Paparcuri nel bunkerino della memoria: “Quei veleni contro Falcone”

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Unico sopravvissuto della strage Chinnici e poi reclutato da Giovanni e da Paolo Borsellino, è custode di appunti, fotografie e di una montagna fascicoli che testimoniano l’opera dei magistrati.

© Wlady Pantaleone – Giovanni Paparcuri, al centro, nel ‘bunkerino’ del Palazzo di giustizia di Palermo

AGI – Il ‘pizzino’ di Paolo Borsellino è scanzonato, ma perentorio: “Se la papera vuoi trovare 5000 lire devi portare”. E la risposta dell’amico estorto, Giovanni Falcone, è degna della sua fama: “Paolo non rompere e rimetti la papera al suo posto”.

È uno degli aneddoti – tra tanti – che Giovanni Paparcuri, l’uomo che visse due volte, sciorina ai visitatori che ogni giorno visitano il “bunkerino”, gli uffici blindati al primo ammezzato del Palazzo di giustizia di Palermo in cui i due giudici uccisi da cosa nostra 30 anni fa, scrissero di proprio pugno i 41 volumi della richiesta di rinvio a giudizio che sfociò nel maxiprocesso.

Si arriva davanti alla porta blindata del bunkerino, dove all’epoca stavano gli agenti delle scorte, con aria curiosa, qualcuno sorride, altri hanno voglia di entrare subito. Ma Paparcuri-Caronte prima li indottrina: “Prima stavano al piano terra, senza vetri blindati. Quando aumentò la tensione si trovò questa soluzione per garantire la sua sicurezza”.

paparcuri nel bunkerino della memoria
© Wlady Pantaleone

Nel ‘bunkerino’ del Palazzo di giustizia di Palermo

Si entra sorridenti, dicevamo, ma si esce con le lacrime agli occhi. Perché Giovanni Paparcuri – unico sopravvissuto della strage Chinnici, di cui era l’autista e poi reclutato da Falcone e Borsellino per la sua passione per l’informatica – nel suo ruolo di guida, ti fa ripiombare, alla fine degli anni Ottanta: “Migliaia di morti in tre anni, c’era la guerra di mafia tra i corleonesi e i perdenti, sono morti magistrati, poliziotti, carabinieri, imprenditori”. Debora, da Rimini, è la terza volta che viene a Palermo e per la terza volta al bunkerino.

Ma non trattiene le lacrime quando sente Paparcuri che legge il biglietto d’amore che Falcone scrisse alla sua amata moglie Francesca: “Giovanni, amore mio…”. Un biglietto trovato per caso in un libro e che ora è all’interno della tomba del giudice a San Domenico. “Io mi ripresi dopo un anno e mezzo – racconta ai visitatori provenienti anche da Genova, Firenze, Prato, Vicenza – e lo Stato voleva riformarmi. Mi rifiutai e poi ricevetti dai giudici, che conoscevano la mia passione per l’informatica, di allestire questo ufficio in chiave più moderna”.

Si deve a questo ufficio – a queste persone, da Falcone e Borsellino allo stesso Paparcuri – la nascita della prima banca dati informatizzata. Certo, si sta parlando del 1985: “Usavamo i microfilm, non c’erano gli scanner, i nastri erano avvolti nelle bobine – racconta – e il computer è grande quanto una lavatrice”.

paparcuri nel bunkerino della memoria
© Wlady Pantaleone

Il fascicolo degli interrogatori a Tommaso Buscetta custodito nel ‘bunkerino’ del Palazzo di giustizia di Palermo

Paparcuri rivela – mentre mostra i verbali di Tommaso Buscetta, il primo pentito di mafia fondamentale nel maxiprocesso – che “una settimana prima dell’attentato dell’Addaura, sventai un tentativo, credo fosse il primo, di violazione della nostra rete informatica.

Proprio mentre qui c’era, nella stanza con Falcone, la magistrata svizzera Carla Del Ponte, giunta a Palermo in segreto per svolgere alcuni interrogatori”.

Paparcuri ricorda, non senza amarezza, i veleni, i depistaggi e l’ex capo della Mobile e questore di Palermo, Arnaldo La Barbera che “venne in questo ufficio a cercare talpe incolpando anche dei commessi che ascoltavano la musica col mangianastri e sostenendo che in realtà intercettavano tutto l’ufficio. La Barbera – chiosa mentre i visitatori sono attratti dall’impermeabile antiproiettile che non serviva a nulla – quello del depistaggio di via D’Amelio e del falso pentito Scarantino…”.

Sono tre stanzette che compongono il bunkerino, sono piene zeppe di appunti, libri, riconoscimenti, fotografie, una montagna di fascicoli, tutto originale. Ed è tutto com’era. Come se i giudici possano arrivare da un momento all’altro dicendo: “Papa vieni subito dobbiamo lavorare”.

La visita dura 70 minuti. “Ora non mi fate parlare più, sono stanco. Facciamoci un selfie”. E sui volti dei visitatori torna di nuovo il sorriso.

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