aereo di linea della Ryanair ad atterrare nella capitale bielorussa Minsk mentre il velivolo, proveniente da Atene, faceva rotta verso la Lituania. Dopo l’eroica operazione di dirottamento, volta ad arrestare il dissidente Roman Protasevich, passeggero a bordo del velivolo, il “Presidente” Lukashenko ha rivendicato l’episodio con queste parole:

    «Io ho agito legalmente… Gli attacchi alla Bielorussia da parte dei nemici all’esterno e all’interno del Paese hanno oltrepassato la linea rossa, i confini del buonsenso e della moralità umana».

    Non è un mistero, che l’attivista arrestato sia giovane di estrema destra e non certo uno stinco di santo. Tanto per dirne una: lavorava nel servizio stampa della formazione militare neonazista “Battaglione Azov”. Nondimeno, guardiamoci dalla cinica arbitrarietà secondo cui «per i nemici le leggi si applicano, per gli amici si interpretano». No. Le garanzie valgono per tutti, inclusi tutti coloro i quali non disdegnerebbero di “interpretare” ed “applicare” la legge come gli pare.

    Ciò premesso, il “Presidente” Lukashenko, quanto a tendenze “destrorse”, non è secondo a nessuno. Costui, già commissario politico dell’armata rossa (e in tal veste sostenitore fellone del golpe del 1991 contro Michail Gorbaciov), ha assunto nel 1994 il controllo sulla Bielorussia e nulla riassume la sua concezione del potere meglio di queste dichiarazioni, rilasciate nel 1995 al quotidiano economico-finanziario tedesco Handelsblatt in un’intervista a suo modo programmatica:

    «Ci sono voluti i secoli per costruire l’ordine tedesco. Sotto Hitler questo processo è giunto al suo apogeo. Che corrisponde alla nostra concezione di una Repubblica Presidenziale e, in essa, alla nostra concezione del ruolo di un Presidente… La Germania, grazie a una guida assai severa, è stata a suo tempo risollevata dalle macerie, e non tutto ciò che in Germania ha a che fare con il celebre Adolf Hitler è stato una male».

    Queste, all’epoca del suo primo mandato, le testuali parole del “Presidente” Lukashenko, che mostrava di aver perso memoria dei milioni e milioni di vittime causate durante la guerra nazifascista nelle terre della patria russa.

    Nonostante ciò, Lukashenko è stato insignito di molte onorificenze; per lo più di marca antioccidentale:

 

– la Fascia dell’Ordine della Repubblica di Serbia (1997, “Per i meriti nello sviluppo e nel rafforzamento della cooperazione pacifica e delle relazioni amichevoli tra la Serbia e la Bielorussia”);

– la Medaglia “Betlemme 2000” (Autorità Nazionale Palestinese, 2000);

– l’Ordine di Aleksandr Nevskij (Russia, 2001, “Per il suo grande contributo personale allo sviluppo dei legami tradizionalmente amichevoli tra Russia e Bielorussia e per l’approfondimento della cooperazione bilaterale in campo politico, di difesa, economico e nella sfera sociale”);

– l’Ordine di José Martí (Cuba, 2001);

– l’Ordine di San Sergio di I Classe (Patriarcato di Russia, 2002);

– l’Ordine di San Vladimiro di I Classe (Patriarcato di Russia, 2005);

– la Gran Croce dell’Ordine di Francisco de Miranda (Venezuela, 2007);

– l’Ordine al merito per la Patria di II Classe (Russia, 2007, “Per il suo grande contributo personale alla creazione dell’unità statale e al rafforzamento, all’amicizia e alla cooperazione tra i popoli della Federazione Russa e della Repubblica di Bielorussia”);

– il Titolo di Cavaliere dell’Ordine di Heyd?r ?liyev (Azerbaigian, 2010);

– il Gran Collare dell’Ordine del Liberatore (Venezuela, 2013);

– nonché, infine, la Medaglia commemorativa per l’850º anniversario di Mosca (Russia, 2014).

 

Medaglieri a parte, la situazione in Bielorussia sembra essere questa: due destre fascistoidi – l’una “giovane”, l’altra di “vecchia guardia” – si confrontano in una guerra intestina tendenzialmente senza esclusione di colpi.

    Nello stilare queste righe, mi rendo conto che “là fuori” predomina una prospettiva di futuro di cui non abbiamo ancora preso politicamente coscienza.

   Eppure è proprio “là fuori” che stiamo mandando a vivere i nostri figli e nipoti. Chissà che cosa succederà quando si vedranno confrontati con uno o due o tre miliardi di ragazzi anti-occidentali ormai quasi pronti a contendergli il soft power globale (o, se preferite, l’“egemonia culturale”).

 

Giunti sin qui, però, occorre un guizzo, un minimo di capriola argomentativa, per uscire dal tetro clima bielorusso in cui siamo precipitati. Anche perché – se tutti noi in coro gridiamo in faccia agli avversari dell’Occidente che è cosa molto disdicevole per uno stato il dirottare aerei civili – sarebbe un bel po’ ipocrita sottacere quanto avvenne l’11 ottobre 1985, allorché un Boeing egiziano in volo verso Tunisi con Abu Abbas a bordo (alto esponente palestinese) fu “accompagnato” da alcuni caccia statunitensi verso la base NATO di Sigonella.

    Ricordate Sigonella? Fu proprio sotto il suo segno che la premiership di Bettino Craxi – l’Agamennone della sinistra italiana – giunse al suo punto di massimo consenso, mietendo standing ovations dalla destra pre-meloniana alla sinistra post-berlingueriana.

    Enrico Berlinguer, ultimo grande segretario del Pci, si era spento un anno prima di Sigonella, in seguito a un malore subito durante un comizio elettorale. Ma una neo-berlingueriana di alto rango, come Luciana Castellina, ancor oggi lo dice chiaro e forte, che Sigonella «fu una delle poche cose giuste fatte da Craxi».

    I fatti si svolsero più o meno così: il Boeing egiziano, costretto verso mezzanotte da F-14 Tomcat americani ad atterrare nella base NATO di Sigonella, fu subito circondato da avieri italiani. I quali vennero a loro volta circondati da un folto gruppo di militari statunitensi Delta Force sbarcati da un velivolo che era sopraggiunto all’improvviso per esigere la consegna immediata di Abu Abbas e di altri guerriglieri palestinesi. A quel punto accorsero i Carabinieri che circondarono gli americani della Delta Force, che circondavano gli uomini dell’Aeronautica Militare Italiana, che circondavano il Boeing egiziano nella cui pancia avevano viaggiato gli esponenti del Fronte per la Liberazione della Palestina (FLP). Questi ultimi, in effetti, avevano commesso gravissime azioni terroristiche ai danni della nave da crociera Achille Lauro. Oltre al sequestro del transatlantico italiano fu consumato, su di esso, l’assassinio di un anziano passeggero disabile, Leon Klinghoffer, cittadino statunitense di religione ebraica, paralizzato da un ictus e costretto alla sedia a rotelle.

    Gli spararono e lo buttarono in mare. Un crimine ripugnante. Ma non è chiaro se tutti i protagonisti del dramma diplomatico-militare italo-statunitense ne fossero già a conoscenza durante quella notte infuocata a Sigonella. Certo è che il premier Craxi rimase irremovibile: i reati, quali che fossero, erano stati commessi su una nave italiana e cioè in territorio italiano. E anche Sigonella ricadeva sotto la giurisdizione del nostro Paese.

    Alla fine della fiera i Carabinieri, che avevano circondato i Delta Force, che tenevano sotto tiro gli avieri schierati intorno al Boeing, si portarono dietro un’autocisterna, una gru e vari mezzi anti incendio, che furono parcheggiati intorno ai velivoli per impedire eventuali manovre.

    La situazione si stabilizzò su tre cerchi concentrici di militari che restarono lì a puntarsi addosso le armi nel cuore della notte.

    Frenetici i contatti tra Roma e Washington in quelle ore: alla fine il Presidente del Consiglio Bettino Craxi convinse il Presidente americano Ronald Reagan che, dal punto di vista della legalità internazionale, Sigonella e l’Achille Lauro appartenevano al territorio italiano. Ergo, i passeggeri del Boeing egiziano dovevano essere presi in carico dalle autorità del nostro Paese e quivi giudicati. A quel punto, e si erano fatte le 5:30 del mattino, gli accerchiamenti concentrici, disciplinatamente, si sciolsero, senza colpo ferire. 

Il presente “paragone” tra il dirottamento bielorusso di questi giorni e il dirottamento statunitense avvenuto trentasei anni fa mi aiuta a “triangolare” la situazione in cui ci troviamo, hic et nunc, spensieratamente, pericolosamente.

    Trentasei anni fa Abu Abbas se ne andò, libero, sotto la tutela del diritto internazionale, e vivrebbe ancora se non fosse morto nel 2003 in una galera americana, in Iraq, dove si trovava ad “operare” durante la seconda guerra del Golfo.

    Oggi, il giovane dissidente Protasevich, catturato in un atto di pirateria di stato, risulta tuttora prigioniero del “Presidente” Lukashenko e sembra che questo apologeta bielorusso del führer intenda eliminare il giovane mentre sta recluso in galera.

    In questo “paragone” noterete diverse linee, convergenti, divergenti e parallele. Dal cui intrico traspare, tuttavia, una domanda: che cos’hanno da dire le forze del socialismo democratico europeo e della sinistra in generale su tutto ciò?

    Il giudizio su Lukashenko è scontato anche perché, come sappiamo, il leader della Lega «Salvini è il miglior alleato dei peggiori dittatori: dopo aver fornito appoggio politico a Orban in numerose occasioni, ora rifiuta di condannare il regime bielorusso per non scontentare Putin», constatava già qualche mese fa l’europarlamentare Brando Bonifei.

    Stavolta, però, dopo il dirottamento su Minsk, la condanna del dittatore bielorusso è più severa: «Lukashenko non può farla franca», ha scandito da Bruxelles il segretario del Pd, Enrico Letta, uscendo dal prevertice del PSE. I Socialisti europei esigeranno dall’Europa un’azione «durissima rispetto ad una vicenda che è fondamentale per dimostrare come, sui valori dello Stato di diritto e della democrazia, l’Unione non può assolutamente cedere», ha opportunamente aggiunto Letta.

    In termini di analisi, non è moltissimo, ma al giorno d’oggi ci si deve contentare.

    Purché il popolo di sinistra non dimentichi che la politica, come ammoniva Pietro Nenni, è la politica internazionale.    

Redazione Corriere Nazionale  

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