Secondo i dati Inapp, rappresentano l’1,3 della popolazione di 18-74 anni, ovvero il 25,6% del totale di chi guadagna tramite internet. Per i tre quarti sono uomini, sette su dieci hanno un’età compresa tra 30 e 49 anni.
AGi – I lavoratori delle piattaforme digitali, che sono oltre 570 mila in Italia, non sono tutti rider ma svolgono “un insieme eterogeneo di attività che vanno dalla consegna di pacchi o pasti a domicilio allo svolgimento di compiti on line (traduzioni, programmi informatici, riconoscimento immagini)”. Secondo i dati Inapp, rappresentano l’1,3 della popolazione di 18-74 anni, ovvero il 25,6% del totale di chi guadagna tramite internet.
Ai platform worker, infatti, vanno aggiunti coloro che vendono prodotti (piattaforme pubblicitarie) o affittano beni di proprieta’ (piattaforme di prodotto) per un totale di 2.228.427 di individui (il 5,2% della popolazione tra i 18 e i 74 anni) che dichiarano di aver ricavato un reddito attraverso le piattaforme digitali tra il 2020 e il 2021. Questo l’identikit. Per i tre quarti sono uomini, sette su dieci hanno un’età compresa tra 30 e 49 anni. In particolare i giovani tra 18 e 29 anni concentrati soprattutto nella categoria dei lavoratori occasionali.
La maggior parte di loro hanno un diploma con qualche distinguo: ad esempio chi lavora tramite piattaforme come attività principale presenta livelli di istruzione più elevati (dal diploma in su), mentre chi lo fa occasionalmente presenta titoli di studio più bassi. Il 45,1% dei lavoratori delle piattaforme appartiene alla tipologia “coppia con figli” ma la quota sale al 59,1% nel caso di occupati che considerano quella delle piattaforme un’attività secondaria. Al contrario, le persone che occasionalmente collaborano con una piattaforma sono invece più frequentemente single (37,9%).
Come molte attività “sommerse” anche il lavoro tramite piattaforma si presta a condizioni di ridotta autonomia e a sospetti di rapporti irregolari, se non addirittura fenomeni di “caporalato”. Basti pensare che circa 3 lavoratori su dieci non hanno un contratto scritto, che il 26% dei lavoratori non gestisce direttamente l’account di lavoro per accedere alla piattaforma e che nel 13% dei casi il pagamento viene gestito da un ulteriore soggetto esterno. Inoltre, si segnala che il 72% ha dovuto sottoporsi a un test valutativo per poter lavorare con la piattaforma.
Sono anche schiavi dell’algoritmo: il sistema più diffuso per la valutazione del lavoro svolto è quello legato al numero di impegni o incarichi portati a termine (59,2% dei casi) seguito dal giudizio dei clienti (42,1%). Questo conferma la centralità del sistema del cottimo orario nella valutazione effettuata dagli algoritmi sui lavoratori e nell’organizzazione produttiva della piattaforma e suggerisce come per molti lavoratori delle piattaforme non si tratti di lavoro autonomo, ma di lavoro dipendente.
A una valutazione negativa o a una mancata disponibilità nello svolgimento degli incarichi corrisponde in 4 casi su dieci un peggioramento del tipo di incarichi assegnati, con la riduzione nelle occasioni di lavoro più redditizie rispetto al complesso degli incarichi (40,7%). Inoltre, la valutazione negativa determina per il 4,3% dei lavoratori il mancato pagamento della prestazione svolta, fino ad arrivare nel 2,8% dei casi alla disconnessione forzata dalla piattaforma, una sorta di licenziamento occulto.