Theresa May continua (senza ancora riuscirci) ad elaborare un modo per uscire dall’Unione Europea. L’ultimo disperato tentativo è quello di dimettersi una volta che l’accordo sia raggiunto, ossia ciò che molti conservatori avevano richiesto come requisito per votare in modo favorevole.
Di fatto il punto della questione ora ruoterebbe proprio attorno alla figura della premier May, chiamata per gestire il caos dopo l’exit sancito dal referendum del 23 giugno 2016 ed ora sempre più in difficoltà. La sua reputazione è ormai ai limiti storici, incapace di compattare la sua stessa maggioranza. Ma forse ciò che desta le maggiori difficoltà è la questione stessa. La Gran Bretagna è l’unico paese membro dell’Unione Europea ad aver applicato l’articolo 50 della Tue, ossia il diritto di recesso dall’Unione.
La bocciatura delle otto alternative al piano May sulla Brexit ha sancito la mancanza di una maggioranza che sia disposta ad accettare possibilità diverse rispetto al piano originario. Non c’è compattezza, in nessuno dei casi. Dunque quale può essere la soluzione? Mettere in ballo se stessi, come capro espiatorio di tutte le problematiche legate al divorzio con l’Ue. Theresa May ha capito che l’unico modo per salvare l’Uk è quello di “sacrificarsi”.
Il ministro per la Brexit Stephen Barclay ha riservato una sessione parlamentare straordinaria prevista per venerdì anche se i 10 deputati Dup (Democratic Unionist Party) hanno già confermato il loro no: questo potrebbe compromettere la maggioranza di governo sempre più risicata. Sembra che il destino della Brexit si giochi su uno scarto di pochi voti, probabilmente proprio quelli del Dup o di qualche benevolente Tories, ma a quale costo? Finanziamenti maggiori alle politiche locali?
Di fatto questa questione ci insegna che ridurre una scelta così importante ad un referendum con una risposta binaria SI/NO è problematica nonché ambigua. Quando si prende una decisione così rilevante si riflette solo sulla questione e mai sulle conseguenze, come se quest’ultime fossero appannaggio di qualcun altro. Infatti come sostiene Sabino Cassese: “Si sceglie una opzione, non il modo di realizzarla”. Proprio questa consapevolezza ha gettato il governo inglese nel caos poichè “solo ora ci si sta rendendo conto che non ha mai avuto idea di come realizzarla” commenta Federico Fubino (Corriere della Sera, 24 marzo)
La possibilità di un contro-referendum, ossia votare di nuovo exit o remain, continua ad essere scartata. La paura è quella di aggravare il danno reputazionale che l’Uk ha subito con la Brexit, vista la sua incapacità di arrivare ad una soluzione. E questa non è una problematica di poco conto per una nazione che da sempre è stata un faro per il contesto europeo.