«Abbiamo rispettato le norme», «siamo stati prudenti», «non volevamo accadesse di nuovo». Il video girato tra le aule vuote del Liceo Vida. Dove il vaccino contro chi vuole i giovani colpevoli è «essere classe e amici»

«Non avremmo più voluto vedere portoni sbarrati, luci spente e aule vuote. Il suono freddo del silenzio nel corridoio e per le scale. Abbiamo fatto di tutto perché non accadesse di nuovo. Abbiamo rispettato tutte le norme che ci hanno dato. Abbiamo nascosto in una mascherina i nostri volti, le nostre emozioni, la paura di essere interrogati e la gioia di un bel voto. Siamo stati lontani anche quando avremmo voluto stare vicini. Siamo stati prudenti, anche se dicono che siamo adolescenti. E ora dobbiamo lasciare la nostra casa. Non volevamo accadesse di nuovo». Conoscono il guazzabuglio nell’anima, le correnti sotterranee che non danno tregua nel passaggio da figli a giovani uomini, sanno che la risposta più sensata a quello che stanno vivendo e condividono col mondo adulto – quel mondo che per tutta l’estate li ha chiamati adolescenti e irresponsabili – si trova nel posto considerato meno rassicurante del mondo: la scuola.

C’è tutto nel breve video “Non volevamo accadesse di nuovo” girato in collaborazione con la Diocesi tra le classi vuote del classico e dello scientifico del Liceo Vida, paritaria di Cremona che dà voce ai suoi studenti allontanati dalla scuola. Anche una promessa: «Ma questo non ci fermerà, continueremo a studiare, a crescere, ad essere classe e amici. Fino a che la porta di casa si riaprirà». Un video in bianco e nero, realizzato alla vigilia della chiusura delle secondarie di secondo grado in una delle città di Lombardia più duramente colpite dalla prima ondata di Covid.

CENTOCINQUANTA TESTI E LO STUDENTE DI CODOGNO

Di quei giorni concitati in cui a scuola è cambiato tutto Patrizio Pavesi, professore di italiano e storia, ricorda il primissimo collegio convocato in fretta e furia perché ancor prima delle lezioni ai ragazzi in serrata non mancasse, prima ancora di lezioni e nozioni, una presenza, «serviva a loro e serviva a noi, una parvenza di normalità fatta di chiacchiere, indicazioni, domande, in mezzo a tanta paura per il suono delle ambulanze che dalle nostre parti ritmava le giornate». E quello che è emerso subito, prepotente, spiega il professore a tempi.it, è stata «la necessità dei ragazzi di stare in contatto tra loro e, cosa inattesa, di farlo con un adulto che non fosse un genitore. Io gestisco il blog della redazione scolastica, abbiamo proposto ai ragazzi di scrivere qualcosa per noi. Ebbene, in pochi giorni abbiamo ricevuto quasi 150 testi, un’impresa leggerli tutti e scegliere cosa pubblicare. Ragazzi di prima o maturandi, tutti (anche quelli che con la scrittura hanno un rapporto più “conflittuale”) hanno espresso qualcosa di significativo, a dimostrazione che scrivere può avere funzioni terapeutiche. Alcuni pezzi erano talmente intimi che ho preferito non pubblicarli e rispondere privatamente al mittente. Altri invece sono serviti anche a noi rinchiusi a renderci conto di quello che stava accadendo davvero: ricordo quello di un nostro studente di Codogno, che raccontava di come una mattina, uscendo per venire a scuola, si è trovato i militari alle porte della città e di come il suo ironizzare sulle notizie dei tg si sia subito dileguato».

«NON POSSO AMMALARMI, MIO NONNO NON DEVE MORIRE»

Non volevamo accadesse di nuovo: nel video una ragazza attraversa la scuola vuota tra mascherine, dispenser di gel igienizzanti. Una fatica, aspettare settembre, una fatica tornare a rinunciare a quell’approdo che in video chiamano “casa”. Non sono di pongo, nonostante il refrain di media e virologi «non si sentono causa, colpa o pericolo per gli altri, ma certo, sono infastiditi dal fatto che altri, gli adulti, molto spesso lo pensino. E sono arrabbiati perché si è scelta la via più facile per provare a ad affrontare la situazione: quella di “sacrificare” chi ha meno voce per protestare, chi economicamente fa meno danno».

Pavesi spiega che insegna a ragazzi di prima e di seconda, «che non hanno ancora una piena consapevolezza della situazione, ma con le loro domande sono stati capaci di mettermi al muro: “Prof., ma perché non possiamo più venire a scuola? Abbiamo sempre la mascherina, abbiamo fatto tutto quello che ci hanno detto di fare…”. Come si fa a rispondere a un ragazzo o a una ragazza di 14 anni quando anche per un adulto è difficile darsi una motivazione? Alcuni ragazzi si sentono in un certo senso responsabili per aver goduto quest’estate della compagnia dei loro coetanei, per essersi potuti divertire dopo i quattro mesi di lockdown. Ad una collega è capitato di consolare una ragazza in lacrime che diceva: “Non posso ammalarmi, mio nonno non deve morire”. È una frustrazione ingiusta e nascosta, ma che emerge se si invoglia il ragazzo a parlare».

RAGAZZI, NON PEZZI DEL PUZZLE DELL’EMERGENZA SANITARIA

Oltre al danno didattico della situazione, i professori pensano poi a quello sociale: «Se va avanti così, gli studenti di seconda, in due anni scolastici avranno vissuto la classe per non più di sei mesi. E i più fragili tra loro dietro il monitor scompaiono e rischiano di perdersi. C’è poi la questione del rispetto delle regole: se le ho rispettate e sono stato ugualmente “punito”, perché dovrò rispettarle in futuro? È un interrogativo che mi aspetto di sentirmi porre. E spero di trovare la risposta giusta», ci dice Pavesi: è a lui che è venuta l’idea del video per dare voce ai suoi ragazzi.

«Ci sono molti modi per comunicare ciò che stiamo vivendo», ha scritto don Marco D’Agostino, rettore del Liceo Vida, presentando il video fatto di immagini evocative e sintetiche: evocative «perché la scuola parla alla nostra vita, insegnanti, ragazzi e famiglie sono fortemente coinvolti. E vedere la scuola, anche vuota, senza nessuno, è un motivo di sofferenza»; e sintetiche perché «ci rappresentano davvero. La scuola non si ferma perché la scuola non coincide con la didattica, ma i rapporti, gli ascolti, la ricerca dei volti, il ricordo e la nostalgia di tornare presto, ci aiutano». Aiutano a ricondurre all’origine ragazzi, coi loro guazzabugli, le paure, la ricerca di senso, finché «potremo sorridere e abbracciarci di nuovo». Ragazzi, non pezzi scomposti di un puzzle dell’emergenza sanitaria.