Saigon e Kabul, sulla Casa Bianca aleggia il fantasma del Vietnam

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Le somiglianze con il ritiro del 1975, i problemi da gestire, la necessità di non dare all’estero segni di debolezza. 46 anni dopo colpisce il parallelismo con uno dei principali smacchi della storia militare statunitense

Mario Sechi

Saigon e Kabul. La ritirata e la sconfitta. Sulla Casa Bianca aleggia il fantasma del Vietnam, Joe Biden ora “vede” le immagini della caduta di Saigon, anno 1975. Qualche settimana fa disse: “Non ci sarà nessuna circostanza in cui vedrete persone sollevate dal tetto dell’ambasciata degli Stati Uniti in Afghanistan”. Sta succedendo il contrario. La fuga dalla “lunga guerra” in Afghanistan, diventa un segno indelebile sulla sua biografia perché ora è visibile a tutti quanto sia grave la ritirata americana, un tragico errore. 

Il deja-vu del 1975

La campagna in Vietnam fu un altro tragico errore. Lo commise un altro presidente democratico, John Fitzgerald Kennedy. La decisione di JFK di inviare le truppe nella giungla fu un caso da manuale di non-governo e la campagna militare americana allora fu conclusa da un repubblicano, il presidente Gerald Ford (entrò in carica nel 1974, dopo le dimissioni di Nixon a causa dello scandalo Watergate) che dopo gli accordi accordi di Parigi siglati nel 1973 (il regista fu Henry Kissinger) ordinò tutti a casa nel Vietnam del Sud, invaso due anni dopo dalle truppe del Vietnam del Nord.



(Kabul, 15 agosto 2021. Foto Afp)

Ieri, oggi (e domani). Siamo al dejà-vu: l’evacuazione del personale diplomatico, la fuga delle figure chiave del governo che non c’è, lo Stato di cartapesta che si sbriciola, il trasferimento, prima che sia troppo tardi, dei collaboratori locali che rischiano la vita, l’accusa di “intelligenza con il nemico”. Negli archivi della storia americana sono custoditi tutti i passaggi del presente, basta leggere uno tra i tanti documenti declassificati sulla caduta di Saigon, un vertice del governo americano. Saliamo sulla macchina del tempo, torniamo indietro, anno 1975.

Casa Bianca, 29 aprile 1975, ore 9:45, meeting del team del Presidente Ford 

Si discute quella che nei libri di storia diventa l’operazione “Frequent Wind”. Sono presenti il Presidente Gerald Ford, il segretario di Stato Henry Kissinger, il segretario della Difesa James R. Schlesinger, il segretario al Commercio Rogers Morton (che fu il presidente del Comitato nazionale dei Repubblicani), John K. Tabor, anch’egli al Commercio, il segretario ai Trasporti, William Thaddeus Coleman Jr., allora il secondo afro-americano a esser chiamato al governo.

(Casa Bianca, 6 febbraio 1975: il presidente Gerald Ford con Donald Rumsfeld. Foto Library of Congress)

Insieme a questo gruppo, c’è un uomo destinato a diventare uno dei personaggi più influenti della storia della politica americana, Donald Rumsfeld, allora consigliere del Presidente Ford, uomo-chiave nelle relazioni del potere a Capitol Hill, un talento della strategia elettorale, congressman a soli 30 anni, consigliere del Presidente Richard Nixon, poi capo di gabinetto di Gerald Ford, l’uomo che lanciò Dick Cheney nella sala comando di Washington, quando lui, “Rummy”, prese il controllo della cloche del Pentagono, segretario della Difesa. Rumsfeld è morto poche settimane fa, il 29 giugno scorso, ma la sua storia e quella che i “Vulcans” (il gruppo che diede vita al governo del primo mandato di George W. Bush) quella continua.

Ieri, oggi (e sempre domani). All’orizzonte stava per emergere il problema dell’Afghanistan, sarebbe piombato sulla scrivania proprio di Rumsfeld qualche anno dopo, nel 1979, quando i carri armati dell’Unione Sovietica entrarono a Kabul e gli Stati Uniti cominciarono ad armare i Talebani per respingere i russi (vedere lo strepitoso film “La guerra di Charlie Wilson”, regia di Mike Nichols, con Tom Hanks e Julia Roberts). Un’altra caduta, un’altra fuga. Quella dell’Armata Rossa nel febbraio del 1989, i carri T-62 tornarono a Mosca, il preludio della fine dell’impero sovietico che sarebbe avvenuto sempre in quell’anno, crollo del Muro di Berlino, 9 novembre 1989. 

Subito dopo il ritiro dei sovietici da Kabul, si aprì un altro ciclo storico, quella vittoria spalancò i cancelli della storia a un “guerriero” che presto divenne un “ribelle”, Osama Bin Laden, eravamo agli albori di Al Qaeda. È stupefacente come la storia americana abbia incrociato il destino con Kabul. Ieri, oggi (e domani).

Torniamo nello Studio Ovale. Leggiamo il memorandum, ci dice cosa si sta discutendo in queste ore alla Casa Bianca e nelle cancellerie internazionali. Il ritiro non è teoria è pratica, è movimento di migliaia di persone in condizioni di estremo pericolo, per tutti. È il 29 aprile 1975, ma se cambiamo i nomi, potrebbe essere il 15 agosto del 2021. Il testo del memorandum è asciutto, teso, fa emergere una sottile e tagliente inquietudine. È nel linguaggio secco, nel ritmo che si dispiega il momento drammatico, lasciamo che parlino i documenti, entra in scena la Storia.

Il Presidente arriva alle 9:50

– Il Presidente ha constatato le difficoltà delle ultime due settimane. Ha osservato che anche se le evacuazioni finora hanno avuto successo, non abbiamo ancora superato la fase difficile. I nostri obiettivi durante questo periodo, ha osservato, sono stati quelli di evitare il panico nel Vietnam del Sud che avrebbe messo in pericolo l’evacuazione americana, scoraggiare l’attività nordvietnamita e stabilizzare la situazione in modo che l’evacuazione potesse avere luogo con successo.

– Il segretario Kissinger ha descritto nel dettaglio gli eventi che hanno portato all’evacuazione. Ha riferito che al momento 300-400 americani rimangono nell’ambasciata. Negli ultimi due giorni 4650 persone sono state portate fuori da Saigon e circa 45 mila vietnamiti saranno alla fine evacuati.

– Il segretario Schlesinger ha riferito che solo una piccola forza di sicurezza (700) rimane al DAO (Defense Attache’s Office) e che la priorità è l’evacuazione del personale dell’ambasciata.

– Il presidente ha dichiarato che l‘intenzione in origine era di usare gli aerei C-130 per l’evacuazione, ma che il bombardamento dell’aeroporto lo ha impedito. Sono stati sostituiti con gli elicotteri. L’ambasciatore Martin e il generale Smith hanno preso una decisione sul posto per includere i sud vietnamiti con gli americani evacuati, presumibilmente per evitare il panico.

– Il segretario Schlesinger ha spiegato che sono state incontrate alcune difficoltà. Solo due elicotteri alla volta possono essere utilizzati per lo sgombero dell’ambasciata; c’è stato il fuoco dei cecchini; il tempo non è stato favorevole; e ci sono stati alcuni spari nord vietnamiti contro i velivoli. In un caso i nostri aerei hanno risposto al fuoco.

– Il Presidente chiede se ci sono domande.

– Il segretario Morton chiede informazioni sullo stato degli altri cittadini stranieri.

– Il segretario Kissinger risponde che tutte le ambasciate, tranne quella francese, sono partite.

– Il presidente nota come si siano presentati per l’evacuazione più americani (100-200) di quanto era stato stimato. Ha detto che le prossime due ore saranno estremamente delicate, ma che finora il problema del panico è stato tenuto sotto controllo.

– Il segretario Kissinger ha sottolineato che bisogna lottare pubblicamente per gli aiuti finché una struttura governativa fosse rimasta a Saigon. Altrimenti è certo che un serio panico sarebbe sfociato nella fase iniziale dell’evacuazione.

– Il segretario Schlesinger ha detto che il panico a Tan Son Nhut ha impedito l’uso dei C-1301.

– Il segretario ad interim Tabor ha chiesto il numero totale di sfollati.

– Il segretario Kissinger ha indicato che circa 4650 sono stati portati fuori negli ultimi due giorni, di cui 500-600 americani. Ha detto che il presidente aveva dato ordine di evacuare i sud vietnamiti quando sarebbero stati disponibili i C-130, nelle circostanze attuali l’unico ordine diretto del presidente era di far uscire gli americani. La decisione di includere anche i Vietnamiti del Sud è stata presa sul campo.

– Il presidente ha ribadito che un totale di 43-45000 sudvietnamiti sono stati evacuati.

– Il segretario Morton chiede dove andranno i sud vietnamiti.

– Il presidente risponde che stanno lavorando al problema, che tre basi militari statunitensi sono state approntate qui. Ci sono alcune obiezioni del Congresso, dice che bisogna motivare l’aiuto di organizzazioni caritatevoli per l’assistenza e chiede agli ufficiali del governo l’aiuto per farlo.

– Il segretario Kissinger dice che altri paesi sono stati contattati per prendere alcuni dei rifugiati, ma che circa il 90 % di loro verrà negli Stati Uniti.
 
– Il signor Rumsfeld informa che la Casa Bianca, il Dipartimento della Difesa e il Dipartimento di Stato hanno stabilito i contatti con il Congresso; che oggi ci sarà un incontro bipartisan e un briefing con la stampa.

– Il presidente ha detto che il segretario Kissinger terrà il briefing e ha chiesto che nessuno parli fino ad allora. Ha sottolineato l’importanza di parlare con una sola voce.

– Il segretario Morton chiede se la maggior parte dei rifugiati siano dei colletti bianchi.

– Il segretario Kissinger risponde che era difficile dirlo, ma che certamente molti lo sono.

– Il segretario Morton ha indicato che forse un numero sostanziale (5000) potrebbe essere insediato nei territori fiduciari del Pacifico dove potrebbero essere utilizzate le loro capacità.

– Il segretario Kissinger ha dichiarato che è una buona idea.

– Il presidente è d’accordo e dice al segretario Morton di contattare l’ambasciatore Brown e discuterne.

– Il segretario Morton risponde che esplorerà la questione rapidamente.

– Il segretario Coleman ha osservato che, dato che il discorso della sessione congiunta del presidente sulla politica estera era stato indirizzato in gran parte sul tema della stabilità durante l’evacuazione, ora sarebbe il momento di fare un altro discorso di politica estera.

– Il Presidente ha detto che ci sarà un seguito al momento opportuno. Ha quindi aggiornato la riunione alle 10:20.

(Saigon, 30 aprile 1975. Foto Afp)

Saigon e Kabul. Ieri e oggi. Questi sono i problemi drammatici che affrontarono gli americani il 29 aprile del 1975. Sono gli stessi che si discutono in queste ore con il cuore in gola alla Casa Bianca. Dietro un’apparente freddezza, c’è una caotica valanga di eventi imprevisti. Biden con i suoi ministri ha scelto il ritiro nella data sbagliata – la stagione dei combattimenti –  ora gli americani (e gli alleati, noi italiani compresi) devono fare tutto ancora più rapidamente, perché l’avanzata talebana è stata senza ostacoli, un coltello nel burro di uno Stato afghano che non c’era.

Ecco dunque il tema della sicurezza dell’operazione, la necessità di tenere l’aeroporto di Kabul al riparo dai colpi dell’artiglieria dei Talebani, i problemi logistici per il trasferimento del personale e dei cittadini afghani che devono essere tratti in salvo, la disponibilità di vie d’accesso e fuga in caso la situazione non sia più “coperta”, disporre di luoghi per accogliere migliaia di persone sul suolo americano, telefonare e stringere accordi con gli alleati per la distribuzione degli afghani, gestire la comunicazione sul posto, coordinare gli interventi di varie nazioni, mantenere la calma al Congresso, non dare mai l’impressione di essere in difficoltà all’esterno, mettere in piedi un’operazione di comunicazione di crisi internazionale, soprattutto non trasmettere l’immagine di una sconfitta. Un altro Vietnam.

“Non è Saigon”, dice Anthony Blinken ora alla Cnn. Il segretario di Stato ha ragione, non è Saigon. È Kabul dopo vent’anni di occupazione americana. E quella che raccontiamo non è una vittoria. 

Leggi qui il Memorandum integrale

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