Quando si chiedeva perdono per aver fatto sesso

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Una signora mi scrive: «Ricordo il rito del “perdono”, così denominato dallo stesso parroco, cui dovette rassegnarsi mia madre dopo quaranta giorni dalla nascita di mio fratello. Avevo sette anni, le mezze parole di mia madre che cercava di rispondere ai miei perché, perché s’imponesse – da parte della Chiesa – la richiesta del perdono per aver avuto un figlio, ancora mi risuonano nella testa come una delle terribili contraddizioni di cui i fedeli erano fatti bersaglio. Quello che mi sconvolse fu la spiegazione che me ne dette un parroco del mio paese, persona in ogni caso buona e gentile, che riferiva il rito medesimo alla necessità “cristiana” che una sposa chiedesse comunque a Dio perdono per l’attività sessuale che l’aveva portata al concepimento di un figlio. Le donne, ancorché sposate con rito religioso, si attenevano scrupolosamente al rito, ritenendosi “impure” fino all’ottenimento del perdono da parte di Dio, tramite il parroco».

Nel Levitico troviamo scritto: “Il Signore disse a Mosè: «Parla ai figli d’Israele e di’ loro: Se una donna è stata fecondata e partorisce un maschio, è impura per sette giorni, come al tempo delle sue regole. L’ottavo giorno si circoncida la carne del membro del bambino; ed ella continuerà a purificarsi dal sangue per trentatré giorni; non toccherà alcunché di sacro e non andrà al santuario fino a che siano compiuti i giorni della sua purificazione. Se ha partorito una femmina, è impura per due settimane, come nel tempo delle sue regole, e per sessantasei giorni resterà a purificarsi dal sangue»” ( Lv 12, 1-5). Sette più trentatré fanno quaranta; quattordici più sessantasei fanno ottanta. Secondo il Signore, la nascita di una femmina rendeva impura la mamma per un tempo doppio rispetto alla nascita di un maschio. Ovviamente Mosé non osò chiedere spiegazioni al suo Signore, se non altro riguardo alla palese discriminazione.

Nel Vangelo di Luca leggiamo: “Quando furono passati gli otto giorni per circonciderlo, gli fu dato il nome di Gesù, com’era stato chiamato dall’angelo prima di essere concepito in grembo. Venuto poi il tempo della loro purificazione, secondo la legge di Mosè, lo portarono a Gerusalemme per offrirlo al Signore” (Lc 2, 21 -22). ”Alla purificazione era obbligata solo la madre, e non vi era obbligata Maria, purissima; tuttavia l’evangelista vuole sottolineare la fedeltà all’osservanza della legge da parte dei genitori di Gesù” (F.Pasquero – La Bibbia edizioni Paoline). Il 2 febbraio la Chiesa celebra la presentazione al Tempio di Gesù, popolarmente chiamata festa della Candelora, giacché si benedicono le candele, simbolo di Cristo, luce che illumina le genti. La festa è anche detta della Purificazione di Maria.

Il rito della Purificazione è stato ripreso nella tradizione cattolica contadina: una donna che partoriva, subiva la quarantena dopo il parto e la seguente purificazione che coincideva col battesimo del bambino. Doveva rispettare diverse restrizioni: non mangiare carne, non avere rapporti sessuali, uscire di casa il meno possibile, ed altre ancora. Non conosco l’età della mia corrispondente, però i ricordi della sua fanciullezza non dovrebbero essere troppo lontani nel tempo; significa che a un dipresso sessant’anni fa in Italia esisteva un paese dove si praticava ancora tale rito, ed esisteva un prete che riteneva peccato l’amore coniugale. Ne esisteranno ancora? Dio ce ne guardi!

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