Quel mare di plastica chiamato Mar Mediterraneo

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Alcuni giorni fa una turista in vacanza a Porto Pino, in Sardegna, ha buttato l’olio del tonno avanzato in mare, seppellendo poi la scatoletta sotto la sabbia della spiaggia. Questo semplice gesto ha suscitato l’indignazione di un bagnante sardo che si è rivolto contro la donna definendola “maleducata”.

La scena è stata ripresa con il cellulare da alcuni ragazzi che stavano passando la giornata nella stessa spiaggia della provincia del Sud Sardegna. “La spiaggia è di tutti e lei deve aver rispetto di tutti”. Questa frase pronunciata dal signore è emblematica per capire come i problemi ambientali siano ancora percepiti come secondari. Il Mediterraneo sta diventando un “mare di plastica”. In uno degli ultimi studi in merito, i biologi del Cnr (il Consiglio Nazionale delle Ricerche) hanno rilevato una elevata quantità di microplastiche, ossia di piccoli frammenti di materiale derivanti dalla degradazione della plastica ad opera del sole e del mare che aumentano l’inquinamento del Mare Nostrum.

Queste particelle possono attaccarsi a rocce e coralli o essere facilmente ingerite dagli animali marini, provocandone l’asfissia. La maggiore concentrazione di plastica si registra nel Tirreno settentrionale, circa 10 chili per km2, segue la zona tra Sicilia e Sardegna con 2 chili di spazzatura per km2. In queste aree la loro concentrazione è maggiore di quella presente nell’Oceano Pacifico (1,25 milioni di frammenti contro i 33mila di quest’ultimo). Il problema principale del Mediterraneo è la sua conformazione. Essendo un mare chiuso, le particelle di plastica sono in grado di permanere nelle acque anche per mille anni. Ciò che alimenta questa discussione è soprattutto la scarsa coscienza ecologica della popolazione mondiale che non percepisce il rispetto dell’ambiente come un problema individuale e personale. Sono i piccoli gesti che contribuiscono all’inquinamento del territorio, alla morte dei mari e dell’ecosistema.

Le interconnessioni che collegano l’uomo alla terra sono fondamentali per la conservazione e la sopravvivenza dell’equilibrio vitale. La specie umana non potrebbe sopravvivere senza un habitat sano.  Il problema principale rimane ancora l’insufficiente impegno da parte di famiglie, scuole, associazioni nell’educazione al rispetto del territorio. La mentalità consumistica ha abituato il mondo a ragionare senza tenere conto delle conseguenze.  A livello produttivo, le aziende che tengono conto dell’impatto ambientale sono poche. Soprattutto nell’industria agroalimentare, gli sprechi sono stimati per 1,3 miliardi di tonnellate al giorno, cibi che non vengono riutilizzati in un’altra forma ma semplicemente buttati.

Il consumismo ha indotto il consumatore a credere che il prodotto debba essere bello e accattivante piuttosto che a porre l’attenzione sul fatto che non sia sempre una conseguenza della crescita naturale di esso. La mentalità industriale dei grandi numeri ha danneggiato la cultura del bene locale a chilometro zero, causando il rapido fallimento della piccola agricoltura.  I numerosi processi di imballaggio, derivanti dai procedimenti industriali sono destinati a produrre una quantità di plastica talmente elevata che i sistemi di riciclo presenti in Italia non sarebbero in grado di smaltire tutto il quantitativo accumulato. Il problema continua a rimanere l’insensibilità verso l’ecologia che può causare comportamenti come quelli della turista in Sardegna. Questo semplice fatto testimonia quanto questi temi siano percepiti come distanti, come se non interessassero tutti.  Anche un mozzicone di sigaretta, un fazzoletto usato, una bottiglia di plastica, per quanto piccoli, possono contribuire alla morte del nostro pianeta.

  Sara Carullo

Laureata in Scienze Politiche, Economiche e del Governo  – Università degli Studi di Urbino

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