Fatta l’Italia chi punta a disfarla?

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L’unità nazionale degli italiani nacque dalla diplomazia, dalla spada e dalla regalità. Vi concorsero diverse forze politiche e culturali, talora divise e contrastanti ma infine convergenti nell’obiettivo finale: “fuori gli stranieri”, come ripeteva uno dei canti patriottici in voga.

 

Il Parlamento ne combina una al giorno. Quasi all’unanimità tempo addietro approvò la riduzione dei suoi membri senza sapere quel che si facesse. Se ne vedranno gli effetti (devastanti) quando si andrà a votare. Chi credeva che l’ormai annosa disputa sul prossimo capo dello Stato fosse, come è, un vulnus permanente per la dignità del Presidente in carica e per chiunque gli succederà, ora ha un motivo in più per vestire i mesti colori dell’Avvento.

Il Senato (etimologicamente sarebbe la Camera più assennata) ha approvato le “Norme sull’esercizio delle libertà sindacali del personale delle Forze Armate e delle Forze di polizia a ordinamento militare”.

A chi lo ha voluto suggeriamo di rileggere nell’Historia Augusta le belle imprese dei pretoriani.

Ne fece le spese l’albese Elvio Pertinace, assassinato appena tre mesi dopo l’incoronazione imperiale da miliziani non… paghi.

 Le Forze Armate hanno due soli collanti: Italia e disciplina. Poiché (meno male) abbiamo ancora un bicameralismo quasi perfetto, ci auguriamo che il disegno di legge venga bocciato dai deputati (anche se la loro Camera fa poco sperare) o che decada prima di essere discusso, appena questa bislacca e ormai stracca legislatura verrà sciolta. Poi sarà quel che sarà.

Motivo in più per ricordare come quest’Italia venne al mondo. Rievocarlo è anche un invito ai parlamentari a guardare bene quel che si vede nelle rispettive Aule.

I confini e i popoli d’Italia

L’unità nazionale degli italiani nacque dalla diplomazia, dalla spada e dalla regalità. Vi concorsero diverse forze politiche e culturali, talora divise e contrastanti ma infine convergenti nell’obiettivo finale: “fuori gli stranieri”, come ripeteva uno dei canti patriottici in voga.

A realizzare l’unificazione fu la monarchia storicamente incarnata nella Casa di Savoia. Fu essa a realizzare il programma che da almeno settanta anni era propugnato da circoli di pensiero di varia inclinazione, inclusi tanti repubblicani.

La meta fu raggiunta nel 1870, appena centocinquant’anni or sono, mentre altri Stati nazionali contavano secoli di continuità dinastico-istituzionale. Era il caso della Francia, della Gran Bretagna e della Spagna. La stessa Germania, politicamente frantumata, era culturalmente compatta. Tra Sette e Ottocento fu la culla della filosofia della storia.

Prima del 1861 l’Italia non aveva mai avuto unità politica. Al culmine della sua espansione territoriale, fra il 1924 e il trattato di pace del 10 febbraio 1947 essa arrivò a contare 310.319 chilometri quadrati rispetto ai 321.700 geograficamente italiani.

Il suo confine terrestre era smisuratamente lungo rispetto a risorse e mezzi difensivi e quindi vulnerabile in più punti. Esso lo vedeva a contatto con quattro diversi Stati: la Francia (per 487 chilometri), la Svizzera (725), l’Austria (421) e la Jugoslavia (245). Dopo l’annessione dell’Austria da parte di Hitler (10-13 marzo 1938), il Regno confinò direttamente con la Germania: una potenza che si estendeva dal Mare del Nord al Baltico e che a fine settembre 1938 incorporò la regione dei Sudeti e nel marzo 1939 Boemia e Moravia in forma di protettorato.

Da quel momento l’Italia si trovò dunque a scegliere tra due Stati, Francia e Germania, divisi da odio sino ad allora incomposto e degenerato in ripetuti conflitti nel corso dei secoli.

Essa era venuta alla luce proprio come liberazione dalle due potenze, Francia e Impero asburgico, che si erano combattute nella pianura padana, preda ghiotta per risorse, capacità produttiva, popolazione.

Il Regno contava circa 8.000 chilometri di confine marittimo: 3980 di pertinenza della penisola, 1115 della Sicilia, 1336 della Sardegna e 1565 delle altre isole.

Troppi anche per uno Stato che dall’unificazione aveva dedicato ingenti mezzi per dotarsi di una flotta rispondente alla sua vulnerabilità.

Per di più l’Italia arrivò a possedere un Impero coloniale di circa 10 milioni di chilometri quadrati, distribuito dall’Africa settentrionale (Tripolitania e Cirenaica, unificate in Libia), all’Africa orientale italiana (AOI), vale a dire Eritrea, Somalia e, dal 1936, Etiopia.

Erano altre migliaia di chilometri di confini marittimi e terrestri con gl’Imperi coloniali di Stati europei: Francia e Gran Bretagna, sia in Libia, sia nell’AOI. Qualsiasi conflitto europeo era dunque destinato a riverberarsi nelle colonie. Altrettanto valeva per la posizione dell’Italia nel Mediterraneo.

Tali dimensioni costituivano un incubo inconfessabile per il re, il governo, il corpo diplomatico, i vertici militari, i settori politici e imprenditoriali meno ripiegati su una visione provinciale delle sorti dell’Italia.

Anche quando nel 1924 raggiunse la massima espansione con l’annessione di Fiume, il Regno d’Italia proclamato il 14 febbraio 1861 non riuscì a unificare tutte le terre dai geografi considerate “italiane”.

Taluni dei lembi mancanti erano di discussa ascrizione all’Italia: quanto però bastava per lasciare aperto un irredentismo, un contenzioso e un revisionismo politico internazionale. Era il caso di terre cedute da Stati preunitari (la Corsica, la contea di Nizza, Roccabruna, Mentone) o passate dall’una all’altra dominazione straniera, ma sempre al di fuori di una sovranità propriamente italiana, come Malta.

Sottratta al Sovrano Militare Ordine dei Cavalieri dal generale Napoleone Bonaparte mentre nel 1798 faceva rotta verso l’Egitto, subito dopo l’isola fu occupata dalla Gran Bretagna, che la dominò sino a quando nel 1964 divenne Stato indipendente.

   Come ha ricordato Giulio Vignoli in un accorato saggio, gl’italofoni “dimenticati” sono però numerosi e disseminati su territori che l’opportunità politica recentemente corroborata da altruismo europeistico ha fatto e fa considerare “stranieri”.

Proprio perché l’Europa è o può divenire la grande casa di tutti i popoli che la abitano, vi è però motivo di sperare che a ciascuno di essi venga garantita la propria identità storica, senza interferenze ideologiche o leggi sulla “memoria storica democratica”, come sta avvenendo in Spagna.

La mancata identificazione tra unità politica e unità geofisica fu tra i crucci di Vittorio Emanuele III, appassionato di geografia e tanto autorevole in materia da essere più volte chiamato a pronunciarsi quale arbitro per dirimere vertenze interstatuali sull’assegnazione di terre anche remotissime.

Fu il caso, per esempio, della demarcazione tra il Brasile e la Guiana britannica, richiestagli nel 1903 e da lui definita il 6 giugno 1904, al termine di lunghi studi, con ‘sentenza’ accettata da entrambe le parti. Il re venne poi chiamato a dirimere la contesa anglo-portoghese nel Barotseland, sull’alto corso dello Zimbabwe (1905), quella franco-inglese sul cabotaggio nelle acque del sultanato di Mascate e per l’assegnazione dell’isoletta Clipperton, nel Pacifico (1909), disputata fra il Messico, dal quale dista 1250 chilometri, e la Francia, cui appartenevano le due navi che l’avvistarono, mentre resta dubbio che l’abbia intercettata il venturiere inglese dal quale prende nome.

Altri arbitrati gli vennero chiesti, anche dopo la Grande guerra del 1914-18, per esempio da Gran Bretagna e Brasile.

 Se tali controversie scientifiche suscitavano il suo appassionamento erudito, al re premeva soprattutto l’unione delle terre italiane e degli italofoni, compresi i milioni di emigrati, che costituivano una risorsa politico-culturale ed economica di fondamentale importanza per la Nuova Italia, come argomentò anche Luigi Einaudi in Il principe mercante e Vittorio Emanuele III ribadì concorrendo alla crociera della nave Italia in America Latina nel 1924.

La monarchia non giunse dunque a unificare tutti i “popoli d’Italia”. Senza di essa, però, gli italiani non avrebbero mai avuto uno Stato proprio. Non dipese solo dalla corona né da quella Casa se lo Stato italiano non rispose subito e sempre alle attese dei suoi cittadini e di quanti in vario modo lo abitarono.

Di certo senza i sovrani sabaudi lo Stato non sarebbe sorto. Non vi sarebbero state né unione né indipendenza, né uno Stato da decentrare o decomporre, come è avvenuto con l’istituzione delle ormai anacronistiche regioni “a statuto speciale” e la polverizzazione del Potere.

Roma capitale…

Una sintesi efficace delle sfide e delle contraddizioni interne alla storia nazionale che la monarchia italiana seppe vittoriosamente superare viene offerta quasi quotidianamente all’attenzione degli Italiani dalle riprese televisive dei lavori del Parlamento. Poiché si tratta di una “storia per immagini” , val la pena fermarvi l’attenzione.

Palazzo Madama, sede del Senato, offre un ventaglio ridotto di richiami all’epopea nazionale. Alle spalle del seggio presidenziale una targa in bronzo ricorda il pegno di Vittorio Emanuele II all’inaugurazione della prima legislatura nella capitale: “L’Italia è restituita a se stessa e a Roma”. 

A quelle parole dovevano ispirarsi i patres insigniti del laticlavio dal re: dedizione alla patria e fedeltà alle leggi dello Stato, res publica sia retta da consoli, sia da imperatori e sia, infine, da un re voluto da plebisciti, forma attualizzata del Senatus populusque romanus, che coniuga volontà dei cittadini di pieno diritto e sovranità delle istituzioni.

…e la parabola della dinastia sabauda

Molto più ricca di evocazioni simboliche e di insistiti richiami al nesso tra Casa Savoia e costruzione dell’unità nazionale è la Camera dei deputati, a sua volta quotidianamente proposta dalle riprese televisive. In quella stessa aula la monarchia, quale filo conduttore della storia d’Italia, fu istoriata dal gigantesco altorilievo in bronzo dello scultore piemontese Davide Calandra, figlio di un deputato di età cavouriana, avvocato e ingegnere idraulico, e fratello dello scrittore  Edoardo, autore di “La Bufera”. Alle spalle del seggio del presidente e del banco del governo, questi raffigurò il patto solenne e irrevocabile tra Casa Savoia e l’Italia, tra la Corona e la nazione: frutto della storia e della libera reciproca scelta.

  Al centro, alta, solenne, rassicurante nella sua opulenza, sta la Monarchia Costituzionale, con la fronte ornata dalla Corona ferrea. Essa, che è anche Italia e patria, ostende la Carta dello Statuto, gelosamente stretta al petto, come s’addice al Patto fondamentale tra regalità e cittadini.

Ai suoi fianchi, ben difesi dalle querce dell’Ordine e della Libertà, alte, frondose, spinte sino a lambire la tribuna reale, vegliano la Forza, che guarda dinnanzi a sé con occhio fermo e consapevole, mano sull’elsa della spada; e la Diplomazia, pensosa del proprio ruolo di garante degli equilibri, con la sinistra richiamata sotto il mento e il braccio destro coperto, in veste sacerdotale: del tutto complementare alla Forza, dunque.

Sui due lati del trittico Davide Calandra distribuì novecento e più anni di sovrani sabaudi. A partire dalla destra di chi guarda, erto a cavallo, audace e pettoruto sta Umberto Biancamano, con lancia, scudo, cane da caccia e falcone in pugno, affiancato da Emanuele Filiberto, il duca che restituit rem, recuperò e riorganizzò lo Stato, e da Vittorio Amedeo II, primo re sabaudo.

I tre spiccano alteri sullo sfondo di altri guerrieri e altre lance: i conti e duchi di Savoia attorno ai quali nei secoli si raccolsero le migliaia di guerrieri del “vecchio Piemonte”. Calandra illustrò la “scelta italiana” compiuta dalla dinastia negli anni da Emanuele Filiberto a Carlo Emanuele III, sintetizzandola nell’inconfondibile sagoma triangolare del Monviso, emblema della cerchia alpina e, al tempo stesso, dell’equità, espressa dalla forma densa di simbolismo sotteso.

  Sulla sinistra di chi guarda, lo scultore modellò, appena percepibili, le sagome dei successori di Carlo Emanuele III e, all’estremità sinistra dell’altorilievo, fece balzare dal bronzo, vigorosi, espressivi, trascinanti, i quattro re d’Italia, a cominciare da Carlo Alberto, acclamato sul campo di Goito il 30 maggio 1848, la cui vittoria era costata la vita agli studenti del battaglione universitario toscano immolatosi a Curtatone e Montanara affinché “qualcuno” liberasse l’Italia dallo straniero e desse a tutti uguali diritti.

Lo guidava un antico ufficiale napoleonico. Vi militò anche l’israelita Isacco Artom, poi segretario particolare di Camillo Cavour, esente dal servizio militare ma corso a combattere per il re che parificò i diritti di ebrei e valdesi a quelli di tutti i regnicoli. Al suo fianco, massiccio e austero, saldo in sella su un pacato destriero, Calandra pose il primo re d’Italia, Vittorio Emanuele II.

Di poco arretrato, Umberto I (il cui monumento funebre Calandra fuse per la città di Roma, con la Medusa a guardia contro l’anarchia) e, infine, stagliato in ogni dettaglio, Vittorio Emanuele III. Ritto a cavallo, lo sguardo franco verso la patria, questi ha il berretto regio nella destra e con la sinistra fa reclinare il capo al nobile destriero dinnanzi alla monarchia costituzionale: simmetrico a Umberto Biancamano, l’altro Savoia a capo scoperto.

   Per sfondo ai re (di Sicilia, Sardegna e infine d’Italia) Calandra pose l’Etna, perché l’Isola del Sole recò per prima la Corona regale ai Savoia e la sua l’Assemblea elettiva nel 1848 la offrì nuovamente a un membro della dinastia e, infine, perché da lì nel maggio 1860 ebbe inizio l’impresa solare di Garibaldi che, nel volgere di cinque mesi, condusse le Camicie Rosse da Quarto al Volturno e spianò la via alla ‘discesa’ di Vittorio Emanuele II attraverso Marche e Umbria sino all’incontro di Teano, ove il “dittatore” lo salutò “re d’Italia”, come poco prima sancito dai plebisciti.

Quella cavalcata di re Vittorio dalla pianura padana alla Terra di Lavoro racchiudeva molteplici messaggi. Essa indicava anche quanto lavoro sarebbe occorso per conferire unitarietà effettiva al Paese. All’epoca, infatti, non esistevano strade pensate per collegare via terra Nord e Sud della penisola. Men che meno ferrovie. Il mezzo di trasporto e di traino, non solo per il re, i suoi generali, le truppe, era il cavallo. Per talune regioni lo fu ancora per decenni, come testimonia la fotografia della prima visita ufficiale di un presidente del consiglio alla Basilicata: il bresciano Giuseppe Zanardelli issato su un carretto lungo vie polverose.

  Calandra, dunque, fuse nel bronzo l’asse centrale della storia d’Italia, condensato nella continuità della Casa regnante. Non intese però celebrare i Savoia in quanto dinastia a sé stante. Al centro dell’altorilievo, infatti, egli non pose un re. Neppure il padre della patria. Collocò la patria stessa. Come al Vittoriano, ove Vittorio Emanuele II a cavallo sovrasta la gradinata d’accesso all’“ara”, “Madre” di tutti gli Italiani. E la vigila. Lo scultore intese impartire una lezione permanente per le generazioni di deputati che si sarebbero accalcate in futuro in quell’aula.

   La monarchia rappresentativa rimase qual era definita dallo Statuto. Il governo era invece ormai francamente parlamentare: espressione della volontà delle Camere. La sovranità nazionale istoriata da Davide Calandra raggiunse tale intensità simbolica che dopo il cambio istituzionale del giugno 1946 a nessuno passò per il capo di rimuoverla.

La raffigurazione del patto tra le istituzioni e i cittadini rimase quella approvata da Vittorio Emanuele III, come l’Ara della Vittoria, che nella Curia del Senato romano racchiudeva la Tradizione, la ragion d’essere dell’Impero secolo dopo secolo costruito da Roma.

Quella è l’Italia che da oltre un secolo veglia sui lavori della Camera dei deputati. Un monito permanente. Più che mai attuale, anche per i presidenti della Repubblica, capi dello Stato nato nel 1861 e al comando delle forze armate come recita l’articolo 87 della Costituzione, “fotocopia” dell’articolo 5 dello Statuto promulgato nel 1848 da Carlo Alberto di Savoia, re di Sardegna.

Aldo A. Mola 

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