Taiwan: due identità al voto

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Taiwan si appresta ad affrontare un intenso sabato elettorale. Le elezioni presidenziali e politiche sono un appuntamento che, ogni quattro anni, riporta l’attenzione sullo stato di quest’isola, poco più piccola del Bhutan, schiacciata tra le acque territoriali cinesi e il Mar delle Filippine. La corsa alla presidenza di Taiwan è infatti sempre più uno scontro tra un’identità taiwanese e un ritorno alla Cina comunista. Per cosa si vota a Taiwan, e qual è il partito favorito? Che cosa comportano queste elezioni per Pechino? E che cosa c’entrano la guerra commerciale e Hong Kong?

QUALE TERRENO DI SCONTRO?
Sabato 11 gennaio Taiwan si prepara alle quindicesime elezioni presidenziali e vice-presidenziali, nonché alle elezioni per i 113 seggi dello Yuan legislativo, la legislatura unicamerale dell’isola. Nonostante sia spesso identificato dai media taiwanesi come “parlamento”, lo Yuan legislativo è uno dei cinque rami del governo di Taiwan, secondo i principi della costituzione dell’isola.

Le ultime elezioni presidenziali si erano svolte nel gennaio 2016 e il Democratic Progressive Party (DPP), il partito della presidente in carica Tsai Ing-wen, aveva ottenuto il 56% dei voti contro il 31% ottenuto dal suo storico oppositore, il Guomindang (GMD), allora rappresentato da Eric Chu, e il 12,8% del People’s First Party (PFP) di Huang Kuo-chang. La vittoria del DPP aveva messo fine a otto anni di presidenza del GMD. Anche alle elezioni per lo Yuan legislativo, tenutesi ancora una volta in concomitanza a quelle presidenziali, il DPP aveva ottenuto una maggioranza schiacciante e, per la prima volta nella storia del partito, il DPP aveva conquistato la maggioranza dei seggi (68 su 113).

Questa maggioranza ha permesso a Tsai, dal 2016 ad oggi, di portare avanti significative riforme sociali. In primis, nel maggio 2019, Taiwan ha legalizzato il matrimonio tra persone dello stesso sesso, primo paese in tutta l’Asia. La presidente Tsai è anche l’architetto della ‘New Southbound Policy’, un principio di politica estera e commerciale che prevede una maggiore diversificazione delle relazioni commerciali taiwanesi con altri partner oltre la Cina continentale e gli Stati Uniti, da sempre grandi sostenitori di Taiwan. Nel dicembre 2016, il presidente statunitense Donald Trump e quello taiwanese scambiarono infatti una breve conversazione telefonica durante la quale Tsai si congratulò per la vittoria di Trump alle elezioni. La telefonata tra le due cariche fu la prima dal 1979, anno in cui nacque il ‘Taiwan Relations Act’, un accordo che prevede il sostegno statunitense alla difesa dell’isola. La vendita di armi statunitensi al governo taiwanese rimane un grave motivo di contenzioso tra Pechino e Washington: solo nel 2019, Taiwan ha speso circa 10,7 milioni di dollari per l’acquisto di armi e tecnologie belliche.

QUALI CANDIDATI?
I tre partiti che costituiscono l’universo politico di Taiwan sono tutti in corsa verso la presidenza. Stando agli ultimi sondaggi, la presidente uscente Tsai detiene circa il 50% delle preferenze elettorali da oltre due mesi. Un dato significativo per il suo DPP che alle elezioni amministrative del 2018 era stato sconfitto dal GMD. La sconfitta era stata così bruciante (48,7% dei voti andarono al GMD contro il 39,2% detenuti dal DPP) da costringere Tsai a dimettersi dalla leadership di partito, cedendo la carica prima al suo vice Li Yu-chang, e poi a Cho Jung-tai che lo guida da ormai un anno.

Sebbene il governo taiwanese sia storicamente diviso tra il DPP e il GMD, queste elezioni comprendono anche il PFP, un partito di centro-destra nato nel 2000, e capeggiato da James Soong, attuale candidato alla presidenza. Soong è uno storico sostenitore della riunificazione tra Taiwan e Cina e, alla luce dei sondaggi poco favorevoli, la sua corsa alle presidenziali ha come conseguenza il danneggiamento delle chance del candidato del GMD, Han Kuo-yu, già sindaco della città di Kaohsiung, di riuscire a rovesciare la leadership del DPP. Il PFP e il GMD hanno infatti un elettorato molto simile, che è composto da coloro che auspicano il rientro dell’isola sotto il governo di Pechino.

Composto dai superstiti alla Guerra Civile del 1949 fuggiti a Taiwan dopo la sconfitta per mano del Partito Comunista Cinese (PCC) di Mao Zedong, il GMD ha governato ininterrottamente sull’isola per 55 anni, fino al 2000, quando Chen Shui-bian del DPP vinse le presidenziali per due mandati consecutivi. Il GMD riuscì a tornare alla presidenza solo nel 2008, sotto la leadership di Ma Ying-jeou, il cui controverso incontro con il presidente Xi Jinping a Singapore nel 2015 costò un nuovo ciclo presidenziale al partito. Già nel 2014, infatti, centinaia di studenti avevano occupato lo Yuan legislativo per settimane, durante un ciclo di proteste che i media soprannominarono il ‘Movimento dei girasoli’, chiedendo una maggiore trasparenza negli accordi commerciali con la Cina. Durante l’incontro a Singapore, Ma aveva ribadito la validità del “Consenso del 1992” che proponeva la “politica di un’unica Cina”. In breve, questa norma riconosce un solo stato sovrano a portare il nome ‘Cina’ (la nomenclatura ufficiale per Taiwan infatti è Repubblica di Cina, mentre quella assegnata alla Cina continentale è Repubblica Popolare Cinese). Il DPP, e la presidente Tsai in particolare, non riconoscono il Consenso del 1992 e si oppongono a qualsiasi interferenza esterna alla sovranità di Taiwan. La questione cinese rimane infatti al centro della propaganda elettorale di tutti i partiti, e Tsai, insieme al suo vice l’ex premier William Lai, rimane ancorata ai principi cardine del DPP, quali il nazionalismo e l’anti-comunismo così come il rispetto dei diritti umani e la costruzione di un’identità taiwanese. Il DPP è in carica dal 2016 sotto la presidenza di Tsai che concorre ora per un secondo mandato presidenziale.

QUALE DIBATTITO ELETTORALE?
Al centro dei dibattiti elettorali rimane il rapporto tra Taipei e Pechino. La presidenza di Tsai, in particolare, ha inacidito i rapporti con la Cina continentale. Pechino ha infatti interrotto il meccanismo formale di dialogo con Taiwan e aumentato la presenza militare intorno all’isola. Nonostante le rassicurazioni, il PCC teme che il DPP punti a dichiarare formalmente l’indipendenza di Taiwan. Tsai ha infatti ripetutamente affermato di voler mantenere lo status quo, soprattutto poiché ritiene che Taiwan sia già uno stato sovrano indipendente.

La Cina continentale rimane tuttavia il principale partner commerciale dell’isola: nel 2018 gli scambi tra Pechino e Taipei ammontavano a circa 94,5 miliardi di dollari. Il mercato cinese è anche la destinazione di investimento preferita dalle società taiwanesi che ne apprezzano i bassi costi di produzione. Tuttavia, la guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti è andata, almeno in parte, a ledere questa preferenza. Per evitare le imposizioni di dazi sui beni esportati negli Stati Uniti dalla Cina, infatti, le imprese taiwanesi hanno già cominciato a riconsiderare la propria posizione, preferendo rientrare sull’isola.

Nonostante la guerra commerciale sia andata a favorire un ritorno a Taiwan, la spinta di Pechino verso il consolidamento delle relazioni commerciali con i propri partner internazionali attraverso la Belt and Road Initiative (BRI) ha danneggiato lo standing internazionale di Taipei. Taiwan è infatti riconosciuto come stato indipendente solo da 15 paesi: Belize, Guatemala, Haiti, Honduras, Isole Marshall, Nauru, Nicaragua, Palau, Paraguay, Saint Kitts and Nevis, Santa Lucia, Saint Vincent e Grenadines, Swaziland, Tuvalu e Vaticano. Fino al settembre 2019, i paesi erano stati 17: Kiribati e Salomone hanno cessato le relazioni diplomatiche con Taipei, aprendo quelle con Pechino. Il 7 gennaio l’attuale presidente di Kiribati, Taneti Maamau, si è recato in visita di stato in Cina, dove ha firmato un Memorandum of Understanding di adesione formale alla BRI. Lo stesso iter era stato percorso da Salomone lo scorso ottobre, quando Manasseh Sogavare, primo ministro dall’aprile 2019, aveva anch’egli visitato Pechino e aderito alla BRI.

TAIWAN COME HONG KONG?
Nel discorso di inizio anno del 2019, il presidente cinese Xi Jinping ha incluso un monito a Taiwan, presentando i principi di ‘riunificazione pacifica’ e ‘un paese, due sistemi’ – la formula che amministra anche Hong Kong e Macao – come la scelta più naturale per il futuro delle relazioni tra Pechino e Taipei. Tuttavia, per la prima volta nella storia del PCC, Xi ha anche menzionato la possibilità di usare la forza per portare a termine l’obiettivo di riunificazione nazionale, fissato da Pechino per il 2049, anno del centenario dalla fondazione della Repubblica Popolare Cinese. La retorica aggressiva di Xi ha però fatto la fortuna della presidente Tsai, tra i principali oppositori della riunificazione di Taiwan con Pechino. In particolare, la proposta di Xi di estendere la formula ‘un paese, due sistemi’ a Taiwan ha dato a Tsai la possibilità di fare leva sulla disastrosa applicazione di questo principio a Hong Kong, per costruire nell’immaginario dell’elettorato taiwanese uno scenario di riunificazione che avrebbe potuto portare non solo sviluppo economico, ma anche instabilità politica. Seppur continuamente sotto attacco, l’identità taiwanese, in mutamento continuo dal 1949 ad oggi, trae la sua forza da un connubio favorevole tra gli Han, fuggiti dalla Cina continentale, e le popolazioni indigene dell’ex-isola di Formosa. Non a caso, infatti, Tsai ha tenuto il discorso augurale per il Capodanno cinese del 2019 sia in cinese mandarino sia in hakka, la lingua delle popolazioni indigene. La corsa alla presidenza dell’isola rappresenta quindi una corsa alla definizione dell’identità taiwanese, divisa tra la realtà di uno stato radicato nell’isola in cui è nato e si è sviluppato, e i forti legami storici ed economici con Pechino. Tuttavia, le elezioni rimangono anche una tappa importante nei piani di riunificazione nazionale di Pechino, già messi in seria difficoltà dalle lunghe proteste a Hong Kong. Non a caso lo scorso 4 gennaio, il PCC ha nominato Luo Huining a nuovo Direttore dell’Ufficio di collegamento tra Pechino e Hong Kong. Luo è infatti considerato un ‘hardliner’ nel PCC, grazie al ruolo svolto nelle campagne di stabilizzazione del Tibet del 2013 e in quelle anti-corruzione dello Shaanxi del 2016. Una nomina che sottolinea come le proteste di Hong Kong non solo danneggino il principio ‘un paese, due sistemi’ agli occhi dei taiwanesi, ma che rende ancora più chiaro quanto pressante sia per Pechino definire le tappe della riunificazione nazionale per rispettare la scadenza imprescindibile del 2049. E Taiwan, in questi piani, continua a rimanere l’ostacolo maggiore.

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