“Società e natura: sorelle e figlie uniche”

Arte, Cultura & Società

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Pochi giorni fa, su un quotidiano mi è capitato di leggere un articolo che con dovizia di argomentazioni  tesseva l’elogio della fragilità umana. In particolare la tesi sostenuta era che nella letteratura la complessità, la ricchezza di ciò che siamo e dunque anche la fragilità trovassero normalmente cittadinanza molto meglio che nella realtà quotidiana, in cui tutto è invece subordinato alla performance, che finisce col segnare nettamente il confine tra chi vince e chi perde. Mi ha colpito molto la scelta dell’argomento da trattare, trovandola inusuale, anche se un attimo dopo ho pensato fosse una scelta banale, potendo la letteratura, non completamente vincolata dalla realtà e dai suoi diktat, occuparsi di qualunque cosa garbi  o no ad un autore e dunque anche di ciò che ci mantiene inevitabilmente un passo indietro rispetto alla “velocità media” dei nostri contemporanei.

Peraltro e notoriamente, gli artisti, come ricordava un grande scrittore, sono coloro che descrivono la vita, non partecipando ad essa se non in modo peculiare ed in piccola parte rispetto alle modalità generalmente diffuse. I poeti, i musicisti, i pittori, secondo lo scrittore, sarebbero  passeggeri di un treno che per descriverlo scendono, interrompendo così il viaggio. Personalmente ritengo questa riflessione calzante. Da sempre credo che vi sia una cesura impossibile da comporre tra chi è preso in massima parte dalla vita concreta e dalla risoluzione dei suoi problemi e chi, partendo da quegli stessi problemi, ne fa occasione per considerazioni di carattere più generale, allontanandosi talvolta moltissimo dalla concretezza. Da bambina, senz’altro superficialmente, mi divertivo a scommettere su chi sarebbe risultato forte ed avrebbe incontrato meno ostacoli nel corso della vita, attraverso l’osservazione di semplici gesti quotidiani, come afferrare un bicchiere, abbottonare una camicia, girare una chiave nella toppa.

Mi pareva infatti che il rapporto dell’artista con le incombenze soprattutto piccole di ogni giorno, rivelasse appieno il suo essere ad esse inadatto. Non mi sfuggiva che le sue capacità ci fossero e risiedessero altrove, solo che lamentavo come questo ne facesse un diverso, appartenente ad un’esigua minoranza e che ciò lo condannasse in qualche modo alla solitudine.

Ovviamente non trovavo la cosa desiderabile, intuendo l’esistenza di un pensiero da tutti accolto, secondo cui la vita è soprattutto nel rapporto con gli altri, quel pensiero secondo cui siamo animali sociali e che negli anni del liceo avrei trovato espresso compiutamente da Aristotele. Molti nei secoli hanno sottolineato la diversità di chi è dedito ad un certo tipo di studi ed approfondimenti, attribuendola ora ad una sorta di “malattia” che lo rende incapace di una vita normale, ora ad un essere comunque espressione della natura, ma di essere avvertito come cosa altra dalla società e di conseguenza venire in qualche modo da essa  emarginato. Schiere di studiosi hanno poi parlato di tale condizione come precipua delle organizzazioni sociali di alcuni momenti storici e non di tutti, poiché vi sono state epoche nelle quali la posizione dei poeti ad esempio è stata socialmente desiderabile come oggi quella di una rockstar. Anche queste analisi sono ovviamente da considerarsi espressione di determinati momenti storici.

Credo che sia una risposta al tempo che vivo anche il mio considerare gli artisti, nella loro irrimediabile lontananza dalla norma imposta dalla società, comunque ad essa funzionali, poiché scendendo dal “treno” della vita per operare una valutazione, una critica del viaggio, offrono ai viaggiatori la possibilità di cambiare ed eventualmente migliorare la propria esperienza, il più delle volte inascoltati, ma infondo è questa cosa di secondaria importanza rispetto alla necessità di essere consapevoli di un preciso ruolo e non di un altro. Poi infondo anche gli artisti per criticare, per discutere del viaggio, dal treno scendono per poi risalirci infinite volte e dunque per tutti, anche per essi, resta valida l’espressione “siamo tutti sulla stessa barca”… anzi meglio: “siamo tutti nello stesso vagone”.

Rosamaria Fumarola.

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