Frontiere

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di Luigi Covatta

“È necessario che esista in noi – affinché noi possiamo trarne alimento di speranza nella costruzione dell’avvenire – la ferma fede che un giorno, quando l’Europa si farà e i popoli si riconosceranno nella pace e nella concordia, le frontiere saranno segni convenzionali e non diaframmi, e i singoli gruppi etnici potranno esprimere in piena libertà il proprio genio, conformemente a ciò che sentono e venerano come Patria dello spirito”: così Giuseppe Saragat in occasione dell’udienza concessa all’Associazione dei profughi giuliano-dalmati nel 1967, significativamente citato da Sergio Mattarella in occasione del convegno che abbiamo promosso a trent’anni dalla scomparsa del quarto presidente della Repubblica di cui diamo conto nelle pagine che seguono. Anche in quel caso, benché parlasse ad una platea che invece delle frontiere faceva gran conto, Saragat non rinunciava a testimoniare le proprie convinzioni: così come, con la stessa concessione dell’udienza, non aveva rinunciato a sfidare un’opinione “di sinistra” che già dopo la guerra aveva vergognosamente negato solidarietà a quei profughi, colpevoli di essere scappati dal paradiso comunista del maresciallo Tito. L’Europa tuttavia non si è ancora fatta, e le frontiere tornano ad essere diaframmi. Da allora, per la verità, non sono man-cati i passi avanti nel cammino verso l’unità europea: a cominciare da quell’Atto unico imposto da Craxi alla Thatcher nel 1985 al Consiglio europeo di Milano, dal quale sono derivati il Trattato di Maastricht e quello di Schengen. Ma paradossalmente è stata proprio la caduta di un’altra frontiera – di quella cortina di ferro che Churchill nel 1947 aveva visto calare fra Est ed Ovest – a rendere tutto più complicato. E’ infatti innegabile che fino al 1989 la Comunità europea era cresciuta al riparo di quel confine: e che neanche in questo caso aver cambiato nome, diventando Unione, è bastato poi all’Europa per acquisire una soggettività politica all’altezza delle sfide del terzo millennio.

    Ed ecco quindi tornare i diaframmi: da quello caricaturalmente provinciale cui allude il governo austriaco quando minaccia di concedere la doppia cittadinanza ai sudtirolesi, a quelli più odiosi con cui i paesi dell’Est pretendono di proteggersi dai flussi migratori. Ma ecco soprattutto nascere un diaframma del tutto inedito, come quello che Trump intende erigere fra le due sponde dell’Atlantico, nel momento in cui individua l’Unione europea come un nemico degli Stati Uniti e la Nato come una combriccola di scrocconi.

Anche nel Mediterraneo, peraltro, non manca chi pensa di poter dividere il mare a fette, stravolgendo le leggi scritte e non scritte che per millenni hanno garantito la libertà e la sicurezza dei naviganti, oltre che lo sviluppo della civiltà occidentale. E pazienza se poi si sfiora il paradosso negando l’approdo nei porti italiani alle stesse navi della nostra Marina militare, o dirottandole per rifornire di cibo e medicinali imbarcazioni costrette a raggiungere porti lontani: sta scritto nel Contratto, e tanto basta.

Nel Contratto, per giunta, sta scritto anche che bisogna intro-durre il reddito di cittadinanza e ridurre il precariato: e pazienza, anche qui, se per farlo non si trova niente di meglio che riesumare i lavori socialmente utili, cioè la più produttiva fabbrica di precari mai concepita. Per non parlare della pre-tesa di impedire la delocalizzazione delle imprese per via amministrativa invece di implementare le misure avviate con Industria 4.0., o dello stallo in cui restano le politiche attive del lavoro, finora impantanate in un conflitto fra Stato e regioni la cui soluzione potrebbe non essere gradita ai governatori leghisti.

Si dirà (e si dice, magari con piglio polemico) che quello che manca ai nuovi governanti è la competenza. Non è così. Quello che manca è la cultura di governo, che è un’altra cosa. Per governare, ha scritto De Rita nell’introduzione al Mese del sociale di quest’anno, bisogna innanzitutto “avere una visione e una cultura della lunga durata”: anche se “può apparire quasi provocatorio” parlarne “in una società come l’attuale dove domina il presentismo (l’appiattimento all’oggi senza alcuna scansione di passato e futuro)”. In secondo luogo, secondo De Rita, governare significa “provvedere ad un incardinamento della politica nei processi reali in corso”. Infine occorre “elaborare una strategia di coinvolgimento dei tanti e sempre più articolati soggetti sociali”.

L’esatto opposto, cioè, dell’orizzonte che si era dato il sistema politico nato a metà degli anni ’90 del secolo scorso ed ora in via di disfacimento: che aveva rinunciato alla visione in nome della “fine delle ideologie” (espressione sintetica per accomunare tutte le culture di lunga durata all’ideologia marxista, effettivamente arrivata al capolinea); che prescindeva dai pro-cessi reali in corso (a cominciare da quelli prodotti dalla globalizzazione); che ignorava l’incipiente scomposizione della società novecentesca.

È meglio prendere sul serio, quindi, quanti parlano di terza Repubblica: tanto sul serio da evitare gli errori che si fecero quando si pose in opera la seconda, e da accettare la sfida che i nuovi governanti portano su questo terreno, invece di con-fidare nella loro pur conclamata incompetenza (o nel loro spregiudicato avventurismo sul piano delle relazioni interna-zionali, che vede in campo ben altri protagonisti rispetto a Salvini).

Solo così l’opposizione potrà uscire dall’afasia che l’ha col-pita dopo il 4 marzo: non certo portando in gita una segreteria a Torbellamonaca, o studiando il modo di riportare Berlu-sconi in Parlamento con un’elezione suppletiva.

Della destra non ci occupiamo. Per quanto riguarda la sinistra, è difficile non condividere quello che ha scritto Ernesto Galli della Loggia sul Corriere del 27 giugno: quella a cui assistiamo è la fine di una storia “cominciata male, in modo ambiguo e pasticciato, 25 anni fa: una forte matrice comunista mai rivisitata e indagata ma semplice-mente rimossa, un vantato innesto con un cattolicesimo politico di tutte le tinte, e infine la costruzione di un Pan-theon di presunti antenati messi insieme come un mazzo di carte”.

Si potrebbe aggiungere che quella che stiamo vivendo è anche la fine della storia dei “compagni di scuola”, per riprendere il titolo di un bel saggio di Andrea Romano sugli eredi del Pci: i quali avevano pensato che cambiare le regole del gioco avrebbe loro risparmiato una riflessione sulla pro-pria identità. Questo, probabilmente, è il vizio d’origine dello stesso Partito democratico: aver confuso la “vocazione maggioritaria” con il sistema elettorale maggioritario, che garantiva comunque una rendita di posizione, vincenti o per-denti che si fosse, a prescindere dalla capacità di esercitare un autentico potere di coalizione, ed a prescindere soprattutto dalla capacità di difendere le proprie politiche di governo anche dall’opposizione, come stiamo vedendo in queste settimane.

All’orizzonte ci sono le elezioni europee dell’anno venturo: quelle in cui, non solo in Italia, si deciderà della stessa sopravvivenza dell’Unione. L’occasione ideale per mettere in campo culture politiche di lunga durata, in assenza delle quali resteremo in balia dei Salvini e dei Di Maio: e potremo scegliere se cercare protezione da Putin o assumere come modello sociale quello instaurato da Maduro in Venezuela. Una rivista è una rivista, non è un partito. Ma mi auguro che la sua presenza nel dibattito pubblico possa aiutare la nascita, qui in Italia, di quel partito dei riformisti che non nacque al Lingotto una decina d’anni fa.

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