Cosa significa fare l’inviato di guerra in Siria

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In uno scenario come quello siriano il cronista può raccogliere informazioni sul campo solo a rischio della propria vita ed è costretto ogni giorno a districarsi tra propagande di opposto segno. Ce ne parlano due giornalisti con una vasta esperienza diretta in materia: Cristiano Tinazzi e Alberto Negri

 

È difficile secondo Tinazzi, “raccogliere notizie di prima mano anche perché in questa situazione i punti di informazione sono controllati dalle forze in campo”. “Con l’avvento dei social network e la cancellazione dell’informazione verticale, la situazione è cambiata: si ha accesso a più informazioni ma molte sono spazzatura. Questa difficoltà non è propria solo del conflitto siriano, ma di tutte le guerre. La differenza è che, essendo qui più difficile accedere al territorio, ci si può solo affidare ad alcuni organi d’informazione e fare una cernita”.

Tinazzi fa l’esempio della notizia dell’attacco di domenica: “All’inizio è stato identificato come un convoglio civile, poi Reuters ha specificato che era scortato da militari. Cambia molto perché nel secondo caso il convoglio diventa un bersaglio legittimo”. Della stessa opinione è Negri: “La prima vittima della guerra è la verita’. La propaganda inquina una precisa individuazione dei fatti”.

Come districarsi allora tra propaganda e fake news? Per Tinazzi sono quattro le principali fonti di notizie conflitto: “Le testate turche i cui articoli il più delle volte sono espressione del governo e dell’esercito; le testate curde che enfatizzano ciò che va in loro favore; l’osservatorio per i diritti umani Sohr e la società civile”. “Per avere un quadro più o meno attendibile bisogna mediare tra queste 4 fonti, integrando con i siti di intelligence e quelli di mappe interattive”. 

Tra questi ultimi c’è “Live Ua Map” creato per la guerra in Ucraina: “è una specie di aggregatore sui conflitti che raccoglie mappe, foto, video e notizie sul territorio. Dietro c’è qualcuno che fa da filtro e in più sono verificabili”. In aggiunta a queste 4 fonti c’è il Rojava Information Center (RIC) che all’inizio del conflitto, ha creato un gruppo WhatsApp per i giornalisti per dare loro accesso ad “aggiornamenti sugli sviluppi per metterli in contatto con la popolazione locale. Il gruppo conta oltre 350 giornalisti, provenienti da una varietà di media internazionali, tra cui il Guardian, il Wall Street Journal e l’Associated Press. Tuttavia “il Ric è gestito dai curdi e come le testate turche non è completamente affidabile”.

Per avere un buon accesso alle fonti Negri mette in conto anche un dispendio di denaro: “Ci vogliono i soldi per trovare guide e traduttori disponibili. C’è grande differenza tra quei giornalisti che viaggiano con alle spalle una testata importante e solida e i freelance che arrivano senza assicurazioni. Noi pretendiamo che i giornalisti raccontino la realtà che hanno sotto gli occhi ma dimentichiamo che i sacrifici che fanno sono molti. Sono questi i momenti in cui ci rendiamo conto di quanto sia importante avere un’informazione libera e indipendente. Ecco perché l’informazione va aiutata economicamente, anche solo un minimo. Non può essere gratuita: per avere un’informazione affidabile dobbiamo pagare”.

Fare l’inviato di guerra, conclude Negri, “vuol dire vivere su due fronti: il primo è quello del conflitto, il secondo è quello di coloro che stanno a casa (tv e giornali) e il più delle volte non capiscono nulla. E non sai se il fronte più difficile è quello di guerra oppure quello di chi sta pugnalando la verità alle spalle”.

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