Il Bari, i talebani nostrani e il clientelismo

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La bufala divulgata da un giornalista napoletano la cui credibilità, si sa, è ai minimi termini per via della sua esuberanza professionale che fa a cazzotti con la deontologia, bufala secondo la quale Aurelio De Laurentiis sarebbe in procinto di vendere il Bari in mani solide (azione che, comunque, sarà costretto a fare più in là, salvo disfarsi del Napoli: insomma il personaggio partenopeo, con quella dichiarazione, ha fatto la scoperta dell’America) ha, di fatto, scoperchiato il famoso “Vaso di Pandora” barese facendo uscire il lato malvagio che questa contraddittoria città ha con sé, per la gioia dei talebani locali che non hanno perso tempo per ricamarci su un macramè a regola d’arte.

E già, perché i “talebani”, nostro termine coniato da poco, hanno dimostrato di far gruppo e di seguire proselitamente qualche “guru” locale che si veste da capopopolo contro la “dittatura delaurentiisiana”, ignari, però, che i capipopolo – la storia insegna – fanno sempre una brutta fine: Masaniello, Che Guevara, Ceausescu, Gheddafi, Bin Laden e, senza necessariamente morire, anche certi politici che salgono al potere salvo, poi, cadere miseramente per terra perdendolo.

Si tratta di personaggi, al momento, in disgrazia che sopravvivono galleggiando nello sterco entro il quale son caduti, con il muso appena fuori per boccheggiare, inveendo, criticando senza sosta e a prescindere e, per i credenti ai medievalismi, anche gufando, contro il Bari affinché la stessa società capitoli in fretta, a cominciare dalla squadra secondo il cui codice deve sempre perdere così da puntare l’indice verso la società che deve assolutamente capitolare.

E si, perché questi “talebani” de noantri, locali, autoctoni, con le armi affilate della tastiera, fanno di tutto per creare scompiglio e disordine sociale tra la tifoseria cercando di arruolare quanti più tifosi coranici possibili, col vessillo biancorosso, così da poter affrontare meglio la crociata contro la dittatura roman-napoletana che tanto fastidio dà al popolo talebano locale, per dirlo alla barese, dalla “ricotta” facile.

Si tratta di personaggi, dicevamo, che sono aditi al clientelismo, abituati a zerbinare qua e là pur di elemosinare qualche biglietto gratis, qualche anteprima di mercato, qualche favore, qualche informazione top secret così da primeggiare nei vari forum o sui social per dimostrare di essere i primi nel divulgarle (vivono di questi espedienti, non ci possiamo far nulla, son così).

La parola “clientelismo” trova la sua etimologia latina in cliens che, in età romana, si configurava in quel semplice cittadino – tendenzialmente disgraziato – incapace di lavorare, di pensare, di rendersi autonomo, e che per la sua posizione sociale al di sotto della media, si vedeva costretto a cercare protezione presso un patronus o, addirittura in taluni casi, presso una gens intera, naturalmente in cambio di conseguenti favoritismi, spesso e volentieri, ai limiti della sudditanza (per chi ha studiato la “Storia Romana” del Clementi, la cosiddetta applicatio) soggiacendo, in modo talvolta anche sdegnoso, verso il “padrone” fino a fargli perdere definitivamente la dignità pur di ottenere il pane. Ma si era a Roma antica, mica oggi a Bari, tra i trastullamenti neroniani e i fasti augustei passando per il mecenatismo e i circoli neoterici letterari dove – come noto – o si era imperatore o non si era una mentula (per dirla all’Alberto Sordi latinizzandone il termine) al punto che occorreva adattarsi, appunto, come i nostri cliens locali che hanno vissuto da parassiti con le precedenti proprietà calcistiche.

Come si contestualizzava il clientelismo, dell’epoca, è presto detto: esso avveniva, generalmente, attraverso la cosiddetta formula della deditio, che consisteva nell’usufrutto di un bene pubblico, come ad esempio un hortus o un ager publicus su concessione in precarium del patronus che si appropriava di tale bene. Il cittadino poco dignitoso (il tendenzialmente disgraziato, per intenderci) era, dunque, obbligato nei confronti del proprio padrone in solido, in tutte le sue attività politiche fino ad assicurargli voti alla sua famiglia (del padrone) e aiutandolo persino in guerra come semplice soldato, anche a costo di lasciarci la pelle, senza la possibilità di sganciarsi dallo stesso per passare al nemico. Insomma, il povero disgraziato non aveva la possibilità di scendere dal carro dei vincitori e salire su un altro, veniva ammazzato all’istante, magari divorato vivo dai leoni spacciandolo per “cristiano” o, molto più sbrigativamente, crocifiggendolo sulla Via Appia bruciandolo vivo, così da rendere ben illuminata la Regina Viarum ai viandanti, ai consoli e agli Imperatori di passaggio con le bighe. In alternativa, un colpo al cuore sferrato alla Bruto verso Giulione Cesarone, con tanto di pugnale, e via, il gioco era fatto.

Oggi, si sa, è diverso: oggi non si uccide più per fortuna. Oggi si scende dal carro per salire subito sull’altro senza conseguenze sulle persone, meno che sulla sua dignità.

Insomma, per dirla in breve, si configura, il povero cliens disgraziato, in quello che oggi va sotto il nome di “lacchè”, “tappetino” “zerbino”, “giullare” nell’accezione più medievalistica ed, anzi, attualizzato con l’ex politico di turno, lo sfigato di sempre, che deve sistemare i propri figli, che deve dire sempre “signorsi”, tendenzialmente scansafatiche, che si mostra amico di tutti perché non si sa mai, alla ricerca di un posto nella società civile, ma anche e soprattutto nel Bari e nella relative orbite gravitazionali.

Tale istituto romano d’epoca, ovvero quello della clientela, assunse dimensioni sociali soprattutto nell’età imperiale. Molti, infatti, i poeti d’epoca che vissero da “cliens“: il poeta Marziale su tutti – quello dei celebri “Epigrammi” – il quale, ovviamente, ne trasse vantaggi personali. Appunto.

E’ più forte di loro, non c’è niente da fare. I talebani locali le provano tutte pur di tentare di tornare al potere, da quello (il)legale, a quello sociale, da quello economico a soprattutto quello politico, fino ad arrivare a quello del Bari per il potere, per la loro bramosia, per primeggiare e comandare. Sono cellule dotate oltre che di autoctone improbabili leggi rivoluzionarie, anche di un disturbo narcisistico della personalità in quanto, da forzatamente eclissati, amano cercare di apparire e primeggiare come dei personaggi cicaleggianti di talk show che squittiscono durante la giornata alla ricerca di riflettori ululando scompostamente come certi politici di professione o come sguaiate primedonne vestite di lustrini e paillette.

E si, perché costoro cercano di fare terra bruciata: cancellano i contatti dai propri profili social che osano non pensarla come loro, non accettano critiche, diffamano intra moenia i loro nemici “americani”, minacciano denunce, querele, insomma, si rendono agli occhi della gente molto ridicoli, goffi e anche un tantino deficienti (dal latino deficere) sotto la copertura di “tifosi del Bari”. Ma, come detto prima, si tratta di “cliens” veri e propri che usano il Bari per scopi personali e non per reale affezione e sentimento alla casacca.

A Bari è così, c’è poco da fare. A Bari non si accetta lo straniero, il forestiero, colui che osa prendere le redini di un qualcosa che apparitene alla gente locale per darne lustro, no. A Bari si preferisce consegnare la “cosa barese” ai baresi, magari senza grosse disponibilità economiche, così da poter aver le porte aperte per una massiccia dose di clientelismo che il forestiero non garantirebbe mai. Del resto si veda cosa fanno i De Laurentiis a Napoli: hanno vietato da sempre l’elargizione dei biglietti gratuiti ai tifosi, non hanno agganci con la politica, men che meno con De Magistris & C., e questo provoca loro un gran versamento di bile fino a sfociare nell’odio verso la proprietà che, lo ricordiamo, è romana e non napoletana. Con Ferlaino, non a caso, era diverso: favori, biglietti e quant’altro a go-go.

Precisiamo, per i diffidenti, che Luigi De Laurentiis intrattiene solo dei rapporti di buon vicinato con il Sindaco barese ma senza tornaconti personali. Tra l’altro il Sindaco Decaro ha regolarmente fatto l’abbonamento allo stadio, giusto per la cronaca. L’evidenza dice questo, e chi pensa al contrario è in chiara malafede.

E questo, a Bari, dà molto fastidio perché i forestieri, per costoro, sono veri e propri invasori che non si lasciano corrompere da nessuno. Del resto Bari, in fondo, nonostante il suo status di città metropolitana, è pur sempre un grande paesone che vive di questi miseri espedienti per emergere dal nulla più totale. E neppure il taumaturgo Nicola da Myra può fare tanto, lui protettore dei forestieri, i talebani integralisti nel loro islamismo, non riconoscono nemmeno il proprio santo protettore.

Sono persone inette al lavoro, poco propense a sgobbare per portare il pane a casa che vivono di stratagemmi e di sotterfugi, che sono adusi alla critica feroce senza risparmio su ogni cosa proposta dal forestiero, anche quando le cose vanno bene, in questo caso dai De Laurentiis.

Lungi da noi, naturalmente, difendere la società anche perché spesso l’abbiamo criticata, il nostro è solo un esercizio descrittivo di ciò che avviene in questa città dove l’imperativo è abbattere chi sta tentando di ricostruire qualcosa, nel nostro caso la squadra di calcio che dei loschi faccendieri, degli insensibili e degli incoscienti l’hanno mandata all’inferno con l’aiuto dei suddetti talebani i quali, in genere, fanno crociate verso chiunque, forestiero, provi a dar lustro alla città: aziende, catene di negozi, vedasi Eataly e i mal di pancia verso il torinese Farinetti, la Fiera del Levante e gli scomodi bolognesi che hanno stretto i rubinetti dei biglietti gratis, Benetton in Via Sparano non visto di buon occhio. Insomma, tutto ciò che viene intaccato da forestieri che cercano, investendo capitali, di dare una mano a far tornare a brillare la città, magari anche sbagliando, non viene mai accettato in pieno da certi baresi con il vizio levantino.

Obiettivo, dunque, dei nuovi talebani locali, con la loro strategia del “Regime del Terrore” in stile Rivoluzione francese, è cercare di far breccia nella Bastiglia di Via Torrebella alla conquista della ricotta perduta. Quella skuanta, ovviamente. Così da fallire un’altra volta. Del resto come diceva Samuel Beckett: “Ho fallito, non importa, riproverò, fallirò meglio“.

Massimo Longo

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