I migranti ISIS, la Libia e la Task Force italiana

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(Gianfrasket) – E’ l’alba di un nuovo giorno come tanti altri.

Il “flappare” ritmico e ovattato annuncia l’arrivo di un elicottero che si avvicina sull’obiettivo.
Il portellone aperto ondeggia sopra la nebbia polverosa fatta di sabbia e argilla avvicinandosi a semicerchio sui guerriglieri. Sopra, sul velivolo, una manciata di incursori con lo scudetto tricolore sul braccio controlla per l’ultima volta le armi. Sono pronti a lanciarsi fuori dal mezzo.
In Italia, a quest’ora, c’è chi sta andando a fare la spesa, chi in ufficio, chi porta ai bambini a scuola. Ma siamo in un paese lontano dai nostri pensieri perché lontana è la gente che lo abita, la cultura, la storia, le vite, le facce. Siamo in Afghanistan, o in Irak, o magari in Libia o in Somalia.

Siamo lì dove operano i “fantasmi” della Task Force 45, i soldati che ufficialmente non esistono, incaricati di missioni combat delle quali ben difficilmente trapelerà qualcosa.
Sono poche centinaia di uomini, selezionati tra le file del Nono Reggimento paracadutisti d’assalto Col Moschin, tra gli incursori della Marina, gli alpini paracadutisti, i ricognitori paracadutisti del 185° RRAO, tra i carabinieri del Gis e le forze speciali dell’ Aviazione, il 17* Stormo incursori.

Fino a poco tempo fa non se ne sapeva nemmeno l’esistenza e la maggior parte degli italiani non era a conoscenza del fatto che nostri soldati partecipassero a operazioni e scontri di questa portata. Insomma, che facessero la guerra. Sul serio.

Come spiegava qualche tempo fa un ufficiale italiano, in Afghanistan, ad alcuni giornalisti: «A ovest ci sono la provincia di Helmand e il confine pakistano, appena oltre c’è Quetta dove la Shura, l’assemblea dei capi talebani in esilio in Pakistan, decide le operazioni contro la Nato. Nell’avanzata dall’Helmand e proseguendo verso Nord i talebani incontrano i marines americani e i paracadutisti inglesi. Poi puntano più a est, in direzione di Kandahar. Per infiltrarsi verso le province occidentali sono obbligati a infilarsi nel deserto di Farah, un passaggio obbligato e lì ci siamo noi ad aspettarli».
Questa è la vita dei nostri soldati della Task Force 45.

L’Afghanistan è stato il laboratorio e la fucina del nuovo modo di agire degli italiani: combattere senza esplicitarlo, fare la guerra mentre si annuncia ai quattro venti che portiamo la pace, muovendosi sempre sull’insidioso confine delle autorizzazioni parlamentari. Non servono tanti soldati per fare ciò, basta che siano capaci e soprattutto discreti: e noi abbiamo tra i migliori del mondo in questa tipologia.

Sono le “Forze Speciali”. Abbiamo insegnato noi al mondo come si faceva questo tipo di guerra, con i Nuotatori Paracadutisti della Decima Mas, con i sommozzatori che hanno violato i porti di Gibilterra e Alessandria, con i paracadutisti dell’ADRA, un pugno di uomini, in termini numerici, che ha inflitto perdite devastanti al nemico. Gli americani hanno capito subito la lezione e adesso per loro le FS hanno la stessa importanza delle armi atomiche. Possono decidere le sorti di un conflitto, ma spesso basta solo la loro presenza per intimidire i nemici e spingerli a tenersi lontani.

L’ultimo modello tricolore è la Task Force 45. Una denominazione strana e semisconosciuta, eppure già così famosa da diventare una fiction Mediaset, con l’immancabile Raoul Bova, a dre il vero alquanto patetica nello sforzo di risultare politicamente corretta. La TF45 è così misteriosa che in effetti non sappiamo bene cosa hanno fatto e nemmeno cosa stanno facendo nel momento in cui scriviamo. Le scarne notizie raccontano che sono circa duecento uomini, in gran parte operatori del Col Moschin (in codice “Condor 34”) integrati da distaccamenti di incursori della Marina ( “Caimano 69”), da arditi dell’Aeronautica (“Icaro 30”) e da carabinieri del Gis, con l’appoggio di ricognitori paracadutisti del 185° RRAO e rangers del 4°Reggimento alpini paracadutisti.

Insomma, l’élite guerriera italiana. Di meglio non abbiamo e, francamente, di meglio è anche difficile trovare nel resto del mondo. Di sicuro, è la prima forza operativa italiana nel dopoguerra a non restare in difesa: va sempre all’attacco, in cerca di prede.

I risultati sono top secret. Ufficialmente il nostro Paese non ha mai catturato prigionieri, né ha mai ucciso nemici. Una versione smentita dai file di WikiLeaks che elencavano decine di vittime. E ora le foto di una monografia pubblicata da un editore specializzato, la Lupo di Luca Poggiali, mostrano gli incursori senza volto mentre curano feriti, ammanettano prigionieri e gli “fotografano” gli occhi per prendere il profilo dell’iride.

“Mentoring” è la parola chiave per decifrare il ruolo italiano nei luoghi caldi del mondo. E’ il “mentoring” che permette di aggirare ogni caveat imposto dalla politica e impegnare gli uomini in combattimento. Sempre e comunque. Avrete notato che ogni volta noi andiamo a fare gli istruttori. bene, è quello il segreto.

Per esempio, il nostro attuale impegno in Iraq contro ISIS non prevede il combattimento e al Parlamento è stata annunciata solo una missione di addestramento. Giusto, ma il protocollo di impiego è ambigupo, perché divide questa attività in due compiti ben diversi: training e mentoring. Il training è l’addestramento che si fa nelle caserme, il mentoring invece è ben altro: si va in battaglia insieme ai soldati da istruire per fargli vedere bene come si fa. L’Afghanistan è stata la palestra dove il meccanismo è stato oliato e messo bene a punto. Contro i talebani, gli afghani sono andati all’attacco “shona ba shona”, spalla a spalla, con i mentor italiani.

Nei discorsi sulla lotta allo Stato Islamico, il ministro Roberta Pinotti non ha mai pronunciato il termine “mentoring”; se ci avete fatto caso lo ha fatto però il Premier Paolo Gentiloni durante la visita a Baghdad. Ciò significa che le Forze Speciali italiane non restano nei campi trincerati della capitale ma entrano in azione, e lo stesso avviene sulle linee dei peshmerga in Kurdistan, dove peraltro siamo già stati a lungo, anni fa, con l’operazione “Airone”. Intanto stiamo completando le infrastrutture per accogliere i nostri elicotteri. Gli operatori delle forze speciali che si andranno ad aggiungere a quelli già operativi, saranno pochi, ma il numero non conta, è la qualità a fare la differenza. E nel nostro caso la qualità è tanta e di prima scelta.

Di “Mentoring” è legittimo parlare anche in un altro quadrante che scotta: la Somalia. Pochi giorni fa è stata annunciata la fine della spedizione contro la pirateria, ma rimarrà attiva la base di Gibuti: una sentinella tricolore sul Corno d’Africa. Formalmente quella somala è una missione europea, di fatto la gestiamo noi. Mogadiscio resta però ad alto rischio: un mese fa un’autobomba ha devastato un hotel accanto alla residenza del premier. E la guerriglia islamica di al-Shabaab viene considerata una minaccia primaria da Washington, perché dispone di legami con la diaspora somala in tutto l’Occidente. Per contenerla gli americani si sono affidati alle esecuzioni dei droni-killer – quattro capi jihadisti uccisi solo negli ultimi mesi – ma sono stati ben felici di delegare a noi le iniziative sul terreno.

A riportare il tricolore a Mogadiscio è stato il generale Massimo Mingiardi, ex Comandante della Folgore che proprio nella capitale somala venne ferito nel 1993, durante la battaglia al Check Point Pasta. Mingiardi è stato poi rimpiazzato da Antonio Maggi, un altro generale con esperienza combat maturata nella valle afghana di Mushai, che, come scrisse il “Washington Post” nel 2007, nessuno prima di lui era riuscito a pacificare. Il fatto che siano tutti veterani non dovrebbe ormai sorprendere più nessuno. Dal 1992 abbiamo mandato a fare la guerra decine di migliaia di uomini che si sono temprati sul campo di battaglia secondo le tattiche più avanzate. Il nostro ormai è un esercito di veterani, con un coefficiente qualitativo molto elevato.

La seconda parola chiave per capire il lavoro delle nostre Forze Speciali è “assalti cinetici” o “kinetic strike”. Operazioni limitate nello spazio e nel tempo ove viene sviluppata una ridondante forza letale tesa alla soppressione o alla cattura di “target” particolarmente paganti. Ad esempio, si vede un’auto semicarbonizzata su una qualsiasi strada, in uno dei tanti posti ove si combatte, circondata dalle jeep degli incursori mentre un elicottero da combattimento Mangusta sorveglia e copre dall’alto. Sulla vettura viaggiavano dei capi della guerriglia. Un drone li ha seguiti dall’alto, poi è scattato l’agguato. Con un paio di colpi da lunga distanza un tiratore scelto con un arma di precisione di grosso calibro (Barret, McMillan…etc) ha bloccato il motore, quindi sono arrivati gli incursori sotto la protezione del Mangusta: le portiere aperte indicano che le persone a bordo sono state catturate vive.

Tra un anno arriveranno anche droni più potenti, completamente Made in Italy: i Piaggio che somigliano agli “squali martello”, un nomignolo che anticipa la vocazione di bombardieri teleguidati a lungo raggio. E sempre facendo tesoro dell’esperienza fatta, alcuni bimotori da trasporto C27 Spartan sono stati trasformati in cannoniere volanti, i Pretorian, con armi pesanti a tiro rapido, progettate per spazzare via i caposaldi avversari.

Siamo dunque pronti a ogni evenienza, anche a un intervento in Libia, il più delicato dei fronti caldi aperti e quello che ci riguarda più da vicino. Un intervento che ogni giorno che passa diviene sempre meno differibile, una spedizione, la nostra, evocata sempre più spesso e che alla fine si renderà indispensabile per salvaguardare i nostri interessi che sono addirittura vitali. Se non interrompiamo la spirale migratoria e se si interrompesse il flusso di gas libico la nostra situazione sociale ed energetica diverrebbe quasi disperata, considerando che con la prevedibile ripresa delle ostilità in Ucraina il gas russo diverrà quasi una chimera.

Ma nessuno deve farsi illusioni: sbarcare in Tripolitania o in Cirenaica sarebbe facile, compiere dei raid devastanti di Forze Speciali un gioco da ragazzi, ma rimanere lì e pacificare quella terra sarebbe impresa assai ardua e sanguinosa. Chiunque metterà piede a Derna, Misurata e nelle altre città libiche sa che si dovrà confrontare col peggiore contesto bellico possibile: il MOUT (Military Operations on Urban Terrain). Un incubo che i nostri incursori che sono stati lì durante l’intervento contro Gheddafi ricordano ancora con raccapriccio. Gli israeliani, quando sono entrati ultimamente con la fanteria a Gaza City hanno avuto 66 morti in pochi giorni e se ne sono dovuti andare con la coda tra le gambe. Il prezzo da pagare in Libia sarà dunque altissimo, questi governi di carta igienica sono in condizioni di pagarlo?

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