Percorsi biografici di donne in migrazione: un’altalena tra tradizione e cambiamento

Emigrazione & Immigrazione

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 La quasi totale assenza delle donne nella maggior parte degli studi sulle migrazioni realizzati durante il XX secolo, non deve far giungere immediatamente ed unicamente alla conclusione che le donne non fossero già coinvolte in questo tipo di esperienza. A cavallo tra il XIX ed il XX secolo, “era delle migrazioni di massa”, si assiste ad un evidente aumento della partecipazione femminile ai movimenti migratori, in particolar modo verso gli Stati Uniti dove, per quanto le donne rappresentassero quasi la metà del totale dei migranti, gli uomini continuavano ad apparire come gli attori principali dei movimenti migratori. Seppur gradualmente e lentamente sempre più visibili per diverso tempo le donne continueranno a venire considerate attrici” passive”, migranti a seguito degli uomini, “vittime” di scelte altrui e non vere e proprie protagoniste delle esperienze migratorie[1], come si potrà leggere già in una delle più importanti ricerche e teorie sulle migrazioni, quella di Thomas W.I. e Znaniecki F., “The Polish Peasant in Europa and America” del 1918.

Quest’approccio “maschilista” al fenomeno migratorio non farà quindi emergere in modo particolarmente evidente l’esigenza di analizzare, approfondire, il ruolo delle donne nelle migrazioni. Come spiega M. Morokvasic sono diversi gli aspetti da considerare in quest’analisi: lo scarso impatto che il fenomeno migratorio femminile ha avuto in questo periodo storico sulla “policy-making”; la scarsa rappresentazione mediatica delle donne migranti a differenza di quella degli uomini; la letteratura esistente in questi anni, che offre una visione dei processi migratori prevalentemente “maschile”, tendenza che continuerà a persistere fino a circa gli anni ’70 – ’80 del secolo scorso.[2] L’emigrazione femminile, per quanto spesso indipendente da quella maschile, rimane allora di frequente invisibile e l’uomo continua ad essere concepito come l’unico breadwinner e decision maker  della famiglia. Questo fenomeno viene pertanto letto per molti decenni, attraverso una mentalità di tipo androcentrico, rispecchiando in questo senso le regole patriarcali e venendone influenzato. [3]
Donne e bambini vengono visti fino ad allora come i componenti della famiglia che rimangono in patria ad attendere il ritorno dei propri mariti o padri emigrati o che li raggiungeranno solo successivamente, una volta che questi siano riusciti a trovare una sistemazione abitativa anche per loro nel contesto di emigrazione.

In questa prospettiva le donne sono ritenute alla stregua di “vittime” degli atteggiamenti e delle scelte di tipo patriarcale. Sarà solo successivamente, a partire dagli anni ’80, che le ricerche sulle migrazioni inizieranno viceversa a rappresentarle come soggetti indipendenti, oltreché attrici consapevoli dell’esperienza migratoria.
È in questo periodo così che le indagini sociologiche sulle migrazioni inizieranno a differenziarsi rispetto alla categoria “genere”, prendendo in considerazione in primo luogo i motivi, lo stile di vita delle donne migranti, per poi analizzarne, tra gli altri aspetti, anche i rapporti tra i generi nell’esperienza migratoria.

Nelle successive ricerche condotte a partire dalle fine degli anni ‘90, l’attenzione inizierà poi ad essere rivolta sempre più frequentemente alle differenze sociali tra le giovani donne e i giovani uomini, figli di migranti, iniziando pertanto a focalizzarsi anche sugli studi generazionali.

Il rinnovato interesse per gli studi sui movimenti migratori femminili sarà inoltre in questo periodo strettamente legato al diffondersi, in diversi paesi dell’Europa occidentale, dei c.d “Women’s Studies”, oltreché di istituzioni internazionali che si occuperanno sempre più di frequente dello studio di tale fenomeno. È nel corso degli anni ’90 poi che si inizierà a parlare di una significativa “femminilizzazione” della migrazione [4], passando pertanto ad un approccio c.d. di “engendering migration” che legittimerà l’introduzione della categoria di genere anche nello studio sulle migrazioni.

Anche in Italia le prime ricerche che considerano il ruolo delle donne nei processi migratori vengono pubblicate a partire dagli anni ’90. 

Il percorso migratorio può essere visto come un processo complesso che si costituisce di diversi fattori e condizioni, sia soggettivi che sociali. Per comprendere quest’esperienza è quindi necessaria un’accurata analisi di tali aspetti. Questo emerge in modo particolare se si guarda allo studio dei movimenti migratori femminili i quali si differenziano comunque da quelli maschili.[5]

L’emigrazione richiede a tutti gli attori coinvolti coraggio e determinazione e questo vale ancora di più per le donne.
I cambiamenti spesso radicali che richiede la migrazione, il mutamento dei codici culturali, di lingua, di logiche richieste dal paese ospitante, si accompagnano in molti casi anche al cambiamento dei rapporti intra-familiari, dei ruoli genitoriali, dello stesso rapporto uomo-donna/moglie-marito. A tutto questo si aggiungono poi i figli e l’impegno, spesso maggiore da parte delle madri, di accompagnarli nel percorso di inserimento  nel nuovo contesto di vita, ma anche nel far sì che non perdano il legame con le proprie origini.[6] L’esperienza della migrazione non avviene mai in maniera indolore, ma richiede da parte di tutti un “lavoro” biografico, la capacità di posizionarsi all’interno del contesto migratorio, di conciliare una situazione comunque in parte precaria ed incerta con l’obiettivo personale e familiare di costruire e/o ricostruire una nuova vita.
Differenti possono essere i presupposti ed il quadro all’interno del quale si realizza l’esperienza migratoria femminile. Oltre alle esigenze economiche e lavorative, le motivazioni che inducono una donna ad emigrare possono essere di varia natura: il desiderio di un percorso di emancipazione personale, un cambiamento di tipo culturale, il desiderio di fuga dal contesto familiare o sociale di appartenenza, un progetto matrimoniale. Sono motivazioni, volendone solo citare alcune che, come sottolinea M. Tognetti Bordogna, nel caso delle donne possono intrecciarsi tra di loro, variando anche in base alla fase storica, alle condizioni del contesto migratorio.
Sia le modalità di arrivo (arrivare prima o dopo il marito, insieme o prima dei figli, arrivare sole, etc.) come anche le motivazioni che inducono le donne a partire, influenzano certamente anche il successivo percorso di inserimento nel nuovo ambiente sociale. Sono tutti tasselli che fanno parte di un progetto migratorio personale e/o familiare che a sua volta può mutare “aspetto” a seconda della classe di appartenenza, dell’età in cui le migranti decidono di intraprendere questa sfida.

  1. Han individua principalmente due differenti tipi di percorso migratorio femminile, quello “dipendente” (“dependent migration/secondary migration/associational migration”) e quello “indipendente” (“indipendent migration/autonomous migration”).

Nel primo caso le donne, in qualità di mogli o come altro membro familiare, decidono di raggiungere il marito o gli altri componenti della famiglia già emigrati, tipologia di emigrazione disciplinata in quasi tutti i paesi attraverso le normative sul c.d. “ricongiungimento familiare”.

In questo caso la decisione migratoria non è fine a sé stessa, ma è l’occasione per riunire la propria famiglia o almeno parte di questa. La migrazione “indipendente” è viceversa intrapresa in modo autonomo dalle donne, slegate dal nucleo familiare, volte a realizzare obiettivi personali, di tipo professionale o legati alla formazione scolastica. Come spiega ancora l’autore l’una può però non escludere l’altra: una donna può partire con l’obiettivo di ricongiungersi al proprio nucleo familiare, per poi decidere, nel corso di quest’ esperienza, di realizzare i propri sogni, le proprie ambizioni personali. [7]
Oltre a questi due tipi di percorsi migratori, nel corso dei decenni si è potuto assistere al nascere di ulteriori modelli di migrazione femminile che si possono definire più o meno volontari: donne circolanti che emigrano per il periodo necessario a guadagnare e soddisfare le proprie esigenze economiche per poi tornare in patria, luogo che rimane comunque la propria “base” principale; donne transnazionali, donne cioè in grado di tenere “collegati” i due contesti, quello di origine e quello di immigrazione grazie alle nuove tecnologie, alle rimesse, generando spazi affettivi transnazionali; per poi passare alle donne che vivono l’esperienza migratoria in modo forzato o indotto con finalità di sfruttamento o tratta, com’è il caso delle donne provenienti dai paesi dell’Est, della Nigeria, del Ghana; donne profughe o rifugiate che abbandonano la propria terra per mettersi in salvo da conflitti e/o guerre, come si sta assistendo nelle ultime settimane osservando le donne ucraine; spose per corrispondenza o per turismo sessuale mercato matrimoniale gestito in molti casi da vere e proprie agenzie e organizzazioni transnazionali.[8]

Nello studio della migrazione femminile risulta pertanto fondamentale non cadere nell’errore di generalizzare, costruendo grandi categorie che comprendano “tutte” le donne migranti ed i loro comunque differenti percorsi biografici.

Ciascuna donna porta con sé la propria storia e vive tra due o più culture, cercando spesso di mediare tra la propria identità, la propria storia personale ed il continuo ed inevitabile confronto con la società in cui si trova a vivere a seguito della migrazione. Si può allora affermare che la posizione della donna in migrazione è contrassegnata da una triplice forma di mediazione tra l’identità storica, il processo di integrazione all’interno del gruppo dei connazionali ed il mondo esterno e spesso estraneo, con il quale si trova a confrontarsi.

Il ruolo delle donne diventa allora prezioso all’interno dell’esperienza migratoria, spettando a loro il compito di “tenere in mano le redini della vita affettiva” del gruppo familiare.

Si comprende quindi quanto sforzo, quanto disorientamento e quante svolte, alcune volte radicali, si trovino ad affrontare in questo tipo di esperienza. Dal ruolo che aveva nel proprio paese, dopo l’emigrazione la donna si trova di frequente a vivere esperienze di vario genere: chi diventa moglie in un paese sconosciuto con un uomo anche a volte estraneo, chi da figlia e sorella si trova ad essere sola, chi da madre diventa nuovamente madre, ma in un contesto a lei “straniero” senza riferimenti affettivi. L’ingresso in una cultura che non è la propria, comporta la sospensione del modo di pensare “come al solito” e genera un acuirsi dei sensi e della percezione. Le loro vicende possono caratterizzarsi, nel contempo, dalla multiculturalità: si arricchiscono gradualmente nel percorso migratorio attraverso il continuo confronto tra il bagaglio culturale personale e familiare e ciò che viene trasmesso dalla società d’arrivo. Il ruolo femminile, di moglie e madre, che ha le sue origini nel paese nativo, può trovare nel contesto migratorio una nuova modalità di espressione.
La donna migrante sviluppa spesso grandi capacità di osservazione e di comprensione del nuovo modello culturale, riuscendo a cogliere sfumature e contorni che per gli autoctoni rappresentano invece un quotidiano interiorizzato e rassicurante, come evidenzia C. Mariti nel suo testo “Donna migrante. Il tempo della solitudine e dell’attesa”.[9]            In tanti casi le donne in migrazione si trovano allora di fronte ad una costante riformulazione del progetto migratorio che oscilla tra il desiderio del ritorno e la necessità di una permanenza a medio-lungo termine, soprattutto nelle condizioni che richiedono una presenza più stabile, quali la nascita e la crescita dei figli. La scelta, in ogni caso travagliata, comporta la necessità di un continuo adeguamento della propria vita e del proprio futuro alla realtà circostante, che matura attraverso il processo educativo e sociale che la donna acquisisce nel paese d’accoglienza.

Le donne in migrazione sono quindi da considerarsi attrici sociali, vere e proprie “cittadine del mondo”, in grado di garantire il mantenimento di una continuità di valori, di riferimenti simbolici e di tradizioni e soggetti che ricoprono un ruolo privilegiato nella trasmissione intergenerazionale.
È in questo processo che, come sottolinea R. Siebert[10], il rapporto madre-figlia diventa allora fondamentale, anche per il fatto che spesso è con quest’ultima che la madre si identifica, proiettando le proprie ambizioni e i propri desideri.

Tutto ciò fa allora comprendere come nello studio dei percorsi biografici delle donne in migrazione, non si possa evitare di parlare dell’importanza dei rapporti intergenerazionali, del ruolo della famiglia, di ciò che diviene la famiglia in migrazione.

[1] Cfr. Lutz, H. “Gender in the migratory process” in Journal of Ethnic and Migration Studies Vol. 36, N. 10, dicembre 2010, p. 1647-1663.

[2] Cfr. Morokvasic , M. “ The overview: birds of passage are also women” in International Migration Review 68 (18);

[3] Cfr. Mazzi, L. “Donne mobili. L’emigrazione femminile dall’Italia alla Germania (1890-2010)”, Cosmo Iannone Editore, Isernia, 2012, p. 27;

[4] Secondo l’ultimo rapporto del Fondo delle Nazioni Unite, oggi le donne rappresentano circa la metà dei migranti a livello internazionale – 95 milioni pari al 49,6%;

[5] Cfr. Han, P. “Frauen in Migration. Strukturelle Bedingungen, Fakten und soziale Folgen der Frauenmigration”, Lucius & Lucius, Stuttgart, 2013, p. 11;

[6] Cfr. Moro, M.R. “Per una clinica transculturale in Italia. Donne nel cuore della tormenta”, in Cattaneo, M.L., dal Verme, S. “ Donne e madri nella migrazione. Prospettive transculturali e di genere”,
Ed. Unicopli, Milano, 2005, pp.9-15;

[7] Cfr. Han, P., op.cit., 2003, pp. 26-36;

[8] Cfr. Tognetti Bordogna, M., “Donne e percorsi migratori. Per una sociologia delle migrazioni”, Franco Angeli, s.r.l., Milano, 2012, pp.97-102;

[9] Mariti, C. “Donna migrante. Il tempo della solitudine e dell’attesa”, Milano, Franco Angeli, 2003,

  1. 26;

[10] Siebert, R. “È femmina però è bella. Tre generazioni di donne al Sud”, Rosenberg & Sellier, Torino, 1991;

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