“Stendiamo” un velo sullo sport”

Sport & Motori

Di

Avv. Giovanna Barca – Le Avvocate Italiane

È di qualche giorno fa la notizia della scacchista Mitra Hejazipour la quale è stata cacciata dalla nazionale iraniana di scacchi per tradimento. La campionessa “si è permessa” di gareggiare al festival di scacchi a Gibilterra con capelli sciolti e cerchietto, senza indossare un hijab.

La sportiva ha dichiarato “.. la mia vita sotto il giogo del velo forzato è cominciato a sei anni. L’hijab forzato è il simbolo di una ideologia che considera le donne come un sesso inferiore ed io non voglio più fare finta di accettarlo”.

Mitra, d’ora in poi, giocherà nella squadra francese e non potrà tornare più in Iran, confermando che “I migliori momenti sono quelli che passi con il vento che fa volare i capelli…quanto è doloroso imprigionare i capelli danzanti in una stoffa …l’anima muore quando è messa in prigione dopo aver trovato il gusto della libertà!”.

Non è stato quello di Mitra l’unico caso in cui una sportiva iraniana professionista ha dovuto scontrarsi con una mentalità patriarcale e maschilista, ancora radicata profondamente nel proprio Paese.

Ricordiamo, anche, Samira Zargari, coach della Nazionale femminile iraniana di sci alpino, la quale non è potuta venire in Italia per i Mondiali di sci perché il marito le ha vietato di partecipare alla competizione internazionale, vietandole l’espatrio. Prima di lei, nel 2015 era toccato a Niloufar Ardalan, capitana della nazionale femminile di calcio a cinque, e nel 2017 a Zahra Nemati, campionessa dei Giochi Paralimpici di tiro con l’arco. Nel caso di Ardalan il suo viaggio fu sbloccato con l’intervento della magistratura iraniana, perché la legge prevede che sia il pubblico ministero, in caso di emergenze, a decidere sul rilascio del passaporto per le donne.

Lo sport per le atlete iraniane è sempre stato motivo di dissapore e di conflittualità perché apre i loro occhi su uno scenario internazionale, che condanna il sistema di regole e l’oppressione politica e religiosa del loro Paese.

Sappiamo benissimo che le donne che hanno sfidato e si sono ribellate a questo sistema hanno pagato cara la pelle: ad esempio, si ricorda, nel 2019, il caso della 24enne Yasaman Aryani che, con capo scoperto e rossetto rosso, aveva partecipato con sua madre e un’amica a una protesta pacifica nella metropolitana di Teheran nel giorno della festa della donna. Yasaman e le altre due donne sono state condannate a 55 anni di carcere e sei mesi per aver violato il codice di abbigliamento islamico con il “mancato rispetto dell’hijab obbligatorio”!!!

Indossare o meno il velo durante una competizione sportiva può rappresentare per le donne un ulteriore motivo di esclusione dalla vita sociale o un semplice strumento proibizionistico che uccide la libera scelta di una donna di praticare uno sport? È difficile trovare una mediazione tra i concetti e bisognerebbe capire effettivamente se dietro l’hijab c’è una donna con il suo vissuto di genere, di religione, di cultura, insomma di identità, che la stessa vuole difendere o, al contrario, nasconde una imposizione e una sottomissione all’uomo a cui non può opporsi.

In Occidente, è sempre vivace il dibattito se sia più giusto difendere i valori della libertà di una donna di esprimere la propria persona senza vincoli religiosi o politici o rispettare la diversità di cultura e di valori che dovrebbero favorire una maggiore integrazione sociale tra le diverse popolazioni in uno scenario internazionale.

In ambito giuridico, nel gennaio 2010, la Federazione svizzera di pallacanestro aveva proibito ad una cestista 19enne di portare il velo islamico durante le partite del campionato svizzero, perché giudicava tale comportamento contrario ai regolamenti internazionali.

Per il Tribunale distrettuale di Lucerna Campagna non si trattava di discriminazione, ma soltanto di una limitazione giustificata dei diritti individuali.

Per il giudice, la ragazza, svizzera di origini irachene, ha scelto di vivere in una società occidentale, società nella quale è bene integrata: secondo il tribunale, chi pratica uno sport è spesso confrontato con la necessità di mettere da parte alcuni interessi personali. La cestista ha inoltre firmato un contratto con la federazione, in cui s’impegna a rispettare le regole ufficiali del basket.

Così, la sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo (OSMANOĞLU ET KOCABAŞ c. SUISSE 10 gennaio 2017), che ha respinto il ricorso di una coppia di genitori musulmani di Basilea sanzionati per aver impedito alla figlia di entrare in piscina insieme ai compagni maschi, ha riportato sotto i riflettori il complicato rapporto tra la pratica sportiva e alcuni dettami religiosi.

In sostanza, per i giudici di Strasburgo a scuola non devono essere alzate barriere religiose contro l’integrazione, ma al tempo stesso costringere musulmani di entrambi i sessi a lezioni di nuoto in comune è da considerarsi comunque “un’interferenza nella libertà di religione”. La direzione intrapresa, anche guardando i recenti Giochi Olimpici, sembra portare verso la ricerca di un compromesso, a livello sia di abbigliamento sia di comportamento, che permetta a tutti gli atleti di praticare al meglio lo sport, senza tradire i principi della propria fede.

Infatti, ricordiamo, la judoka saudita Wojdan Shahrkhani, che a Londra 2012 è stata ammessa con uno speciale copricapo con chiusura in velcro, per evitare rischi di soffocamento. Oppure, sempre durante le Olimpiadi, hanno fatto parlare di sè la pakistana Kulsoom Abdullah, la prima donna con l’hijab nella storia del sollevamento pesi, la diciottenne Kimia Alizadeh, che nel taekwondo a Rio è stata la prima iraniana a vincere una medaglia olimpica, la coppia egiziana del beach volley, che sulle spiagge di Copacabana ha sfidato col caratteristico velo i bikini mozzafiato delle avversarie, e la saudita Kariman Abuljadayel, che si è presentata ai Giochi brasiliani nonostante il suo governo storcesse il naso e ha coronato il sogno di correre i 100 metri.

Anche in ambito commerciale, varie sono le motivazioni che spingono anche le aziende sportive a fare scelte imprenditoriali diverse: in Francia, ad esempio, l’azienda Decathlon ha deciso di non commercializzare il velo, o meglio, lo hijab sportivo, pensato per le donne musulmane, rappresentando una visione della donna non condivisibile, secondo la quale lo sport emancipa non sottomette, non spezza i valori sociali di libertà, ma li rafforza.

Al contrario, nel 2017 la Nike aveva lanciato il velo, con una linea dedicata proprio alle donne musulmane dal nome “Nike pro hijab”, sponsorizzato dalla pattinatrice degli Emirati Arabi Uniti, Zahra Lari, sostenendo che lo stesso è un simbolo di accettazione, è la riprova che le donne possono ambire a raggiungere obiettivi sempre più alti e che le differenze religiose non rappresentano un ostacolo, bensì uno stimolo ulteriore verso l’integrazione e il progresso.

Sicuramente, la partecipazione ad eventi sportivi internazionali ha permesso alle atlete musulmane di abbattere i preconcetti e i pregiudizi della società islamica dimostrando coraggio, determinazione, talento e dedizione, non solo nel conquistare una medaglia ma soprattutto nel rappresentare un’intera categoria e lottare con essa per nuove future opportunità.

 Tra l’altro, grazie a questa apertura, nel 2018 in Arabia Saudita sono state legalizzate le palestre femminili, anche se sono vietate le palestre frequentate sia da uomini sia da donne poiché l’Islam proibisce ogni frequentazione tra uomini e donne non imparentati.

La verità, tra discussioni e polemiche, è che le donne iraniane lottano quotidianamente per difendere la propria libertà sportiva e avere sempre più coraggio nell’affermare i propri diritti, contro il pregiudizio che, come magnificamente descritto dall’attivista di origine iraniana, scrittrice, studiosa e animatrice della Secular Conference, Maryam Namazie, si condensa così:“ Per controllare la testa delle donne le religioni non trascurano nessun aspetto: se nei loro occhi brilla l’intelligenza esigono che li abbassino, se nei loro sorrisi si leggono la gioia e la soddisfazione loro le reprimono, se fra i loro capelli soffia il vento della libertà e dell’indipendenza li devono nascondere, se nei loro cervelli si formano pensieri loro li formattano, se la loro bocca esprime la loro opinione loro la imbavagliano e se le loro orecchie registrano il sapere, loro le tappano. La testa delle donne viene passata al setaccio dall’esterno all’interno”.

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