Greta e il voto ai sedicenni

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Greta Thunberg ha sedici anni, essendo nata in Svezia il 3 gennaio del 2003.

PALERMO – É soltanto una coincidenza che Greta abbia sedici anni e che nel dibattito politico italiano sia entrato l’argomento di riconoscere il diritto di voto ai sedicenni?

La mia prima reazione, di fronte a questa proposta, è stata quella di pensare che almeno da venticinque secoli, ossia dai tempi di Platone, la ragionevolezza contrasta con i sofisti ed i demagoghi, ossia i sedicenti democratici. Sofisti e demagoghi conoscono l’arte di blandire e sussurrano parole dolci nelle orecchie di coloro dei quali cercano il consenso. Riflettendo meglio, tuttavia, mi sono chiesto se siano questi i tempi in cui sia ancora possibile fare appello alla ragionevolezza; o se non siamo davanti al probabile scatenamento di forze irrazionali. Eppure, ciò che averto come dovere è continuare a stare, comunque, dalla parte della ragionevolezza.

L’ex Presidente Enrico Letta, già sperimentato come uomo di governo, moderato e responsabile, non può essere diventato, di colpo, un volgare demagogo. Più probabile che egli sia smarrito; cosicché, fingendo di orientare gli altri, in realtà esprima la propria personale ansia.

A molti Greta fa antipatia, perché la si ritiene un personaggio costruito dagli organi di informazione di massa. Fosse anche un fenomeno virtuale, meramente massmediatico, resta il fatto che i cambiamenti climatici sono una realtà con cui tutti dobbiamo fare i conti. Anche coloro che ancora si ostinano a negarli, non possono ignorare fenomeni quali lo scioglimento dei ghiacciai, a partire dalle calotte polari dell’Antartide a Sud e della Groenlandia a Nord. I ghiacciai si sciolgono perché la temperatura media del pianeta si è elevata. Altro fenomeno di cui tutti ormai abbiamo fatto esperienza è quello delle precipitazioni piovose, meno frequenti, ma molto più intense, tanto da produrre effetti rovinosi ed alluvioni. Viviamo in Italia, ma il clima sembra diventato quello dei Tropici.

Invitata all’ONU, la sedicenne Greta ha parlato con i toni di un antico profeta biblico. Non aveva tutti i torti, perché, quando si discute di ambiente, i professionisti della politica sono abilissimi nello svicolare dall’argomento più serio, ossia quello che parte dalla constatazione che, in un pianeta che ha dimensioni finite (quindi, non può crescere), anche lo sviluppo economico non può essere illimitato, così come non può essere illimitata la crescita demografica.

Bisogna sapere che intorno al 1910, ossia poco prima che iniziasse la prima guerra mondiale, la popolazione complessiva del pianeta era stimata in un miliardo e 600 milioni circa. Il 31 ottobre 2011 è stato proclamato “Day of Seven Billion” per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale sulla circostanza che, a quella data, la popolazione globale aveva raggiunto la cifra di sette miliardi di esseri umani. Se mettiamo a confronto le cifre vediamo che, nell’arco di cento anni (dal 1910 al 2011), ossia di un secolo, la popolazione mondiale è cresciuta del 437,5 per cento. I previsti ritmi di incremento demografico, in particolare per il continente africano, lasciano tranquilli soltanto coloro che li ignorano.

Qualora gli attuali circa otto miliardi di esseri umani consumassero ed inquinassero quanto un cittadino medio degli Stati Uniti d’America, il futuro del mondo umano, quale l’abbiamo conosciuto, non si misurerebbe più in secoli, ma il tempo ancora utile si consumerebbe nello spazio di cinquant’anni.

Di questo, tuttavia, si preferisce tacere, per non fare emergere troppe contraddizioni e per non alimentare troppi conflitti. I professionisti della politica preferiscono raccontare, invece, una “favola bella” che, parafrasando la Pioggia nel pineto di D’Annunzio, oggi vorrebbe “illuderci”. La favola bella è quella della “Green economy“, o economia verde che dir si voglia. Ma quali limiti allo sviluppo economico? No, l’economia verde può diventare essa stessa business. Niente divieti e proibizioni, ma un fiorire di “incentivi”, che renderebbero economicamente conveniente essere ecologicamente virtuosi.

La politica degli “incentivi” piace molto ai governi, che riservano a sé stessi il potere discrezionale di concederli. Piace molto anche a quegli imprenditori che non si fanno troppi scrupoli. Vengono alla memoria, ad esempio, diversi scandali connessi all’incentivazione di impianti per la produzione di energia mediante pale eoliche. Scandalo significa sperpero di denaro pubblico, attraverso comportamenti truffaldini nei confronti dell’erario.

Greta ha duramente stigmatizzato quei governanti e quei politici che, nella Sede dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, riducevano tutta la gigantesca questione dei cambiamenti climatici, a un problema di denaro, di elargizione di incentivi mirati, appunto. Si è rivelata, tuttavia, in tutta la sua fragilità di una ragazzina di sedici anni, quando ha accusato i medesimi governanti e politici di “aver rubato” i suoi sogni, ossia i sogni di tutte le nuove generazioni. Il diritto ai sogni è una variante contemporanea di quel diritto alla felicità che i rappresentanti del popolo della Virginia, primo nucleo dei nascenti Stati Uniti d’America, vollero affermare nella loro Dichiarazione dei diritti, del giugno del 1776: «Tutti gli uomini sono nati egualmente liberi e indipendenti e hanno alcuni diritti innati, di cui, entrando nello stato di società, non possono mediante convenzione privare o spogliare la loro posterità; cioè il diritto di godere la vita e la libertà, mediante l’acquisto ed il possesso della proprietà e di perseguire e ottenere felicità e sicurezza» (articolo 1).

La vita umana è soltanto godimento e felicità? Domanda retorica, perché gli esseri umani sono mortali e, per di più, durante la loro intera esistenza, sono sempre costretti a misurarsi con difficoltà da superare, che richiedono rinunce e sacrifici; fanno continuamente esperienza del dolore e della malattia, laddove quella delle persone care può essere più insopportabile della propria.

Tutto ciò di cui Greta e con lei tutte le nuove generazioni ritengono di avere “diritto” non è altro che ciò che le precedenti generazioni hanno realizzato, con duro lavoro, rinunce, sacrifici, lotte, creatività, ingegno, tenace volontà, durante secoli e secoli. Il benessere materiale, la civiltà, il progresso tecnologico non sono un “diritto” acquisito una volta per sempre. Sono stati sofferta conquista; potrebbero essere facilmente vanificati e persi da chi non fosse all’altezza del compito di conservarli ed incrementarli. Al di là dei meriti e delle colpe, c’è il dato oggettivo che il Pianeta Terra è quello che è, non può espandersi, non può crescere ed ha riserve naturali finite (la più preziosa è l’acqua potabile). Molti, senza dirlo, si pongono nella logica di un rassegnato fatalismo: sia fatta la volontà di Dio. Questo, forse, è l’atteggiamento improntato a maggiore saggezza.

Dà appena un po’ di fastidio che un Papa, politico quanti altri mai, alimenti le speranze in un mondo migliore, più giusto ed accogliente nei confronti di tutti, come se questo mondo umano fosse a portata di mano e solo errati e miopi modi di ragionare impedissero la sua compiuta realizzazione. Quando invece – per restare alla terminologia religiosa – dovrebbe sapere meglio di chiunque altro che i segnali che registriamo fanno più pensare all’Apocalisse. Libro biblico, parte integrante del Nuovo Testamento. Se il Papa è un’autorità spirituale ha un grande ruolo da svolgere; se è solo un altro politicante, personalmente non so che farmene.

Torniamo alla proposta di riconoscere il diritto di voto ai sedicenni. Questa non tiene conto che la maggiore età si raggiunge al compimento dei diciotto anni. Si vuole anche abbassare la maggiore età a sedici anni?

L’argomento del diritto di voto ha tutta una serie di implicazioni, delle quali non tutti hanno piena consapevolezza. Oggi tutti ragioniamo in termini di suffragio universale. Questo, coerente con la logica della democrazia, è, tuttavia, una conquista recente. Le prime votazioni a suffragio universale in Italia si sono tenute il 2 giugno 1946 per eleggere l’Assemblea Costituente e per la scelta istituzionale fra monarchia e repubblica.

Nel sistema rappresentativo concepito storicamente dal costituzionalismo liberale, il diritto di voto non era riconosciuto a tutti, ma soltanto a quanti erano parte attiva della comunità sociale. Parte attiva in due possibili significati: a) per il fatto di essere contribuenti, cioè finanziatori del pubblico erario attraverso il pagamento di imposte e tributi; b) per il fatto di essere in un rapporto di immedesimazione organica con o Stato, nel senso di costituirne l’apparato burocratico. Sub a) venivano in considerazione i proprietari di beni immobili e di terreni; nonché tutti coloro che svolgessero un’attività lavorativa, dalla quale derivassero comunque proventi per l’erario: quanti esercitavano una professione o un mestiere, conducevano un’industria o un commercio, o svolgevano un lavoro salariato. Sub b) venivano in considerazione i dipendenti dello Stato, si trattasse del più alto dirigente di un Ministero, o di un modesto impiegato esecutivo. Venivano in considerazione, a maggior ragione, gli appartenenti alle Forze armate, ossia quanti erano pronti a rischiare la propria vita a servizio della Patria, in tempi di pace come in tempi di guerra.

Nell’Italia immediatamente successiva al completamento del processo di unificazione nazionale, nel 1861, era anche richiesto il requisito di un minimo di cultura (saper leggere e scrivere); questo elemento privava del diritto di voto le grandi masse rurali, fortemente interessate dal fenomeno dell’analfabetismo. Ciò non andava bene perché i contadini erano un ceto economicamente produttivo; quindi, in relazione all’utilità sociale del loro lavoro, avrebbero avuto titolo a partecipare ai processi decisionali relativi alla cosa pubblica.

Il suffragio universale, viceversa, ha concesso il diritto di voto anche a persone che non danno alcunché allo Stato in termini di prelievo fiscale (nullatenenti) e che, temporaneamente o costantemente, non svolgono alcun lavoro produttivo (disoccupati). Questi soggetti, in quanto elettori, hanno però titolo per chiedere allo Stato qualcosa: un lavoro, beni come la casa d’abitazione, e servizi (assistenza sanitaria, pubblica istruzione per i figli, ordine pubblico, eccetera). Versando in condizione di oggettivo bisogno, questi elettori possono essere più facilmente indotti a cedere il loro consenso a quei politici che promettano loro di aiutarli singolarmente in modo concreto. Al fine di ottenere consenso, i politici più spregiudicati guardano proprio agli elettori in difficoltà e, per soddisfarne le esigenze, si servono della spesa pubblica. Ciò spiega le dinamiche del debito pubblico italiano, arrivato oggi alla percentuale del 135 % rispetto al Prodotto interno lordo (PIL). Nella storia dell’Italia unita, soltanto due volte fu raggiunto il pareggio di bilancio. La prima volta nel marzo del 1876, al tempo della “Destra storica”, ossia il partito degli eredi di Camillo Benso di Cavour. Quel risultato fu conseguito da Marco Minghetti e Silvio Spaventa, i quali mettevano a frutto il gran lavoro svolto in precedenza da Quintino Sella. Ai tempi della Destra storica si pensava unicamente a ben amministrare e non c’era necessità di attivare spesa pubblica clientelare, appunto perché il diritto di voto era fortemente ristretto. La seconda volta fu nei primi tempi del fascismo, ed esattamente nel mese di aprile 1924, quando ministro delle Finanze era il liberista Alberto De Stefani. Il fascismo, al tempo, non ancora compiutamente regime, ma era pur sempre un governo autoritario, quindi svincolato dall’esigenza di cercare il consenso minuto con provvedimenti di spesa clientelari. Poi il regime fascista compromise fortemente l’equilibrio dei conti pubblici, soprattutto per la velleità di perseguire una politica estera di potenza, il che richiedeva crescenti spese per armamenti e per le Forze armate in genere.

Nei Paesi Scandinavi, nel Regno Unito, in Germania, i cittadini provano una sorta di vergogna a farsi assistere economicamente dallo Stato; lo fanno soltanto quando sono in condizioni di stringente necessità. Gli studenti e quanti ottengono prestiti di onore non vedono l’ora di poter restituire quanto hanno ricevuto, per diventare finalmente, grazie al loro lavoro, contribuenti e partecipare così al finanziamento della cosa pubblica. Ne fanno una questione di dignità personale. Da noi persiste una sciagurata mentalità per cui molti pensano che sia loro dovuto un intervento pubblico di sostegno, in qualsiasi forma corrisposto, che viene tranquillamente fatto coesistere con lavoro nero non dichiarato.

Dare il voto ai sedicenni significherebbe dare influenza politica a persone che, nella stragrande maggioranza dei casi, non sarebbero ancora inserite nel circuito lavorativo e che non disporrebbero di risorse economiche proprie. Un elettorato perfetto per determinare una ulteriore espansione della spesa pubblica, quindi del debito pubblico.

Ci ricordiamo come eravamo a sedici anni? Un sedicenne è capace di grandi slanci ideali, ma non ha contezza della forza di resistenza della realtà; presume che ogni cambiamento sia possibile, che basti volerlo. Nel tempo tutti cambiamo; non soltanto nel fisico. Per nostra fortuna, anche la nostra mente cambia. Acquisiamo la consapevolezza dei nostri limiti individuali. I limiti si possono sempre superare, si può sempre progredire; ma non gratis: per ogni risultato che si vuole conseguire servono impegno, volontà, studio, sacrifici, rinunce. Alla fine, si diventa quello che ci si è impegnati a essere. Anche il livello culturale individuale non è un dato, ma un risultato. Saggezza è sapere di non sapere, insegnava Socrate. Però c’è una bella differenza fra il volere portarsi avanti e il considerare, invece, la propria ignoranza come una condizione felice.

Ci sarebbero tanti altri discorsi da sviluppare, tutti da riferire alla concreta conoscenza di come funzionano veramente le cose. Conoscenza che i sedicenni non hanno. A me, ad esempio, viene l’orticaria quando sento parlare di “rifiuti zero”. Non ci si può limitare ad essere visionari ed immaginare un mondo ideale in cui ogni materia viene riciclata, in un ciclo continuo, senza scorie. Bisogna partire dalla presente realtà, molto lontana dal predetto ideale e vedere come arrivare, per gradi, ai traguardi che si vogliono raggiungere.

In materia di rifiuti, l’unico fatto certo è che scavare buchi nel terreno e poi interrare la spazzatura non è una soluzione. Così, oltre tutto, si mettono a rischio le falde idriche, che possono essere infiltrate dal percolato. La raccolta differenziata dei rifiuti non è facile da organizzarsi; ma è cosa buona e santa. Va dunque organizzata in tutte le città, grandi e piccole; ciò comporta, ovviamente, dei costi. La raccolta differenziata, però, ha senso soltanto a condizione che ad essa faccia seguito il trattamento differenziato delle singole tipologie di rifiuti. Ad esempio, i rifiuti organici, provenienti dagli alimenti, andrebbero “essiccati”, per trasformarli in compost e, in ogni caso, per evitare il percolato. Non c’è alcun reale progresso, né alcun vantaggio per la collettività, quando, invece, si faccia pure la raccolta differenziata negli ambienti urbani, ma poi i rifiuti si ricongiungano e si mescolino in discariche incontrollate, senza alcun trattamento specifico. Anzi, in questo caso, verrebbero sprecati i costi aggiuntivi assunti per realizzare la raccolta differenziata.

Le discariche incontrollate sono una modalità di degrado dell’ambiente ed una fonte di inquinamento di gran lunga superiore al rischio di inquinamento da fumi derivanti dall’impiego di termovalorizzatori. Oltre tutto, i termovalorizzatori, nelle versioni più evolute, come nell’esperienza della Danimarca, sono dotati di filtri, da sostituirsi periodicamente, proprio per contenere e ridurre al minimo l’immissione nell’atmosfera di fumi e sostanze non salutari. I termovalorizzatori eliminano i rifiuti che, comunque, non si potrebbero riciclare ed in più producono energia, da immettere a servizio dello sviluppo economico. Perché demonizzarli? Perché indulgere ad un “fondamentalismo” verde che non è meno stupido, né meno dannoso, di qualunque altro fondamentalismo?

Sembra normale trasportare altrove i rifiuti che non si riesce a smaltire in loco, come avviene, ad esempio, a Napoli? Pagando, oltre tutto, un alto costo per questo servizio di trasferimento e smaltimento altrove? Ha senso che si critichino i termovalorizzatori e poi si paghi la Germania, che ci consente di smaltire parte dei nostri rifiuti in eccedenza, napoletani e non solo napoletani, negli impianti tedeschi? Per quanti si preoccupano di salvaguardare l’ambiente, la movimentazione ed il trasporto di rifiuti non comportano di per sé enormi rischi di inquinamento? Ci sono rifiuti che vengono trasportati perfino via mare; soltanto quest’idea mette i brividi.

Temo che di tutti questi risvolti molto pratici e concreti, i sedicenni sappiano ben poco. Seguirebbero il primo imbonitore che facesse balenare, davanti ai loro occhi, le magnifiche sorti e progressive della “Green economy“.

Livio Ghersi

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