Per il Dante dì del 25 marzo

Arte, Cultura & Società

Di

Dante in Pirandello nella lettura di una
​tragi-commedia umana
tra il fine e la fine

di Pierfranco Bruni

Dante mistico. Dante della teologia. Dante della metafisica. Dante poeta. Dante delle lingue e della ricerca dei linguaggi. Si è posto il problema e la questione sottolineata da Benedetto Croce in “La Poesia di Dante”, un saggio interessante certamente, pubblicato il 14 settembre del 1921 su “L’idea nazionale”, apre, ancora oggi, una lettura su varie interpretazioni che andrebbero acquisite come modello dialettico intorno al concetto di poesia e non poesia espresso dallo stesso Croce.
È  naturale che la “Commedia” (Divina commedia) diventa il centro del contendere su come fare poesia o su come leggere la poesia o addirittura sul valore dell’essere poesia. È anche vero che la poesia non può risentire di una struttura etica e tanto meno di una contestualizzazione morale.

Il Dante orfico è quello che si innerva nella metafisica del mistico (e non esoterico alla Guénon), le cui radici non sono Occidentali, ma creano una relazione oltre la filosofia e il legame con gli aspetti etici. Radici il cui Oriente è fondamentale.
Essere poeta è vivere la “natura” poetica. Tra la Vita nova e la Commediac’è la vera verifica della natura poetica e dell’essere della poesia. Guardo con molta attenzione alle Rime e alla Vita nova senza mai pormi il rapporto tra filosofia, etica e poesia.
Chiaramente Croce filtra una proposta della non poesia nella Commedia, ovvero del non tutto è poesia. Ma c’è un dato di fatto che interessa tutto il Novecento letterario non solo italiano. Il vizio e il pregio è forse nell’alzare il tono sul cosa è poesia e cosa non è poesia.
Maria Zambrano si è posta davanti a questo interrogativo e scrivendo il suo saggio su Dante usa la metafora dello specchio reinventando la maschera e il volto di Beatrice e sostenendo la bellezza della parola nella Vita nova e la bellezza del pensiero nella Commedia. La Zambrano, comunque, resta una stimatrice di Croce ed è una delle originali interprete di Luigi Pirandello, il quale contesta Croce in Saggi, poesia, scritti varii (il suo “La poesia di Dante” è stato pubblicato anche ne “I Classici contemporanei italiani”, edizione Mondadori del giugno 1973, III edizione diretta da Giansiro Ferrata, a cura di Manlio Lo Vecchio-Musti, realizzato grazie al manoscritto posseduto da Silvio D’Amico).
Pirandello contesta Croce e solleva Dante da ogni forma di teologia nell’incontro tra rappresentazione e spirito poetico, e rivendica un Dante conoscitore della teologia, ma fortemente poeta proprio in virtù delle sue conoscenze teo-fisiche. Tanto da fargli scrivere: “Se al suo poema avesse posto mano soltanto il cielo, se in Dante fosse soltanto la ferma fede nella vita oltremondana come vera ed eterna vita, senza che ad essa s’unisse nell’animo di lui fortissimo il sentimento delle cose mondane, Dante sarebbe un asceta, un teologo, un padre quaresimalista o non so che altro; invece è proprio poeta, e il poeta che compone un poema a cui pongon mano e cielo e terra, appunto perché oltre il cielo, grazie a Dio, c’è in lui anche la terra, e a quella ferma fede s’unisce quel sentimento fortissimo delle cose mondane!”.
Qual è il punto? Croce ha come riferimento sempre la dimensione estetica oltre la quale non è possibile catturare le stimmate della poesia. E l’estetica può avere bisogno della metafora, ma può fare a meno, comunque, della allegoria.
Pirandello comprende bene tutto ciò e si contrappone proprio sul piano di due elementi: le immagini e i concetti. La fantasia nelle immagini. Il pensiero nei concetti. La teologia si serve dei concetti. La poesia ha la sua perfezione vichiana.
Qui, credo, sia il vero nodo. Pirandello incastra così la sua difesa di Dante: “La sua fantasia è popolata d’immagini e non di concetti. Ma il Croce, che si prova sempre a negare quel che prima ha affermato, dice che ‘quella materia’ nello spirito di Dante, ‘si formò in poesia’ e poi che resta materia da trattato allegorico‑morale (…). In Dante, invece, l’allegoria è necessaria e sostanziale, sempre: è l’altro mondo che è il vero mondo: non un concetto, ma una realtà da creare poeticamente. Dante crede alla forma allegorica del suo sentimento, che val quanto dire alla realtà della sua rappresentazione, e si vede in essa, attraverso essa, toccando tutto, descrivendo tutto nella sua consistenza maravigliosa: parlare di romanzo‑allegoria, di costruzione intellettuale è bestemmia”.
Pirandello, in questo intreccio che è pregno anche di semantica del realismo delle figure retoriche, (ovvero il sistema non periferiche delle allegoria) ricompone il tutto nel legame ontologico di Beatrice. Era chiaro che in Croce questo aspetto non poteva avere accorgimenti poetici, perché la sua formazione e la sua lettura della cultura partivano da altri presupposti, soprattutto negli anni in cui scrisse il suo saggio su Dante.
Come è chiaro che Pirandello, avendo fatto della sua letteratura un processo culturale di identità nazione, vedeva in Dante il principio di una appartenenza linguistica e poetica. Non si tratta di una elaborazione ideologica tra i due, ma di una funzione fenomenologica che poteva avere la letteratura e, in particolar modo, la poesia. L’allegoria diventa il nucleo centrale sia della rappresentazione sia dell’espressione (che sia essa teologica, mistica o onirica).
Infatti Pirandello si spingerà oltre sino a dar senso, nelle conclusioni del suo lavoro su Dante, ad una particolareggiata metafora. Così: “Dante muove dalla terra al cielo, dall’umano al divino. Per lui è da natura inferiore prendere soltanto una sensibile dilettazione. Egli non vuole fare la figura simbolo di un concetto, una figura dunque che non abbia per sé verità. Ma per lui la figura ha verità in quanto simbolo; in quanto cioè significa qualche cosa, per cui è così e così; e l’arte è la rappresentazione di questo qualche cosa, per cui ogni figura vive nella sua essenzialità allegorica, non come in una veste, ma anzi nella sua vera realtà. Non è la Grazia che si fa Beatrice; è Beatrice che vive nella sua vera essenzialità di Grazia divina. Come si vede, abbiamo un assoluto capovolgimento del concetto d’allegoria. E chi non intende questo, non può intender Dante”.
Pirandello, dunque, sembra chiudere qui il discorso tematico (e teoretico oltre che di interpretazione poetica) su Dante, perché Dante costituisce il vero parametro del rapporto tra la recita e i personaggi. Si pensi alla complessità della Commedia in quanto fenomeno rappresentativo tra i personaggi e la recita, o meglio tra il luogo della teatralità, il viaggio nei luoghi, la verità dialogante con la realtà, le maschere, gli specchi, il doppio e l’assurdo.
Insomma uno specchio dell’anima (la Zambrano ritorna come espositrice di una tesi di un Dante specchio dell’anima) che frantumandosi o meno si definisce nei volti della Commedia. Ecco perché si ripresenta l’icona del “poema umano”.
In Pirandello l’icona  della commedia umana è il tempo verticale che incontra quello orizzontale dando spazio alla commedia-tragico-ironica e alla tragedia-melanconica, il cui senso contemplante è dato dall’umorismo. Dante, per la impalcatura culturale che inserisce nei tre viaggi (Inferno, Purgatorio e Paradiso), è, per Pirandello, il  principio, anche nella “scavatura” dei personaggi reali, inventati, immaginari, onirici, assurdi, veri.
In fondo Pirandello compie, metaforizzando e metaforicamente togliendo gli archetipi al reale e al vero, un viaggio attraversando gli inferni, i purgatori e i paradisi degli uomini. Pirandello vive, con Dante, la vera tragi-commedia degli uomini, ovvero quella umana, sceneggiando il tutto sul vero, sul reale, sull’immaginario, sull’onirico-ironico. Il fine e la fine di un viaggio che si completa nel viaggiare nella bellezza e nell’inquieto delle stelle.

 
 
 
 
 

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