Vengono dal Ruanda, dal Ghana, dal Togo: sono l’avanguardia di una rivoluzione fatta di innovazione tecnologica e sociale e che sta cambiando faccia al Continente Nero. E mentre i Paesi europei si preoccupano dei migranti, c’è chi già investe in quel nuovo, gigantesco mercato di talenti e servizi
BRUXELLES. C’è un Paese in cui si sale su ogni autobus di ogni compagnia con una card ricaricabile, che una volta strisciata su un apposito lettore scala il prezzo del biglietto. E ce n’è un altro in cui gli startupper si organizzano in coding club che insegnano gratuitamente a bambini e ragazzi a programmare per diventare a loro volta startupper. E un altro Paese in cui c’è i cervelli non scappano dalla miseria, ma sviluppano progetti e idee per cambiare due chilometri quadrati di città attorno a loro.
Benvenuti, rispettivamente, in Ruanda, Ghana e Togo. Paesi che gli occhi europei, che li guardano da lontano senza nemmeno essere in grado di indicarli su una mappa, sono abituati a considerare ricettacoli di genocidi, povertà, malattie e migranti semianalfabeti e incapaci di far qualunque cosa tranne i “mestieri che noi italiani non vogliamo più fare”. E che invece, da qualche anno ormai, stanno diventando l’avanguardia della rivoluzione dell’economia digitale. Perlomeno, quelli in cui tale rivoluzione ha i maggiori effetti positivi non solo sul prodotto interno lordo, ma anche nella qualità della vita, nella proliferazione della conoscenza, nella creazione di comunità del cambiamento: «L’economia digitale sta cambiando il futuro dell’Africa– spiega Aphrodice Mutangana, giovanissimo startupper e imprenditore sociale ruandese -. Internet e i telefoni cellulari, soprattutto, sono l’unica vera infrastruttura economica che sta trainando l’economia del nostro Paese. Il digitale sta risolvendo problemi che i governi non sarebbero in grado di risolvere, sta rendendo la vita semplice».
«L’economia digitale sta cambiando il futuro dell’Africa. Internet e i telefoni cellulari, soprattutto, sono l’unica vera infrastruttura economica che sta trainando l’economia del nostro Paese. Il digitale sta risolvendo problemi che i governi non sarebbero in grado di risolvere, sta rendendo la vita semplice»
Aphrodice, l’evangelizzatore digitale del Ruanda
Fondatore e general manager di Foyo Group, una realtà che ha prodotto un applicazione che offre consigli e diagnosi on demand direttamente sul proprio smartphone, Aphrodice è l’avanguardia della generazione di cosiddetti afropreneur,giovani nativi digitali che stanno cambiando l’Africa a colpi di startup, acceleratori d’impresa, fab lab, coding club. È a Bruxelles, ospite d’onore dell’Africa Week, una settimana di incontri organizzati dal gruppo dei Socialisti e Democratici Europei sul futuro del continente nero, sui suoi rapporti con l’Europa, sulle strategie per rendere questo sviluppo diffuso e duraturo. «L’Africa è un continente che ha fatto straordinari progressi negli ultimi vent’anni e non si può parlare di Africa senza parlare di innovazione. – ha ricordato non a caso Gianni Pittella, capogruppo degli S&D che ha organizzato l’iniziativa -, ma i giovani imprenditori africani non raggiungeranno mai i loro sogni su larga scala se continueranno a muoversi in un ambiente ostile, in cui non c’è una buona governance, in cui non c’è il rispetto della legge, in cui non ci sono quella sicurezza e quella stabilità necessarie per investimenti sostenibili».
Lo sanno bene, questi giovani imprenditori. Che infatti sono ben lontani dal cliché misantropo e solipsismo di Mark Zuckerberg, o dalla megalomania interstellare degli Elon Musk: la loro è un interpretazione del ruolo imprenditoriale quasi olivettiana, da innovatori sociali, da operatori di comunità. Come lo stesso Aphrodice Mutangana, che dopo Foyo Group ha fondato K-Lab, un incubatore con tre sedi, milleseicento aspiranti startupper e sessanta aziende fatte e finite, ognuna delle quali ha già un mercato internazionale.
Per dire: in K-Lab ci sono startup come AcGroup, un’azienda che sta digitalizzando il trasporto pubblico in Ruanda, con più di 100 impiegati e più di 500mila clienti al giorno. Funziona così: ricarichi la carta e quando sali su qualunque autobus di qualunque compagnia partner, passi la tessera e paghi. Non devi più fare un bigletto. Quando hai finito, ricarichi la tessera. O come Mergims concorrente locale di Western Union per le rimesse dei migranti che vivono fuori dall’Africa, ma che invece di trasferire semplicemente denaro contante da un continente all’altro, consente loro di pagare ai loro cari che stanno in Ruanda la connessione a internet, le bollette, i libri, gli studi, evitando che i soldi prendano direzioni sbagliate. Non solo: nel 2015 K-Lab ha avviato un programma per insegnare a programmare ai bambini e ai ragazzi dagli otto ai quindici anni. In meno di tre anni, da questa scuola sono passati 14mila ragazzi «e ora stiamo insegnando loro codici di programmazione avanzati come Html5, Javascript, Css, affinché ognuno di questi ragazzi sia capace di programmare un app per smartphone».
In Ruanda, Aphrodice ha trovato un’amministrazione pubblica ricettiva e lungimirante, che ha compreso che non può lasciarsi alla spalle quel 50% della popolazione che ha meno di vent’anni e che ne sta facendo il motore del cambiamento. Nella Singapore africana, come è stata ribattezzata la repubblica subsahariana devastata dal genocidio del 1994 e da allora guidata da Paul Kagame,«per aprire un’azienda bastano sei ore, è tutto online ed è gratis, così come è gratis la scuola primaria, tra i 7 e i 16 anni».
«Internet è distribuita dalle grandi telco e da giganti come Google e Facebook che hanno fornito la fibra ottica in Ghana e in molti altri Paesi del continente. Per noi startupper è il mondo perfetto: abbiamo l’infrastruttura più veloce che esiste, un sacco di cose che mancano, e un sacco di problemi da risolvere»
Eyram, il videogame come nuovo storytelling africano
Lo stesso sta avvenendo in Ghana, più o meno, Paese in cui vive e lavora Eyram Tawia,di professione sviluppatore di videogiochi, che nel 2009, insieme all’amico keniano Wesley Kirinyatwo, ha fondato un’azienda che si chiama Leti Arts, che produce digital comics e videogiochi basati su eroi della cultura africana, catapultati nel XXI secolo:«Vogliamo usare lo storytelling per cambiare la percezione che l’Africa ha di sé», spiega. Seppur laureato alla Kwame Nkrumah University of Science and Technology di Kumasi, Eyram si definisce autodidatta: «Tutto viene dalle mie passioni d’infanzia per cose che erano prodotte da altre culture e di cui ero letteralmente dipendente. Sono cresciuto nel mito di Batman, Capitan America, Thor e la mia dipendenza per quel tipo di cultura, mi ha fatto capire quanto potesse essere importante provare a realizzare un’analoga operazione culturale in Africa». Oggi Eyram vende i suoi videogiochi in tutto il continente – l’ultimo è stato scaricato da 80mila persone – ma sta sviluppando da qualche anno anche giochi educativi su Hiv, Ebola, equità di genere, per sensibilizzare i giovani, attraverso la gamification, su alcuni problemi cruciali dell’Africa».
È un’eccellenza, Eyram, ma non un’eccezione: «In Ghana stanno nascendo un sacco di startup nel fintech, nell’agritech – racconta – E poi ci sono un sacco di coding club, incubatori e startup che organizzano corsi di programmazione per la popolazione». Sono l’innovazione dal basso e l’educazione non formale, insomma, che stanno spingendo il Paese lungo il sentiero dello sviluppo tecnologico: «Il governo ci crede, ha visione. Ma se devi aspettare la burocrazia del pubblico, stai fresco. Devi fare da solo, se vuoi che le cose siano fatte bene e come le vuoi».
Se il governo tentenna, il mondo non sta a guardare questo tumultuoso processo di sviluppo: «Internet è distribuita dalle grandi telco e da giganti come Google e Facebook che hanno fornito la fibra ottica in Ghana e in molti altri Paesi del continente – spiega -. Per noi startupper è il mondo perfetto: abbiamo l’infrastruttura più veloce che esiste, un sacco di cose che mancano, e un sacco di problemi da risolvere». Il futuro è radioso, almeno visto dai suoi occhi: «Se chiudo gli occhi e provo a immaginare l’Africa tra dieci anni, immagino un continente che comincerà a produrre la sua letteratura sulla rivoluzione digitale. Un Africa che venderà i suoi servizi e i suoi prodotti al mondo, mentre oggi avviene il contrario».
«La rivoluzione digitale ha cambiato la cultura dei Paesi africani perché i paesi africani sono giovani e hanno l’attitudine ad assimilare molto velocemente le cose. La cultura digitale è velocissima e noi siamo giovani e velocissimi»
Sename, l’urbanista-poeta che vuole cambiare le città del Togo
Architetto, antropologo, imprenditore sociale e poeta: così si definisce Sename Koffi Agbodjinou. Nato in Togo, si è laureato in architettura e design in Francia e subito dopo, nel 2012, è tornato in Togo per «cambiare le cose». Quel che ha trovato è un Paese quasi uguale a quello che aveva lasciato: molto povero, economicamente arretrato, vittima di una società arcaica e patriarcale, ma con «un cambiamento culturale nei giovani urbanizzati, che hanno compreso l’importanza delle nuove tecnologie». Senza alcun aiuto dal governo, in questo caso: «Il sistema educativo è molto scarso, non da strumenti per fronteggiare questo nuovo mondo. Gran parte del popolo vive nel passato e il governo non è interessato a cambiare la loro mentalità», riflette amaro.
Anziché puntare su app e smartphone, Sename ha avuto l’intuizione di fare l’hacker delle città. «Il nostro progetto urbano si chiama “Hubcité Africaine” – spiega – ed è un laboratorio in cui ognuno deve diventare l’hacker della propria città, sviluppando un’idea per cambiare i due chilometri che lo circondano». Racconta, Sename, di ex discariche abusive in cui si coltivano prodotti da agricoltura biologica. O del fab lab da lui creato, il primo ad aver sviluppato un progetto di stampa 3d in Africa, che lui interpreta come «un mezzo di produzione attorno al quale si genera una comunità». La chiave dello sviluppo africano, per lui come per tutti gli altri, sono le persone: «La rivoluzione digitale ha cambiato la cultura dei Paesi africani perché i paesi africani sono giovani e hanno l’attitudine ad assimilare molto velocemente le cose. La cultura digitale è velocissima e noi siamo giovani e velocissimi», spiega.
Lo spiega nel cuore di un’Europa vecchia e lenta. Un’Europa che dell’Africa vede solo una minaccia allo status quo e alla propria sicurezza sociale, che ragiona ancora con le lenti post-coloniali e paternaliste ottocentesche dell’“aiutiamoli a casa loro”. Miope di fronte al potenziale di un mercato da due miliardi di persone – grande come Cina e India messe assieme, a spanne – che si sta sviluppando a velocità notevoli. E che sta supplendo a molte delle sue carenze infrastrutturali con la formazione, con le tecnologie digitali e con gli ingenti investimenti che arrivano da economie molto più lungimiranti della nostra, dalla Cina che ne ha fatto il suo cortile di casa, all’India che manda i suoi programmatori a insegnare alle università, da Israele e Singapore che investono nei talenti, agli Stati Uniti che cablano tutto ciò che può essere cablato. Tra tutti i rimpianti che potremo avere tra qualche decennio, questo è quello che stiamo sottovalutando di più.