Le molte vite di François Mitterrand

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Di Rododak 

Da Alexis Tsipras, che si è fatto votare per combattere l’austerità cui in seguito si è arreso, la rivista Jacobin ci fa fare un viaggio all’indietro fino a François Mitterand, che trasformò il programma radicalmente riformista su cui era stato votato in un progetto neoliberista, improntato all’austerità, coerente con la nuova linea politica europea degli anni 80. Un viaggio alle radici di quello che si può considerare un vero e proprio tradimento dei propri ideali – ma soprattutto del proprio elettorato – da parte dei partiti della sinistra europea, che ha abbandonato il campo alla svolta neoliberista che flagella l’Europa e ha rilanciato ovunque i partiti di destra.  

di Jonah Birch

Hanno collaborato alla traduzione Carmenthesister, Francesca Medda e Margherita Russo

Prima di Alexis Tsipras, l’Europa ha distrutto le ambizioni riformiste di François Mitterand, trasformandole in un radicale programma neoliberale.

Nella storia della sottomissione della Grecia al capitale europeo, c’è un cast di cattivi apparentemente illimitato. Al vertice della lista si trova Angela Merkel e quel personaggio da eroe malvagio dei cartoni animati che è Wolfgang Schauble. Subito dopo vengono funzionari come Jeroen Dijsselbloem, presidente dell’Eurogruppo dei ministri delle Finanze, caricatura del tecnocrate in abito grigio.

Eppure, di tutte le persone che hanno la responsabilità di avere imposto l’ultimo Memorandum al popolo greco, poche hanno svolto un ruolo tanto riprovevole quanto il presidente francese François Hollande. Per mesi, Hollande ha insistito sulla necessità di un approccio nuovo alla crisi del debito europeo. Di fronte all’intransigenza tedesca, ha immancabilmente sostenuto in pubblico che non si doveva lasciare che la Grecia uscisse dall’Eurozona. Ad un certo punto, verso la fine di giugno, ha persino definito “accettabile” la controproposta di Alexis Tsipras per un nuovo accordo di salvataggio.

Tuttavia, alla fine, queste parole non hanno portato a nulla. Hollande, il “poliziotto buono”, è rimasto al fianco della Merkel e degli altri leader dell’Eurozona che spingevano Tsipras ad accettare un accordo di “compromesso” vincolato a condizioni devastanti per la già deteriorata economia greca.

Per l’estrema sinistra, questa faccenda meschina ha confermato, nel caso ci fossero dubbi, che tutte le voci sulle crescenti tensioni franco-tedesche sull’euro dello scorso anno non contavano nulla. E in fondo, come ci si sarebbe potuti aspettare qualcosa di diverso? Per quale motivo il governo francese, che ha fatto dell’austerità il pilastro del suo stesso programma economico, avrebbe dovuto guidare l’attacco contro l’austerità di altri paesi?

Le azioni del governo socialista di Hollande costituiscono un’ulteriore prova di quanto la carcassa della socialdemocrazia europea sia ormai putrefatta. A questo proposito, il ruolo sostenuto dal PS nello sventramento della democrazia greca non è stato certo unico nel centro sinistra europeo: proprio al contrario, i partiti laburisti e socialdemocratici sono stati per la gran parte saldamente schierati a sostegno della Merkel e di Schauble durante tutta la durata dei negoziati con la Grecia – il che si può dire in senso letterale nel caso di Sigmar Gabriel, leader del Partito Socialdemocratico tedesco (SPD), che rivestiva la carica di vicecancelliere nella grande coalizione guidata dalla Merkel.

Le promesse radicali di Mitterand

Tuttavia, il ruolo del Partito Socialista francese si distingue per un motivo diverso – non per ciò che il PS rappresenta ora, ma per ciò che è stato. Trentacinque anni fa, un governo guidato dal PS affrontò una situazione straordinariamente simile a quella affrontata da Syriza dopo la sua vittoria elettorale di gennaio. Che il partito di Hollande e Valls possa aver rappresentato una volta qualcosa di vagamente simile al partito greco della sinistra radicale, oggi potrebbe sembrarci strano. Tuttavia nel 1981, quando il leader del PS François Mitterrand entrò in carica come il primo presidente di sinistra nella storia della Quinta Repubblica, le speranze che ispirava erano simili a quelle generate da Syriza dopo la sua elezione a fine gennaio.

Anzi, le aspettative su Mitterand erano decisamente superiori rispetto a quelle che hanno accolto Tsipras all’inizio di quest’anno. Nella notte del 10 maggio del 1981, quando vennero annunciati i risultati finali del ballottaggio, per le vie delle città francesi esplosero i festeggiamenti. A Parigi decine di migliaia di persone si riunirono in Piazza della Bastiglia, dove cantarono e ballarono sino alle prime luci del mattino.

Cinque settimane dopo, la Sinistra consolidò il successo di Mitterand, vincendo la maggioranza dei seggi nell’Assemblea Nazionale alle elezioni politiche. Questo creò le basi per la formazione di un governo che (per la prima volta dal 1947) comprendeva anche alcuni ministri comunisti.

Dati gli avvenimenti dei tre decenni precedenti, risulta difficile immaginare quanto fosse significativa allora la vertiginosa ascesa della Sinistra agli incarichi di governo. Giungendo, come fu, quasi un decennio dopo le vane speranze del maggio 1968, e dopo i lunghi anni di governo della destra sotto la Quinta Repubblica, l’ascesa di Mitterand ispirò la diffusa convinzione che la Francia fosse diretta verso una rottura radicale con il capitalismo. L’agenda politica del nuovo presidente incorporava un ambizioso piano di riforme, riassunto nel suo programma elettorale, le famose “110 Proposte per la Francia”.

Con l’attuazione di questo programma, affermava Mitterand, il suo governo avrebbe accelerato una “rottura” con il capitalismo, e avrebbe gettato le basi per la “via francese al socialismo”.

Le origini di Mitterand non derivavano dall’estrema sinistra, ma dalle aree più moderate del socialismo repubblicano francese. Opportunista inveterato, il suo impegno sulle questioni di principio arrivava solo sino a quanto gli era consentito dalle ambizioni politiche personali.

Eppure il futuro presidente si era progressivamente spostato a sinistra nel corso della sua vita – dai suoi inizi giovanili come sostenitore del regime collaborazionista di Vichy, alla conversione alla Resistenza di sinistra, agli incarichi da ministro socialista moderato nei governi di breve periodo degli anni 50, alle sconfitte alle presidenziali del 1965 e 1974 e infine alla sua entrata nel PS nel 1971.

La sua carriera rispecchiava la progressiva evoluzione del socialismo francese nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale: negli anni 50 la sinistra socialista era rappresentata da una collezione frammentata di piccoli partiti parlamentari in gran parte marginali, apparentemente destinati a servire da partner minori in una serie infinita di governi di coalizione.

Solo due volte (per periodi di brevissima durata) durante i decenni che vanno dal Fronte Popolare all’elezione di Mitterrand, un rappresentante della Sinistra aveva ottenuto l’incarico di governo – e di quei governi, il mandato più lungo era stato quello di Guy Mollet, il cui ruolo di primo ministro è stato significativo soprattutto per la sua responsabilità nel massacro in Algeria e per l’invasione dell’Egitto del 1956 a fianco di Gran Bretagna e Israele. Dopo il ritorno al potere di Charles de Gaulle e l’istituzione della quinta Repubblica nel 1958, la sinistra era rimasta esclusa dal governo per più di due decenni.

Sotto la Quarta Repubblica, Mitterrand aveva ricoperto incarichi in una serie di governi di coalizione di breve durata – inclusi i due soli governi di sinistra dell’intera era postbellica: nel 1954 partecipò al gabinetto di Pierre Mendès France come ministro dell’ Interno, coprendo l’incarico finché il governo non cadde, un anno dopo. Poco dopo, entrò nuovamente nel governo, questa volta come ministro della Giustizia di Guy Mollet.

Le attività di Mitterrand come ministro durante questi anni sono state significative per il suo coinvolgimento nella repressione del movimento per l’indipendenza algerina. All’inizio del decennio, Mitterrand aveva manifestato chiaramente i suoi sentimenti sull’indipendenza algerina, quando aveva proclamato: “L’Algeria è Francia”. Come ministro della Giustizia sotto Mollet ordinò la proroga della legge marziale e approvò per quarantacinque volte condanne a morte.

Mitterrand più tardi si rammaricò del suo ruolo nella guerra della Francia, che alla fine costò la vita a un milione di algerini. Ma il suo coinvolgimento è stato indicativo del brutale nazionalismo coloniale che nel corso di questi anni ha segnato il movimento socialista francese nel suo complesso. Durante gli anni 60, la stigmatizzazione nei confronti della sinistra per la sua complicità nella guerra pregiudica seriamente la reputazione di leader socialisti come Mollet. Mitterrand, tuttavia, riuscì in gran parte ad evitare la macchia del massacro in Algeria.

Negli anni 70, il socialismo francese si stava trasformando. Nel 1969, le organizzazioni rappresentative della sinistra non comunista, molto frantumate, si riunirono per formare un Partito Socialista unificato. E al congresso del partito di Epinay, tenuto nel giugno del 1971, Mitterrand vi confluì insieme ai suoi sostenitori, e immediatamente riuscì a essere eletto come leader del partito.

Per Mitterrand, Épinay ha segnato la completa trasformazione da socialista repubblicano moderato a esponente della sinistra radicale. Rivolgendosi ai delegati riuniti al Congresso, Mitterrand cercò di rafforzare le sue credenziali anticapitalistiche, a un certo punto chiedendo retoricamente:

Riforma o rivoluzione? Voglio dire… sì, rivoluzione. E desidero chiarirlo subito… la lotta quotidiana per le riforme strutturali in sé può essere rivoluzionaria.

Ma quanto ho appena detto potrebbe essere un alibi se non aggiungessi questa seconda affermazione: violenta o pacifica, la rivoluzione è in primo luogo una rottura. Colui che non accetta la rottura – e il metodo che ne consegue – chi non è disposto a rompere con l’ordine stabilito… con la società capitalista, quella persona, io sostengo, non può essere membro del Partito Socialista.

Più tardi, in una conferenza stampa dopo il Congresso, il nuovo dirigente del partito socialista disse: “Puoi essere un gestore della società capitalista o il fondatore di una società socialista … Per quanto ci riguarda, vogliamo essere fondatori del socialismo”.

Il radicalismo del programma elettorale di Mitterrand del 1980 incarnava i frutti di questa evoluzione. Ma rifletteva anche l’influenza di un contesto politico in continuo cambiamento, in Francia e in Europa, negli anni 70. Così, da un lato, rifletteva il desiderio dei Socialisti di competere con il Partito Comunista (PCF), tradizionalmente  forza egemonica della sinistra francese, per numero di voti ed influenza, nonché l’impatto delle crescenti difficoltà economiche francesi nel dibattito politico nazionale.

Più in generale, era emblematico di una svolta a sinistra della socialdemocrazia dopo gli anni 60, nel mezzo di una crisi economica strisciante e dell’acuirsi della lotta di classe. Questa svolta si manifestò chiaramente nei partiti socialdemocratici in tutta Europa, poiché sempre più le forze di sinistra guadagnavano consensi in paese dopo l’altro – una dinamica che si vide, in questi anni, in tutto, dalla nascita del Bennismo nel Partito laburista britannico, ai piani adottati dai socialdemocratici svedesi per i fondi salariali per socializzare progressivamente l’industria privata.

In effetti, per molti versi, la vittoria di Mitterrand ha rappresentato il massimo risultato del radicalismo socialdemocratico del dopoguerra.

Ma se l’esperienza di Mitterrand riflette la radicalizzazione all’interno della socialdemocrazia europea negli anni 70, indica anche i limiti di quella radicalizzazione. A questo proposito, i primi anni della sua presidenza sono stati caratterizzati dal tentativo da parte sua di far fronte agli stessi tipi di vincoli che il governo di Syriza affronta oggi in Grecia.

L’Europa contro la Sinistra

Per capire questo punto, è importante comprendere il contesto del trionfo della Sinistra nel 1981. Mitterrand prende il potere in questo anno nel bel mezzo di una crisi di lungo periodo del capitalismo europeo. Questa crisi aveva colpito particolarmente la Francia. Di fronte alla crescente disoccupazione, alle crescenti pressioni inflazionistiche e all’attività imprenditoriale stagnante, il nuovo presidente promise di prendere misure drastiche per rilanciare l’economia francese.

A questo fine, Mitterrand propose ampie nazionalizzazioni dei gruppi industriali francesi, sempre meno competitivi, allo scopo di mantenere i livelli di occupazione e aiutare il processo di ricostruzione economica. Non voleva essere un esproprio del capitale francese, ma un acquisto indennizzato di imprese non redditizie, che in caso contrario sarebbero fallite.

Nel contesto della politica francese alla fine degli anni 70, il piano di nazionalizzazione del governo non era così radicale come potrebbe apparire in retrospettiva. Il capitalismo francese aveva infatti una lunga tradizione di pianificazione statale e di una crescita economica guidata dal governo.

Dopo la seconda guerra mondiale, una grande varietà di industrie era diventata di proprietà dello Stato. Nel 1946 il governo aveva istituito una commissione di pianificazione che produceva piani a lungo termine per guidare lo sviluppo economico: nel corso dei successivi quarant’anni, lo Stato produsse nove piani quinquennali. Anche fuori dal settore statale, le imprese dipendevano fortemente dal governo per l’accesso al credito; tra il 1969 e il 1981, lo Stato francese era responsabile di quasi la metà di tutti gli investimenti del settore privato.

Dopo la vittoria del 1981 di Mitterrand, migliaia di persone si radunarono in Place de la Bastille

Fondamentalmente, il piano di nazionalizzazioni di Mitterrand rappresentò un tentativo di rilanciare ed estendere il modello dirigista del dopoguerra. L’obiettivo non era quello di attaccare la proprietà privata, ma di facilitare la ristrutturazione economica e salvare la base industriale della Francia, che era in difficoltà. Il governo si aspettava un rapido miglioramento della situazione economica globale, che credeva avrebbe aiutato a ripristinare la salute delle imprese non redditizie. Volevano anche sovvenzionare l’attività economica, generando un disavanzo nei conti pubblici.

Tirando le somme, questo era un programma economico keynesiano, non una sfida socialista contro le prerogative del capitale. Eppure, nell’attuazione di questo programma, Mitterrand andava a toccare i limiti di quello che il capitalismo europeo era disposto a tollerare. Di conseguenza, il suo governo si trovò presto a dover affrontare un dilemma – se procedere con la sua agenda economica iniziale, a fronte delle crescenti difficoltà e ostilità da parte degli interessi del mondo imprenditoriale o se abbandonare il suo programma di reflazione keynesiana.

Le difficoltà incontrate dal partito socialista furono esacerbate dall’adesione della Francia al sistema monetario europeo (SME), il precursore della zona euro. Agganciando il franco francese al marco tedesco, lo SME limitò la capacità del governo di adattare la politica monetaria per soddisfare le esigenze macroeconomiche del paese.

Alla fine, Mitterrand si trovò in una posizione in cui doveva decidere se abbandonare lo SME e potenzialmente perdere l’accesso al sistema finanziario globale o abbandonare le proprie ambizioni di riformismo. La decisione da prendere era così rigida, che Mitterrand arrivò a dire: “Sono diviso tra due ambizioni: costruire l’Europa o costruire la giustizia sociale”.

Alla fine Mitterrand scelse la strada della capitolazione, che lo portò alla famosa svolta del suo governo, nel 1982-83, verso il rigore, o austerità. Le ripercussioni di questa decisione si sentono ancora oggi. Il suo dietrofront e il suo successivo spostamento a destra hanno fatto precipitare il processo a lungo termine di privatizzazione e la ristrutturazione neoliberale del capitalismo francese; e contemporaneamente, hanno portato alla trasformazione del Partito socialista in un agente del mercato.

Peggio ancora, la svolta a U di Mitterrand ha posto le basi per la crescita della destra; è stato nel 1983 che il Fronte Nazionale (FN) di Jean-Marie Le Pen ha raggiunto il suo primo successo elettorale, nelle elezioni locali della città suburbana di Dreux. Solo un anno dopo, il FN ha fatto il suo grande passo avanti nelle elezioni europee del 1984.

Alla fine del decennio, il FN – un partito che era stato così marginale solo pochi anni prima che Le Pen non era nemmeno riuscito a raccogliere abbastanza firme per concorrere alla presidenza – otteneva percentuali di voto a due cifre. Oggi, la figlia ed erede politica di Jean-Marie, Marine Le Pen è posizionata in cima ai sondaggi per le elezioni presidenziali del 2017, poiché gli elettori disillusi dai fallimenti economici di Hollande e dalle riforme impopolari del mercato del lavoro si sono sempre più rivolti al FN.

Anni tutt’altro che gloriosi

Per comprendere i fattori che hanno fatto precipitare la capitolazione di Mitterand, per cominciare dobbiamo guardare alle condizioni in cui si trovava il capitalismo francese negli anni 70. Questo decennio ha segnato la fine della lunga fase di crescita e di piena occupazione del dopoguerra, nota in Francia come i Trente glorieuses (“I trent’anni gloriosi”, ndVdE).

Di conseguenza, gli anni dopo il 1974 videro un generale rallentamento dell’attività economica, con una caduta degli investimenti e del tasso di profitto e un ristagno della crescita della produttività. Mentre all’inizio e sino alla metà degli anni 70 i lavoratori potevano ancora assicurarsi aumenti significativi del salario reale, dopo il 1974 la disoccupazione (quasi inesistente all’inizio del decennio) cominciò ad aumentare in maniera costante.

Il peggioramento dell’economia francese rifletteva una più generale tendenza del capitalismo europeo; venendo meno le condizioni favorevoli dell’ “età dell’oro” del dopoguerra, i politici del continente dovettero confrontarsi con problemi come la disoccupazione crescente, l’inflazione in aumento e il rallentamento della produttività.

In Francia, i governanti risposero con politiche economiche altalenanti; prima con tentativi di rivitalizzare l’economia spendendo in deficit, poi tornando al rigore di bilancio, per poi cambiare ancora direzione.

Queste condizioni si rivelarono una manna per la sinistra francese. A lungo dominata dal potente Partito Comunista, la sinistra era rimasta profondamente divisa sino alla metà degli anni sessanta, da una parte il PCF, grande ma isolato politicamente, e dall’altra le forze minoritarie del socialismo francese. Alla fine degli anni settanta, i comunisti contavano ancora più di mezzo milione di iscritti. Il partito disponeva di un potente bacino elettorale a livello nazionale: conquistando regolarmente tra un quinto e un quarto dei voti alle elezioni legislative fin dal 1969 (anche se questi numeri si erano andati leggermente riducendo dagli anni cinquanta), il candidato del partito alle presidenziali Jacques Duclos era riuscito a raccogliere più del 21 % (quasi 5 milioni di voti) al primo turno delle elezioni presidenziali.

Ma la vera forza elettorale del PCF era a livello locale, dove controllava molti comuni in cui prevaleva la classe operaia e un certo numero di grandi città. Al culmine del suo potere locale, nel 1977, il PCF governava 72 amministrazioni comunali con oltre 30.000 abitanti, su 221.

Inoltre i comunisti esercitavano un’enorme influenza sul movimento sindacale grazie ai loro legami cone la Confederazione Generale del Lavoro (CGT), il più grande sindacato francese. La CGT era un sindacato a esplicita guida comunista, che si atteneva strettamente alla linea del PCF su tutte le questioni interne e internazionali (rendendosi così oggetto di larghe critiche nel contesto della guerra fredda). Alla fine degli anni 70, aveva più di due milioni di membri – un numero impressionante data l’assenza di accordi vincolati (“closed shop”, ovvero accordi aziendali che comportano l’obbligo di appartenenza a un sindacato, ndVdE) nel sistema di relazioni industriali della Francia – ed era particolarmente radicato nei settori della manifattura e dell’industria pesante.

Mentre i comunisti avevano tradizionalmente rappresentato l’ala più militante del movimento sindacale francese, dopo il Maggio ’68 non fu più così. Molti lavoratori più giovani, spostatisi verso posizioni più radicali nei giorni entusiasmanti del Maggio francese, avevano cominciato a vedere la CGT come conservatrice e burocratizzata – come degli stalinisti antidemocratici senza alcuna visione su come rifondare una società gerarchizzata e senza alcun interesse per la democrazia nei posti di lavoro.

Alla fine degli anni 60 e 70, molti di quei lavoratori erano entrati nella Confederazione Democratica del Lavoro francese (CFDT), la seconda più grande confederazione sindacale della Francia, che aveva sviluppato stretti legami col PS. Dopo il 1968 la CFDT stava gravitando a sinistra, sposando proposte di autogestione, democrazia industriale e anche progettazione urbana.

La CFDT in quegli anni si costruì una reputazione di militanza, lanciando molti scioperi grandi e audaci. Politicamente, la CFDT aveva cominciato a impegnarsi in una forma di “sindacalismo per la lotta di classe”, dichiarando, per esempio, in una risoluzione passata al suo congresso del 1977, che “non ci può essere nessuna tregua nella lotta di classe; la CFDT rifiuta di moderare le sue richieste e ogni idea di pace sociale”.

Mentre la dirigenza sindacale alla fine si sarebbe mossa contro gli elementi più radicali tra i suoi membri, la CFDT era molto più aperto alla sinistra rivoluzionaria non comunista di quanto lo fosse la CGT. In effetti nella seconda metà degli anni 70 la CFDT aveva abbracciato un’agenda ideologica decisamente anticapitalista, con la stessa risoluzione del Congresso del 1977 che presentava questa valutazione della crisi del capitalismo francese:

Il sistema capitalista è profondamente scosso, ma non sarà condannato irreparabilmente. Nessuno può prevedere gli esiti della crisi. Non ci sarà né determinismo né auto-correzione. Tra autoritarismo e socialismo democratico autogestito, così come tra tutte le soluzioni intermedie, non è stato ancora deciso nulla.

Alla fine degli anni 60 i rapporti tra PCF e PS, e tra CGT e CFDT, erano caratterizzati da profonda diffidenza da entrambe le parti. Si dice che lo stesso Mitterrand fosse stato ostile ai comunisti fin dai tempi della resistenza francese. Ma capiva anche che l’unico modo per far rivivere le sorti della sinistra – e, in concomitanza, le sue sorti – era attraverso un’alleanza elettorale con il PCF.

A questo fine, guidò le trattative con i comunisti su quello che divenne il “Programma comune” del 1972, una piattaforma per un’alleanza elettorale della sinistra unita. Concentrandosi su una serie di riforme radicali tra cui estese nazionalizzazioni, espansione dello stato sociale e rafforzamento dei diritti sindacali, il programma comune riflette le crescenti ambizioni riformiste della sinistra francese negli anni 70.

Il Programma comune catturò l’immaginazione dell’intera sinistra. Non era un programma rivoluzionario, ma un programma di riforme. Tuttavia, il suo scopo non era semplicemente quello di rattoppare il sistema esistente, ma di gettare le basi per il socialismo. A questo scopo, il programma comune era volto a conquistare i vertici del capitalismo francese.

Come indicato nel documento stesso, si voleva “spezzare il dominio del grande capitale e attuare una nuova politica economica e sociale” al fine di “realizzare gradualmente il trasferimento alla comunità dei più importanti mezzi di produzione e degli strumenti finanziari attualmente nelle mani dei gruppi capitalisti dominanti “.

La firma della Piattaforma comune segnò l’inizio di un mezzo decennio di cooperazione elettorale tra i comunisti e il partito socialista. Ma non pose fine al conflitto tra i due partiti. Mitterrand non esitò mai a manifestare il suo desiderio di strappare voti al PCF, commentando ad un certo punto in riferimento al Programma comune:

Il nostro obiettivo fondamentale è quello di ricostruire un grande partito socialista sul terreno occupato dal PC stesso, per dimostrare che dei 5.000.000 elettori comunisti 3.000.000 possono votare i socialisti. Questo è il motivo di questo accordo.

I comunisti, d’altra parte, non erano mai ben sicuri su come prendere Mitterrand: da un lato, il leader socialista offriva loro la legittimità fornita da un accordo elettorale e le prospettive di posizioni ministeriali in un governo di coalizione. Dall’altro, non nascondeva il suo desiderio di appropriarsi della base del PCF.

Mentre Mitterrand era sempre molto chiaro riguardo al suo obiettivo di sostituire il PCF come forza principale della sinistra francese, i comunisti erano incerti su come rispondere alle sue offerte. Le tensioni tra i due partiti si conclusero nel 1977, in seguito a una radicale vittoria della sinistra nelle elezioni municipali.

Con le elezioni parlamentari del 1978 all’orizzonte e di fronte alle diffuse speranze che la sinistra emergesse con una maggioranza parlamentare, il PCF sfruttò una serie di disaccordi su diverse questioni politiche come occasione per rompere l’alleanza. Questo scandalizzò molti elettori di sinistra e consolidò il ruolo del PS come partito dell’unità della sinistra.

Nondimeno, quando Mitterrand si candidò alla presidenza nel 1981 i comunisti capirono da che parte soffiava il vento. Una volta che il loro candidato venne sconfitto al primo turno, diedero il loro sostegno a Mitterrand. E nelle elezioni legislative tenute poco dopo, ebbero il primo assaggio di ciò che l’ascesa al potere della sinistra aveva portato loro: nonostante la maggioranza assoluta ottenuta dalla sinistra alle elezioni, fu il PS a prendere tutti i seggi in più – in effetti, il PCF in realtà in quelle elezioni perse supporto cedendolo ai socialisti. Non avrebbe mai più recuperato il terreno perduto.

Un fronte unito

La vittoria di quest’alleanza comunisti-socialisti nel 1981 galvanizzò la sinistra. Ma quando il nuovo governo subentrò in carica, si trovò a fronteggiare una situazione economica molto cupa. La disoccupazione era in costante aumento: raggiunse il 6,3% nel 1980 e il 7% l’anno successivo. L’inflazione, che già negli anni 70 si aggirava mediamente intorno a un preoccupante 9%, nel 1980 superò il 12%. Gli investimenti e la produttività erano stagnanti. Il deficit commerciale della Francia si era gonfiato a livelli insostenibili, mettendo sotto forte pressione il valore del franco francese.

Mentre cercava di attuare il suo programma di reflazione economica per far fronte agli effetti della crisi, Mitterrand era ostacolato da una serie di fattori.

Per prima cosa, la Francia all’inizio degli anni 80 si trovò di fronte a un ambiente economico globale particolarmente sfavorevole. La recessione che aveva inghiottito il mondo capitalista avanzato nel 1979 aveva martellato il settore industriale già indebolito della Francia, paralizzando industrie tradizionalmente importanti come quella dell’acciaio.

Inoltre, gli effetti della recessione erano acuiti dalla politica di alti tassi di interesse del Tesoro americano, dato che la Federal Reserve cercava di mettere in atto un rallentamento che avrebbe finalmente potuto mettere l’inflazione sotto controllo (una politica nota come “Volcker Shock”, dal nome del presidente del Fed, Paul Volcker).

Lo scossone dato dal Volcker Shock portò non solo a un forte declino dell’economia statunitense (insieme al crescente deficit pubblico che l’amministrazione Reagan continuò poi a perseguire), ma anche ad effetti a catena in tutta l’Europa occidentale. Con il dollaro ai massimi storici, anche altri paesi si diedero rapidamente da fare per sgonfiare le proprie economie, al fine di evitare che le loro valute perdessero valore rispetto al dollaro.

In Europa, la potenza economica più importante era quella della Repubblica Federale Tedesca. E l’istituzione più importante del capitalismo tedesco era la potente Bundesbank, che tradizionalmente tendeva ad attuare politiche monetarie tese a contrastare le pressioni inflazionistiche. Sulla scia della controparte americana, le politiche tedesche crearono artificialmente una forte recessione nel 1980-81.

Gli effetti di queste politiche deflazionistiche si fecero sentire in tutta Europa, e in particolare in Francia. Con il rapido aumento del valore del dollaro e del marco tedesco, anche i prezzi per importare le merci denominate in quelle valute aumentarono. Dal momento che la Francia dipendeva fortemente dalle importazioni per molti beni di prima necessità (incluso l’80% del suo fabbisogno energetico) e che il 37% delle importazioni totali erano espresse in dollari, l’aumento vertiginoso del cambio del dollaro mise a dura prova l’economia francese.

Allo stesso tempo, nel contesto delle politiche reflazionistiche perseguite dal governo di Mitterrand, la deflazione negli Stati Uniti e in Germania intensificò le pressioni al ribasso sul franco.

Per questo motivo Mitterrand intervenne, e si trovò a chiedere a Ronald Reagan di alleviare la pressione sul franco in occasione di un vertice economico tenutosi a Versailles nel giugno 1982. Riducendo la spesa pubblica, l’amministrazione Reagan avrebbe potuto contenere la domanda di dollari e alleviare così le pressioni sul franco.

Quando Reagan non accettò, il governo francese fu costretto a intraprendere quella che sarebbe stata la sua seconda svalutazione del franco. Ma per quanto Mitterrand denunciasse le politiche deflazionistiche dei governi americano e tedesco, poteva fare ben poco per cambiarle.

A limitare la libertà di manovra dei funzionari francesi era anche l’appartenenza della Francia al Sistema Monetario Europeo. Lo SME era un sistema di cambi negoziato dal Presidente francese Giscard d’Estaing e dal cancelliere tedesco Helmut Schmidt alla fine degli anni 70. Era stato progettato per garantire che il valore del franco e del marco tedesco rimanessero entro determinati parametri, attraverso il meccanismo che agiva sul tasso di cambio (ERM).

Una delle speranze di Giscard nel creare lo SME era di incoraggiare i funzionari francesi ad aderire alle politiche monetarie responsabili, ovvero rigide, da lui preferite.

Legando il franco al marco tedesco, lo SME avrebbe limitato lo spazio di manovra dello Stato nell’aumentare la spesa: poiché il valore del franco doveva rimanere ad un tasso abbastanza alto da mantenere l’aggancio al marco, i governi futuri sarebbero stati costretti ad evitare politiche che avrebbero potuto erodere troppo la posizione monetaria del franco. Invece di misure espansive per aumentare la crescita dei posti di lavoro e dei salari, i governi avrebbero dato priorità alla stabilità dei prezzi e alla competitività.

Alla fine, la mossa di Giscard si rivelò efficace. Dopo la svolta verso l‘austerità del governo nel 1982-83, Mitterrand fu convinto dal suo allora ministro delle finanze (e futuro commissario europeo) Jacques Delors ad adottare una politica del “franco forte”, in cui la moneta francese sarebbe stata volutamente sopravvalutata per garantire la stabilità monetaria e contrastare le pressioni inflazionistiche. Il risultato fu un decennio di alta disoccupazione, che durò fino agli anni 90.

Trionfo e tragedia

Tutto ciò comunque sarebbe avvenuto dopo. I primi giorni della presidenza Mitterrand furono caratterizzati dall’eccitazione generata dai suoi sforzi per attuare le politiche esposte nelle “110 Proposte“.

A partire dal giugno 1981, Mitterrand supervisionò la nazionalizzazione di dodici gruppi industriali, trentasei banche e due società finanziarie. In totale, alla fine dell’anno, le imprese controllate dallo Stato rappresentavano l’8% del Pil. Le nuove imprese nazionalizzate impiegavano oltre mezzo milione di lavoratori, ovvero il 2,5% della forza lavoro totale. Le banche nazionalizzate detenevano ora il 90% di tutti i depositi.

Alla fine del 1981, il governo controllava poco meno dell’intero settore finanziario. Nel frattempo, i sussidi statali per l’industria erano aumentati nettamente: nel complesso, nel 1981, gli aiuti di Stato alle imprese private fecero un salto che li portò a 100 milioni di franchi, ovvero il 3,5% del Pil.

Mitterrand entrò ufficialmente in carica il 21 maggio 1981

Insieme a questo programma di nazionalizzazioni e sussidi governativi, il governo Mitterrand aumentò anche la spesa pubblica, soprattutto attraverso una importante espansione dello stato sociale. Il deficit pubblico passò dallo 0,4% al 3% del Pil tra il 1980 e il 1983 e la spesa pubblica complessiva – soltanto nel 1981 e 1982 – aumentò dell’11,4%. Le forme di pensionamento anticipato sponsorizzate dal governo per pagare l’uscita dal mondo del lavoro dei lavoratori più anziani furono ampliate e l’età pensionabile fu ridotta da sessantacinque a sessanta anni. Nel frattempo, le pensioni minime aumentarono del 20% e gli assegni familiari furono aumentati del 25%.

Nel giugno 1981, il governo aumentò il salario minimo legale francese (SMIC) del 10%. Nel corso degli anni 1981-82, lo SMIC fu aumentato di quasi il 40%. In totale, da aprile 1981 a luglio 1982, il salario minimo fu aumentato dell’11,4 % in termini reali. Questo aumento del salario minimo superò la crescita della mediana degli stipendi, aumentata del 5,2% nello stesso periodo.

Nel gennaio 1982 la settimana lavorativa standard nel settore privato fu ridotta da quaranta a trentanove ore, mentre il governo stabilì l’obiettivo di arrivare alle trentacinque ore entro il 1985. In aggiunta, fu introdotta una quinta settimana di ferie pagate obbligatoria. Nel complesso, le ore medie di lavoro dei dipendenti tra il 1981 e il 1983 diminuirono del 3%. Ancora, fu ampliato il settore dell’impiego pubblico, con l’assunzione di 200.000 nuovi dipendenti dell’amministrazione.

Nel frattempo, i diritti sindacali furono ampliati, in particolare attraverso la legge Auroux del 1982 , che richiedeva trattative annuali tra datori di lavoro e rappresentanti sindacali. La legislazione aumentò i diritti sindacali in fabbrica e cercò di stabilire forme più efficaci di rappresentanza sul posto di lavoro per dare ai dipendenti più voce nelle decisioni sulla produzione.

Le tasse furono aumentate in misura significativa. La tassazione in Francia è incentrata sulle imposte sui salari, che pagano l’enorme sistema di sicurezza sociale del paese. Nel 1982 la sicurezza sociale rappresentava circa un quarto del Pil, una cifra che rifletteva ben oltre un decennio di continua crescita, provocato dall’aumento della disoccupazione, dal ricorso diffuso ai programmi di prepensionamento e dall’estensione della copertura della disabilità. Molti dipendenti furono in grado di andare in pensione con una pensione mensile pari al 100% o più del loro stipendio.

Per finanziare queste spese sociali, il carico fiscale sui datori di lavoro era già stato aumentato considerevolmente prima di Mitterrand, ma durante il suo governo questa si rivelò essere una delle principali cause della disaffezione da parte dei datori di lavoro.

Queste misure ebbero un’opposizione significativa da parte del mondo imprenditoriale. Mentre i datori di lavoro non ebbero nulla da obiettare sulle nazionalizzazioni, si infuriarono per la crescita della spesa, e soprattutto per i  nuovi diritti sindacali introdotti dal nuovo governo. Questo esasperò quello che era diventato un problema cronico di fuga di capitali. Il fenomeno era stato una costante fonte di preoccupazione per l’amministrazione dello Stato già da prima che il governo Mitterrand entrasse in carica; tra febbraio e maggio 1981, la Francia aveva sperimentato una fuga di capitali arrivata a un totale di circa 5 miliardi di dollari.

Al momento di entrare in carica, Mitterrand cercò di rassicurare il capo della principale federazione dei datori di lavoro francese, con queste parole: “I francesi hanno votato il Programma Comune. Sarà applicato come lo volevano. Questo sarà uno dei modi per porre fine alla lotta di classe. Vogliamo sviluppare un’economia mista. Non siamo dei rivoluzionari marxisti-leninisti “. Tuttavia, gli investimenti non aumentarono mai nel corso dei primi due anni del governo in carica, né la fuga di capitali si fermò.

L’opposizione crescente da parte del mondo delle imprese al suo programma fu solo uno degli aspetti della reazione di destra che accolse la sinistra durante i suoi primi due anni al potere. Durante questi anni, il governo dovette affrontare proteste continue da parte di una moltitudine di raggruppamenti: i piccoli imprenditori furenti per l’aumento del costo del lavoro e l’imposizione di nuove restrizioni normative; i camionisti, arrabbiati per i tentativi di imporre maggiori dazi sulle importazioni; gli agricoltori, preoccupati per l’afflusso di prodotti agricoli a basso costo; i cattolici, mobilitati in gran numero contro la promessa riforma del sistema dell’istruzione, che avrebbe portato alla creazione di un sistema scolastico pubblico del tutto laico.

Tuttavia, la maggior preoccupazione per il governo Mitterrand furono le crescenti difficoltà economiche che dovette affrontare, in particolare la sua incapacità di fermare l’inflazione o impedire la crescita del deficit della bilancia dei pagamenti francese. Quando un paese si ritrova con un deficit della bilancia dei pagamenti, significa che sta comprando più dall’estero di quanto esporta – nel caso della Francia, il deficit commerciale schizzò alle stelle, da 56 miliardi di franchi nel 1981 a 93 miliardi nel 1982.

L’aumento del disavanzo commerciale della Francia era un risultato diretto del programma economico di Mitterrand, che aveva dato un enorme impulso al consumo: il reddito familiare netto, ad esempio, era aumentato di oltre il doppio del tasso di crescita della produttività negli anni 1981-82. In linea di massima, i consumatori francesi avevano usato quel denaro extra per acquistare merci straniere. Di conseguenza, in quegli anni le importazioni di automobili aumentarono del 40% e gli acquisti di apparecchi elettrici prodotti all’estero aumentarono del 27%.

Con l’aumento della produzione, la produttività stagnante e le importazioni sempre più costose a causa dell’aumento del valore del dollaro, l’inflazione iniziò ad andare fuori controllo. Nel 1982 il tasso di inflazione balzò al 12,6%.

Come conseguenza, per il governo fu impossibile evitare ripetute svalutazioni. La prima svalutazione fu nell’ottobre del 1981, dopo mesi di continue pressioni sul franco. Con la Banca Centrale incapace di sostenere il valore della moneta attraverso le opzioni politiche esistenti, per esempio un rafforzamento dei controlli sui capitali, e le riserve in valuta estera esaurite, il governo decise di non avere altra scelta che svalutare.

Eppure questo non allentò le pressioni sul franco. Così nel giugno 1982, dopo mesi di continua fuga di capitali, il governo fu costretto ad annunciare un’altra svalutazione – che questa volta sarebbe stata sostenuta da un congelamento di quattro mesi di salari e prezzi. La spesa pubblica fu tagliata per 20 milioni di franchi e il governo annunciò che in futuro il deficit pubblico sarebbe stato limitato al 3% del Pil.

La decisione di svalutare, nell’estate del 1982, era motivata da preoccupazioni per gli effetti inflazionistici dell’aumento dei salari. Nel primo trimestre di quell’anno, i salari reali erano cresciuti del 4,2%, mentre l’inflazione era aumentata all’1,2%. Ma l’effetto di questa svalutazione fu di porre sostanzialmente fine al periodo iniziale di politiche economiche reflazionistiche del governo.

All’interno del governo c’erano forti differenze di posizione su come rispondere alle pressioni sul franco. L’ala sinistra del partito socialista, rappresentata dal ministro dell’Industria Jean-Pierre Chevènement, voleva continuare con l’agenda riformista del governo. Questa posizione era sostenuta dai ministri comunisti, la cui influenza era limitata. Sostenevano che, uscendo dallo SME, il governo sarebbe stato in grado di procedere con la ricostruzione economica senza l’ostacolo dei vincoli imposti dalla finanza internazionale.

Questa opzione alternativa avrebbe richiesto che fossero imposti controlli più severi sui capitali e avrebbe portato il governo in rotta di collisione con il mondo imprenditoriale. La Francia sarebbe stata probabilmente tagliata fuori dai mercati internazionali del credito e finanziari e, come minimo, il costo dell’indebitamento sarebbero salito ancora di più. Avrebbe inoltre limitato l’accesso dei consumatori ai beni di consumo di origine straniera e avrebbe potuto richiedere l’introduzione di controlli ancora più stringenti sui salari e sui prezzi.

Allo stesso tempo, avrebbe potuto consentire al governo di continuare con il suo programma redistributivo ed evitare la distorsione della distribuzione economica che fu provocata dalla svolta verso l’austerità.

Per gli elementi più di destra del governo, tuttavia, questa strategia sarebbe stata un disastro. Intorno a Mitterrand, tutta una serie di voci influenti consigliavano moderazione di fronte alle crescenti difficoltà economiche con cui doveva confrontarsi il capitalismo francese. Questi personaggi, capeggiati dal ministro delle finanze Jacques Delors e dal ministro dell’Economia Laurent Fabius , sostenevano che, date le circostanze, una marcia indietro rispetto alle ambizioni riformiste del governo era l’unica scelta possibile.

Sostenuti da un certo numero di importanti consulenti economici, i due insistevano sul punto che svalutazione e deflazione erano essenziali per evitare il collasso del franco. L’uscita dallo SME non avrebbe solo limitato l’accesso dello Stato ai mercati finanziari globali, insistevano, ma avrebbe anche esacerbato le pressioni inflazionistiche, poiché il prezzo delle importazioni sarebbe rapidamente aumentato e i produttori francesi non sarebbero stati in grado di soddisfare il conseguente aumento della domanda.

Nell’autunno del 1981, questi modernizzatori economici all’interno dei ranghi più importanti del PS avevano già iniziato a enunciare apertamente le loro richieste di abbandonare la reflazione, con Delors che rendeva pubblico il suo sostegno a una “pausa” nel programma riformista del governo, per permettere alla svalutazione di funzionare. Nel corso dell’anno successivo, i fautori di un cambiamento nella politica economica all’interno del governo diventarono sempre più espliciti. Questa corrente godeva del sostegno del primo ministro Pierre Mauroy, che condivideva le loro preoccupazioni sugli effetti dell’inflazione galoppante e sull’aumento del debito estero.

Come disse Mauroy nel gennaio 1983: “Vogliamo che i salari aumentino più lentamente dei prezzi. per ridurre il potere d’acquisto dei consumatori e aumentare la redditività”.

Nel marzo 1983 il gioco venne allo scoperto: Mitterrand approvò drastiche misure di austerità, insieme a una terza svalutazione del franco. La spesa pubblica fu ridotta e il governo impose aumenti delle tasse per un valore di 40 miliardi di franchi a lavoratori e consumatori, riducendo nel contempo gli oneri per le imprese. I salari vennero deindicizzati rispetto ai prezzi e l’eventuale aggiustamento della contingenza venne limitato all’8% per l’anno successivo.

Cosa non ha funzionato?

Sarebbe sbagliato concludere che l’inversione a U di Mitterrand sia stata il risultato di un semplice fallimento del suo programma keynesiano. In effetti, il programma economico espansivo del suo governo era riuscito a impedire una contrazione molto maggiore dell’economia francese, nel mezzo della recessione globale dei primi anni 80.

Secondo una stima, l’evoluzione della politica fiscale in Francia fu responsabile del rilancio della crescita economica dell’1,5%, mentre la politica di contenimento fiscale del governo tedesco ridusse i tassi di crescita di quasi il doppio. Dal 1981-1983, la disoccupazione in Francia aumentò solo dell’1,9 %, contro il 5 % in Germania e il 4,2 % in tutta la CEE.

Allo stesso tempo, il governo di Mitterrand non riuscì a fermare il declino dell’industria francese.

I principali produttori industriali continuarono a perdere soldi e quote di mercato, e la loro incapacità di riguadagnare competitività mise lo Stato in una situazione di crescente difficoltà. La nazionalizzazione era stata uno strumento per proteggere i posti di lavoro e facilitare la ristrutturazione nel contesto di una recessione economica globale. Ma con il protrarsi della crisi del capitalismo globale, lo Stato si trovò in difficoltà nel coprire perdite sempre maggiori per mantenere solvibili le imprese non redditizie.

Fu così costretto a fornire enormi quantità di capitale per impedire di andare in bancarotta ai produttori di qualsiasi cosa, dalle automobili alle sostanze chimiche. Inoltre, i gruppi industriali di proprietà statale che erano stati rilevati nel 1981-82 si trovavano in gravi difficoltà. Nel 1982, solo due delle dodici imprese appena nazionalizzate producevano profitti; le perdite totali di queste imprese quasi triplicarono nel 1983, quando raggiunsero i 2,6 miliardi di dollari (rispetto ai 900 milioni di due anni prima). Né il quadro era migliore nelle imprese già da tempo statali, che nel 1982 persero complessivamente 21,4 miliardi di franchi, mentre solo due anni prima avevano generato un utile netto.

Queste difficoltà riflettevano un dilemma fondamentale di fronte a cui si trova qualsiasi governo riformista che va al potere nel mezzo di una crisi economica. Sotto la pressione di dover supportare l’indebolimento delle industrie per mitigare il declino economico e l’aumento della disoccupazione, un governo di questo tipo dovrà sostenere i costi necessari a mantenere solvibili le industrie non redditizie. Ma questo onere finanziario può mettere a dura prova il bilancio di uno Stato, limitando la sua capacità di sostenere  altri tipi di misure di riforma.

Come ha scritto lo scienziato politico americano Adam Przeworski:

L’abbandono del riformismo è una diretta conseguenza delle riforme che sono state compiute. Poiché lo Stato è impegnato quasi esclusivamente in attività che non sono redditizie dal punto di vista privato, è privato delle risorse finanziarie necessarie per continuare il processo di nazionalizzazione.

Queste difficoltà furono esacerbate dalla costante resistenza nei confronti dell’agenda di Mitterrand all’interno dello Stato: in particolare, il potente ministero delle Finanze diventò un centro di opposizione alla direzione statale dell’economia. Allo stesso tempo, lo Stato dovette combattere per garantire che la gestione delle imprese nazionalizzate desse un esempio delle sue priorità economiche – in parte anche perché non riusciva decidere se le industrie statali dovessero essere gestite autonomamente o essere sottoposte alla supervisione dei funzionari ministeriali.

Questa incertezza non era semplicemente il risultato contingente dell’indecisione o confusione all’interno dello Stato; era emblematica di un problema più basilare che affliggeva l’agenda economica del governo Mitterrand. Lo stato capitalista aveva potuto sovraintendere a una pianificazione limitata nell’ambiente favorevole dei gloriosi trenta, ma si rivelò uno strumento inadeguato per realizzare la più ambiziosa agenda di pianificazione di Mitterrand. Di conseguenza, la politica industriale del governo non produsse mai i risultati che inizialmente il governo aveva sperato.

Nel frattempo, il franco continuava a scivolare rispetto ai suoi concorrenti più vicini. Tra l’elezione di Mitterand nel 1981 e la sua inversione di marcia nel 1983, la moneta perse il 27% del suo valore originale rispetto al marco tedesco. All’inizio del 1984, ci volevano 8,6 franchi per comprare un solo dollaro americano – più del doppio del tasso di cambio di tre anni prima, quando per comprare un dollaro ci volevano solo 4,2 franchi.

In questo contesto, il governo decise che la reflazione non era più possibile. Decise di invertire la rotta e cercare di combattere la crescita dell’inflazione. Come si espresse Mauroy nell’aprile del 1983:

Voglio cambiare le abitudini di questa nazione. Se i francesi si rassegnano a vivere con un’inflazione del 12%, allora è bene che sappiano  che, a causa della nostra interdipendenza economica con la Germania, finiremo in una situazione di squilibrio. La Francia deve sbarazzarsi di questa malattia dell’inflazione.

Per capire perché il programma economico di Mitterrand prese questo verso, è importante riconoscere che il problema di fondo non erano solo le carenze dell’industria francese o la sfavorevole situazione internazionale che i socialisti dovevano affrontare quando arrivarono al potere (benché questi fossero fattori importanti). La questione più profonda era la mancanza di fiducia da parte delle imprese, che si manifestava in tassi di investimento cronicamente bassi e in una costante fuga di capitali. Come Delors avrebbe più tardi argomentato :

Dal momento che la crescita è stata stimolata da una domanda interna più forte rispetto ai paesi vicini, abbiamo attirato le importazioni. Sarebbe stato diverso se i nostri impianti di produzione fossero stati in grado di rispondere. Ma non è stato così, per un semplice motivo: negli anni che precedettero l’arrivo della sinistra al potere, gli investimenti produttivi avevano fatto progressi insufficienti. . . Aggiungo che ai dirigenti aziendali questo cambio di governo non è piaciuto. Quando non c’è fiducia, non ci sono investimenti.

Questo è un problema che qualsiasi governo riformista con ambizioni radicali si trova a dover affrontare, indipendentemente dalla situazione in cui si trova al momento in cui va al potere.

Il governo Mitterrand aveva cercato di risolvere queste difficoltà trattando con i rappresentanti delle imprese francesi. In effetti, alcuni resoconti sulle sue macchinazioni in questo periodo sostengono che aveva già accettato di fare alcune concessioni chiave di fronte alle richieste del mondo imprenditoriale all’inizio del 1982, dando così inizio in segreto alla svolta verso l’austerità.

Ma in ogni caso, l’esempio francese illustra un punto importante che i socialisti devono tenere a mente: il potere politico della classe capitalista non dipende solo da ciò che il capitale può fare, ma anche da ciò che può decidere di non fare – investire. È il suo controllo sulla funzione di investimento, non la sua organizzazione collettiva, la chiave del potere dei capitalisti nella sfera politica: dato che, in un’economia capitalista, gli investimenti sono il prerequisito per crescita, occupazione ed entrate fiscali, i politici sono sempre incentivati a dare priorità all’esigenza di conquistare la fiducia delle imprese, rispetto a tutte le altre considerazioni.

L’unica alternativa è cercare di assumere il controllo degli investimenti. Ma alla fine, questo non era l’approccio che Mitterrand era intenzionato ad avere.

Una nuova era del capitalismo francese

Il dietrofront di Mitterrand portò a un reimpasto di governo. Ma non provocò immediatamente l’uscita dal governo della sinistra. Chevenement mantenne il suo posto di ministro dell’Industria per un altro anno, e i comunisti non usciranno dal gabinetto fino a dopo le elezioni europee del 1984, quando il risultato del PCF si ridusse fino ad arrivare a circa lo stesso livello di quello del FN. Mai più, comunque, il governo di Mitterand avrebbe perseguito una strategia economica reflazionistica.

Dal 1983 in poi, le priorità del governo incarnarono il nuovo percorso di Mitterrand: anziché la crescita o l’occupazione, l’enfasi ora era sulla stabilità dei prezzi e sul contenimento della spesa pubblica. In effetti, a quel punto, Mitterrand era diventato “ossessionato dall’inflazione” (per citare uno dei suoi colleghi). Dopo la svolta verso il rigore, le prospettive economiche del presidente incominciarono a rispecchiare le preoccupazioni dell’establishment imprenditoriale: già nell’autunno del 1983 deplorava le “eccessive” tasse a carico delle imprese, dichiarando in un’intervista radiofonica che la tassazione elevata erano la causa degli investimenti e dei tassi di occupazione stagnanti.

Nel 1984, il governo aveva iniziato a tagliare i sussidi all’industria francese, costringendo le imprese non competitive a ristrutturarsi e ridurre i costi. Com’era prevedibile, il risultato fu un impulso su larga scala verso la riduzione dei salari, per rendere i produttori francesi più competitivi. La conseguente ondata di licenziamenti annunciata colpì in modo particolare i dipendenti delle industrie un tempo basilari: tra i settori più duramente colpiti ci furono quelli dell’acciaio, dove il governo annunciò che avrebbe eliminato 25.000 posti di lavoro; della costruzione navale, che vide ridursi la sua capacità del 30 %, con una perdita conseguente di 6.000 posti di lavoro; e il settore minerario, che subì una riduzione degli aiuti di Stato di oltre un quarto in soli cinque anni, con una conseguente perdita di 20.000 posti di lavoro.

Negli anni successivi, il governo supervisionò una ristrutturazione massiccia del capitalismo francese: rimuovendo le sovvenzioni per le imprese in difficoltà, permettendo a vaste aree dell’industria di andare in bancarotta e smantellando le istituzioni centralizzate del modello dirigista del dopoguerra .

Sotto la sorveglianza di Mitterrand, i socialisti supervisionarono l’allentamento della legislazione sul lavoro, con il conseguente aumento dei licenziamenti e una costante crescita dell’incidenza delle forme di lavoro atipico. Nel frattempo, i controlli sui capitali e le restrizioni sulle attività finanziarie venivano aboliti, dal momento che il governo perseguiva la politica del franco forte .

Nei due decenni successivi, i governi francesi sia di sinistra sia di destra avrebbero supervisionato la privatizzazione di quasi tutta la dotazione di beni pubblici, una volta assai ampia, dello Stato. Alla fine degli anni ’90, sostanzialmente tutte le nazionalizzazioni che Mitterrand aveva intrapreso nei suoi primi due anni in carica erano state capovolte: il settore bancario, le telecomunicazioni, l’elettricità e i trasporti erano stati tutti almeno parzialmente privatizzati.

Di conseguenza, la svolta verso l’austerità che era stata originariamente formulata dai suoi sostenitori come una semplice “pausa” nel progetto riformista del governo – una “parentesi”, per citare un funzionario – si trasformò in una interruzione definitiva.

La resistenza dei lavoratori a tutti questi tagli fu in gran parte inefficace. Per la maggior parte, i sindacati francesi non furono in grado di difendere i livelli di occupazione né gli standard lavorativi esistenti contro la crescente ondata di austerità.

Uno dei rari casi di militanza industriale sostenuta durante questo periodo si verificò presso lo stabilimento automobilistico Peugeot-Talbot di Poissy. Si trattava della più grande area industriale nella zona di Parigi, un complesso che ospitava 13.000 lavoratori. Nel 1982, la direzione annunciò che le riduzioni di forza lavoro ammontavano a quasi un terzo dei dipendenti della fabbrica.

Gli operai, tra cui molti immigrati, si erano lamentati a lungo delle pessime condizioni di lavoro, della repressione da parte del management delle organizzazioni sindacale e della diffusa discriminazione. A dicembre, quando il ministero del Lavoro annunciò il suo accordo su una versione riveduta del taglio di posti di lavoro proposti, fu dichiarato uno sciopero, che si dimostrò abbastanza efficace. Eppure, anche a Poissy i lavoratori alla fine dovettero soccombere – sconfitti dall’intransigenza del governo e dell’azienda, nonché dal conservatorismo dei sindacati.

Il caso di Poissy è indicativo dell’impatto dell’austerità sul movimento operaio francese. La svolta di Mitterrand verso il rigore aggravò il declino delle organizzazioni sindacali e indebolì ulteriormente la militanza all’interno delle industrie, con conseguente caduta della sindacalizzazione e della partecipazione agli scioperi per tutto il resto degli anni ’80. Queste tendenze ebbero conseguenze particolarmente dannose per la CGT, che vide le sue adesioni calare da circa 2 milioni all’inizio degli anni ’80 a circa 600.000 un decennio dopo.

Eppure, dal suo punto di vista, l’agenda economica riveduta dal governo ebbe anche una serie di successi.

L’inflazione, che aveva raggiunto il 12,6% nel 1982, scese al 7,1% nell’84 e poi al 6% nell’85. Il disavanzo delle partite correnti della Francia scese dal 2,2% del Pil nel 1982 allo 0,2% nel 1984; nel 1985 la Francia aveva un surplus di partite correnti. E, ora che erano in grado di ridurre salari e dipendenti, le imprese francesi gradualmente tornarono alla redditività: nel 1985, ad esempio, i sei maggiori gruppi industriali nazionalizzati nel 1981-82 erano tutti redditizi.

Ma i costi di questi successi furono enormi. Le retribuzioni nette nel 1984 diminuirono del 2,5%. Dopo l’inversione a U di Mitterand la disoccupazione non fece che aumentare costantemente, raggiungendo il 9,7% nel 1984 e superando quota 10% entro l’anno successivo. La disoccupazione non avrebbe iniziato a diminuire in modo sostenuto fino alla fine degli anni 90. E la “quota salari” (la percentuale di PIL distribuita ai dipendenti sotto forma di salari) non farà che scendere costantemente, dopo il picco nel 1982.

Nel frattempo, la spesa sociale continuò a crescere. Di fatto, per il resto del decennio, l’elevata disoccupazione determinò un aumento costante della spesa per il welfare: a metà degli anni 90, i finanziamenti per la sicurezza sociale mangiavano il 30% del Pil. In questo contesto, i governi francesi utilizzarono ripetutamente il peso dei costi dovuto agli alti livelli di disoccupazione come giustificazione dei tentativi di ridurre le protezioni sociali.

François Mitterrand parla con Margaret Thatcher nel 1981

Allo stesso tempo, l’approccio del governo su altri fronti politici diventò sempre più conservatore. Questo cambiamento fu particolarmente evidentemente in politica estera, campo in cui Mitterrand divenne uno stretto alleato di Reagan e Thatcher; nell’istruzione, con gli anni dopo il 1983 che videro abbandonare la promessa di creare un sistema scolastico pubblico laico di fronte all’opposizione della destra; e nel campo della giustizia criminale e della polizia, in cui la decisione iniziale di abolire la pena di morte fu seguita da uno spostamento verso politiche sempre più severe di ordine pubblico.

Inoltre, insieme al suo ex ministro delle finanze, Jacques Delors (che fu nominato presidente della Commissione europea nei primi mesi del 1985), il presidente sarebbe diventato un architetto chiave della zona euro e dell’Unione europea, per esempio guidando i negoziati sul trattato di Maastricht del 1992, che impone rigidi requisiti di bilancio pubblico ai potenziali membri della zona euro (compresi il limite di disavanzo annuale al 3% del Pil e debito pubblico al 60% del Pil). In effetti fu il governo francese, sotto la sua direzione, a spingere maggiormente perché fosse creata una Banca centrale europea indipendente, con il compito di mantenere la stabilità monetaria e dei prezzi.

Mitterrand ha quindi svolto un ruolo chiave nella creazione dell’Europa neoliberista.

Ironia della storia, visto quanto il suo governo ha lottato per superare vincoli non troppo diversi da quelli che si è trovato di fronte Alexis Tsipras, sono stati proprio i socialisti di Mitterrand a creare il laccio istituzionale che ha finito per stringere l’austerità alla gola della Grecia.

Se vogliamo spiegare questi capovolgimenti della politica di Mitterand, non possiamo addurre considerazioni elettorali o altri fattori politici di breve termine. In effetti, lo spostamento di Mitterrand verso il rigueur portò a una brusca caduta nell’apprezzamento del governo: nell’estate del 1982 il sostegno pubblico a Mitterrand si era attestato a un massimo del 74%. Nel giro di un anno, era sceso al di sotto del 50%, con il 70% dell’opinione pubblica francese che riteneva che il governo fosse stato “gravemente indebolito” dall’austerità. Nel 1984, il tasso di apprezzamento di Mitterrand era al 32%, a quel tempo il minimo storico per un presidente francese in carica.

Nel frattempo, la sinistra capitombolava da una sconfitta elettorale all’altra, subendo gravi perdite alle elezioni regionali nel 1983 e alle elezioni europee l’anno successivo, prima di perdere la maggioranza parlamentare nel 1986 (in elezioni in cui il suo slogan era “Aiuto! Sta tornando la destra!”).

Questa sconfitta portò a due anni di “coabitazione”, durante il quale Mitterrand fu costretto a lavorare con un governo di destra guidato dal primo ministro Jacques Chirac. Nel 1988, la sinistra riacquistò la sua maggioranza, mentre Mitterrand stesso fu rieletto. Ma il suo governo non avrebbe mai riguadagnato lo slancio che aveva caratterizzato i suoi primi due anni di mandato.

In un senso, tuttavia, la strategia di Mitterrand fu politicamente efficace: se il PS perse il sostegno elettorale dopo la svolta di Mitterrand verso il rigore, il PCF soffrì molto di più. I comunisti persero costantemente terreno nei confronti dei loro concorrenti socialisti durante gli anni 80 – e le loro fortune non migliorarono nemmeno dopo che uscirono dal governo e si riposizionarono come opposizione di sinistra.

Nel 1986, il risultato alle elezioni legislative del PCF fu nettamente ridotto rispetto a dove si trovava alla fine degli anni 70. Continuò a calare negli anni successivi: nel 1995 il candidato del partito alle elezioni presidenziali di quell’anno ottenne meno del 9% dei voti, e la percentuale non fece che calare nelle due elezioni successive.

In retrospettiva, il PCF non si è mai ripreso dalla débâcle legata a Mitterrand. Gli elettori non hanno mai creduto che i comunisti fossero veramente impegnati nell’unità della sinistra; ma dopo che entrarono a far parte dell’esecutivo, la riluttanza del partito a criticare Mitterrand troppo apertamente – per il timore di provocare una spaccatura nel governo – si rivelò controproducente. Anche dopo che Mitterrand abbandonò il suo programma di riforme in favore dell’austerità, i ministri del PCF rifiutarono di dimettersi. Ciò rese ancor più difficile agli elettori prestare fiducia ai loro attacchi contro i socialisti posteriori al 1984.

Il risultato di tutto ciò fu che, negli anni 90, un PS sempre più neoliberale sostituì il PCF come forza dominante nella sinistra francese. In questo senso, almeno, Mitterrand ha raggiunto i suoi obiettivi.

Strade non tentate

Al culmine dell’incertezza sulle politiche economiche della sua amministrazione nei primi anni ’80, si racconta che Mitterrand si lamentò così con uno dei suoi collaboratori: “In economia, ci sono due soluzioni. O sei un leninista, oppure non cambierai nulla. ”

Mitterrand, naturalmente, non era un leninista, nonostante quello che avevano sostenuto un tempo i giornali di destra. Anzi, alla fine, deluse persino le speranze che il suo governo potesse intraprendere un programma riformista moderato – per non parlare del tipo di percorso parlamentare verso il socialismo che aveva promesso.

Nonostante le sue dichiarate intenzioni rivoluzionarie, e nonostante la retorica del Programma Comune e della sua piattaforma elettorale del 1981, Mitterrand rimase sempre una figura della sinistra parlamentare tradizionale, il cui socialismo non oltrepassò  mai di molto i confini di una energica socialdemocrazia in stile francese. Il suo era un progetto tecnocratico di ricostruzione economica e riforma sociale.

Mitterand non era interessato a mobilitare la base popolare a sostegno della sua agenda politica; si circondò di consiglieri che in ogni fase cruciale consigliavano moderazione e limiti. E ha costantemente cercato di evitare di esacerbare le tensioni sociali e politiche.

Questo è un peccato, perché solo attraverso il tipo di misure e mobilitazioni che inevitabilmente avrebbero provocato conflitti più intensi con le élite il presidente avrebbe potuto sperare di salvare il suo programma economico. I vincoli che i politici francesi avevano nei primi anni 80 erano troppo grandi per qualsiasi compromesso con il capitale che avrebbe potuto evitare la deflazione; questi vincoli erano radicati nelle restrizioni monetarie che derivavano dagli impegni istituzionali francesi nello SME e dall’impatto delle politiche deflazionistiche negli Stati Uniti e in Germania.

Ma più fondamentalmente, hanno avuto origine nelle deficienze strutturali del capitalismo francese: gli investimenti e i tassi di profitto cronicamente bassi; la mancanza di competitività sui mercati di esportazione; l’incapacità dei pianificatori statali di compensare la stagnante crescita della produttività; ricerca e sviluppo sotto gli standard e via dicendo.

Nelle circostanze dei primi anni 80, evitare l’austerità avrebbe richiesto la volontà di intraprendere misure sempre più drastiche: ad esempio, l’imposizione di controlli sui capitali più stringenti per limitare le pressioni speculative sul franco; un impegno a maggiori restrizioni sulla crescita dei salari e dei prezzi; un ulteriore aumento delle tasse per coprire il crescente deficit pubblico; e lo sviluppo di un regime di pianificazione più efficace e più democratico.

Intraprendere quella strada avrebbe provocato certamente un’escalation del conflitto con il capitale, senza alcuna garanzia di un esito favorevole. Probabilmente avrebbe portato all’uscita della Francia dallo SME. Una rottura con il capitalismo avrebbe isolato la Francia e l’avrebbe costretta a perseguire una strada verso il socialismo in condizioni di autarchia economica. Ciò sarebbe stato possibile solo attraverso la mobilitazione dei sostenitori del governo appartenenti alla classe operaia, che avrebbe generato ulteriori levate di scudi da parte del mondo imprenditoriale, e probabilmente avrebbe tolto il sostegno al governo da parte di vaste aree della classe media.

Realizzare questo tipo di strategia avrebbe richiesto un governo diverso, con un approccio diverso – anzi, date le oscillazioni del Partito comunista nei confronti di Mitterrand, avrebbe richiesto una sinistra diversa, una sinistra disposta a comunicare una visione della trasformazione socialista e delle difficoltà che i lavoratori avrebbero dovuto affrontare per arrivarci.

D’altra parte, un tentativo di mobilitare il sostegno della classe operaia a un’offensiva prolungata contro le prerogative del capitale offriva l’unica via d’uscita per evitare i lunghi decenni di neoliberalismo che sono seguiti. Una simile strategia avrebbe potuto fallire, ma avrebbe anche contenuto i potenziali semi di una vera democratizzazione della vita sociale ed economica. In questo senso, avrebbe potuto aprire la possibilità che l’enorme sostegno alla sinistra al momento dell’elezione di Mitterand potesse essere tradotto in un autentico esperimento socialista.

Se Mitterrand non ha intrapreso questa strada, non è sufficiente accusare le sue debolezze politiche. Non basta affermare che Mitterrand era un socialdemocratico opportunista, che temeva il confronto con le imprese. Invece, dovremmo imparare qualcosa dall’incapacità mostrata dal suo governo di superare i vincoli strutturali che ha dovuto affrontare quando è salito al potere.

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