Parlare più lingue e non fumare protegge la riserva cognitiva

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Osservatorio per la Riduzione del Danno in Medicina i dati sull’influenza degli stili di vita nell’invecchiamento del cervello. Chi ha una lunga storia di tabagismo alle spalle ha un rischio demenza più elevato.

Una vita sociale più attiva aiuta a “mettere da parte” neuroni e sinapsi

AGI – È il tesoretto del cervello, quel surplus di neuroni, sinapsi e connessioni che permette di resistere meglio agli effetti del tempo.

L’hanno chiamata “riserva cognitiva” e indica una potente forma di protezione dalle malattie neurodegenerative come Alzheimer e Parkinson ma permette anche un migliore recupero in caso di traumi cerebrali o ictus.

Il suo ruolo, nonché le strategie per il suo mantenimento e aumento, è stata dedicata una sessione del convegno “Cervello sotto attacco: dalle conseguenze del Covid-19 alla riduzione del danno“, in corso presso l’Istituto Nuromed di Pozzilli, organizzato da MOHRE, l’Osservatorio per la Riduzione del Danno in Medicina.

“Presso il nostro Istituto – dice Giovanni de Gaetano, presidente dell’IRCCS Neuromed – si svolgono da anni studi epidemiologici, clinici e sperimentali sui fattori di rischio o di prevenzione della salute e delle malattie croniche degenerative. Siamo anche interessati alle condizioni che determinano l’età biologica dell’organismo in toto e di alcuni organi in particolare, come il cervello. L’età cronologica conta, ma l’età biologica appare ancor più cruciale per un invecchiamento di successo“.

Ambiente e stili di vita sono stati riconosciuti come fondamentali: quoziente intellettivo, livello di scolarità, tipo di lavoro, relazioni sociali, attività del tempo libero agiscono sinergicamente per “mettere da parte” neuroni e connessioni di qualità, da utilizzare in caso di bisogno, fenomeno confermato anche da Yacov Stern che ha approfondito le ricerche a metà degli anni 90.

Gli stili di vita sono la chiave di una longevità vissuta in salute“, sottolinea Fabio Beatrice, direttore del Board di MOHRE.

“Siamo responsabili di come invecchierà non solo il nostro corpo ma anche il nostro cervello. Dovremmo pensare ai nostri comportamenti positivi e negativi come capaci di determinare un punteggio sommatorio. Ma abbiamo scoperto anche che i vari comportamenti dannosi – continua – agiscono in maniera differente sull’organo della cognizione”.

Il consumo di alcol determina alterazioni strutturali mentre il fumo danneggia il funzionamento delle strutture – spiega ancora Beatrice – I loro effetti combinati, quindi, sono molto maggiori della loro somma, specialmente nel cervello delle persone anziane. Una delle scoperte più interessanti delle neuroscienze è proprio che il cervello non è rigido, ma flessibile e sensibile all’esperienza. Gli stimoli ambientali influenzano il cervello modificandone la struttura fisica e l’organizzazione funzionale nel corso della vita”.

La riserva cognitiva influenza l’età di esordio, la velocità di progressione e le manifestazioni evidenti di demenza e di Alzheimer in particolare.

Tra i fattori che contribuiscono alla costruzione della riserva di neuroni e connessioni c’è sicuramente l’istruzione e la sua durata: maggiore è il numero di anni è dedicato alla formazione, maggiore è la protezione a cui si può ambire.

La riserva protegge anche nelle forme più blande di deficit come il MCI: dei 273 anziani reclutati nello studio, affetti da disturbi della memoria auto riferiti, mild cognitive impairment o demenza, quelli con MCI che avevano un titolo di studio universitario erano significativamente più anziani, a testimoniare che la riserva esercita un effetto tampone per alcuni anni.

Non solo il deterioramento insorge più tardi, ma le prestazioni come fluidità verbale erano migliori. Allo stesso modo contribuisce ad esempio il bilinguismo: lo sforzo di apprendere due o più lingue in età infantile, permette di ritirare degli interessi in età avanzata con segni di demenza che rimangono nascosti per molti anni prima di manifestarsi.

È stato stimato che più della metà della popolazione mondiale parla regolarmente due o più lingue. Negli Stati Uniti, circa il 20 per cento della popolazione a casa parla una lingua diversa dall’inglese.

Dobbiamo intercettare – dice Beatrice – i fumatori storici, con una storia lunga alle spalle, che pensano di non poter smettere, che hanno effettuato diversi tentativi e altrettante ricadute: un interessante studio apparso su Hippocampus ha mostrato che questa zona del cervello, correlata alla memoria emotiva, ad un certo punto inizia ad invecchiare velocemente.

Si ritiene che il suo volume diminuisca di circa lo 0,52 per cento l’anno, ma in un gruppo di donne con una storia di forte tabagismo, sottoposte ad imaging cerebrale mostrava un volume dell’ippocampo del 7,4 per cento più piccolo rispetto alle fumatrici lievi o alle non fumatrici. E nel campione di donne di mezza età esaminate con una storia di fumo da moderato a forte, fumare determinava una atrofia equivalente a 12 anni di età in più”.

Non basta l’avanzare dell’età a determinare un rallentamento delle facoltà cognitive, il tabagismo rappresenta un vero e proprio “carico da 12”: tutte le evidenze hanno suggerito che i fumatori hanno, in media, un funzionamento cognitivo globale più scarso in età avanzata con punteggi medi più bassi in diversi domini come flessibilità cognitiva e memoria.

Inoltre il fumo è associato a un aumentato rischio di demenza: quasi il 14 per cento dei casi di malattia di Alzheimer nel mondo può essere attribuito al fumo.

Già nel 2015 una ricerca di Nature aveva sottolineato che la corteccia cerebrale dei soggetti che smettono di fumare ha bisogno di almeno 25 anni per il completo recupero della funzionalità delle aree corticali. La cessazione favorirebbe quindi una reversibilità dei danni, ma in un lasso di tempo estremamente lungo.

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