Recensione di “Quel che manca di te” (Mursia Editore)
Cosa hanno in comune Stefano ed Eleonora? Il primo è un noto architetto dal carattere burbero, uomo tormentato, emerito asociale. Eleonora invece è una ventenne in cerca di lavoro che sogna di poter frequentare l’università per diventare un’infermiera e aiutare gli altri. I due sono uno l’opposto dell’altra. Eppure il Destino li farà incontrare. Certi incontri devono avvenire per trasformare le nostre esistenze e cambiarci nel profondo. È ciò che accade ai due protagonisti del nuovo romanzo di Elena Moretti, vincitrice dell’edizione 2017 del talent letterario Romanzo Italiano Rtl 102.5 e Mursia Editore.
Il nuovo lavoro della Moretti si intitola “Quel che manca di te” (Mursia Editore). Ancora una volta la Moretti si conferma una scrittrice con la “s” maiuscola perché è in grado di costruire personaggi ben delineati psicologicamente ai quali è impossibile non affezionarsi. Le pagine di questo libro saranno divorate letteralmente dal lettore perché sono ricche di colpi di scena ed emozioni intense nelle quali è facile identificarsi.
“Quel che manca di te” è un romanzo che non parla solo d’amore puro e di valore. Affronta tematiche esistenziali come la compassione, l’empatia, l’altruismo, la voglia di cambiamento, l’amicizia. Ci induce a riflettere sul sulla funzione vitale che certi incontri e certe persone hanno nella nostra vita. Ci sono infatti persone che inevitabilmente ci cambiano, ci spronano a diventare quello che siamo realmente. Esse sono importanti per noi e ci fanno da specchio. A volte in esse cogliamo ciò che non accettiamo in noi stessi come i difetti, le incoerenze, le contraddizioni e gli errori del passato. Ma “l’altro” è fondamentale per conoscerci meglio, per attivare una sorta di “redenzione” che ci permetterà di splendere e diventare esseri veri e completi. È ciò che succede a Stefano grazie all’amore e all’amicizia di Eleonora. Sarà lei la persona meno probabile, quella imprevista che farà ingresso nella sua vita e lo spronerà a credere in se stesso, sia professionalmente che umanamente.
Una storia che trasuda vita pura e autentica, voglia di rimettersi in gioco, cambiare ed evolvere umanamente. La musica regna sovrana in questo romanzo. Fa da sfondo all’intera storia con il suo potere di rendere magici e indelebili certi momenti e ricordi. Elena Moretti ci insegna a credere negli altri, ad acquisire la consapevolezza che spesso ciò che ci manca è proprio il contatto profondo e autentico con noi stessi che solo l’incontro con l’atro può restituirci.
Intervista all’autrice
Com’è nata l’idea creativa di scrivere questo romanzo? Cosa l’ha ispirata?
Tutto nacque circa vent’anni fa, quando ero volontaria in Croce Bianca. Una sera, mentre prestavo servizio con una squadra che non era la mia solita, una ragazza che era di turno insieme a me mi raccontò di essere stata invitata a casa di un conoscente che, tempo addietro, aveva subito una lesione alla colonna vertebrale, perdendo di conseguenza l’uso delle gambe e ritrovandosi in sedia a rotelle; era rimasta fortemente sorpresa dal fatto che quest’uomo riusciva a fare da solo le pulizie in casa propria, senza volere l’aiuto di nessuno. Questa scena stimolò parecchio la mia fantasia (già solitamente galoppante): sono infatti una persona che ha sempre immaginato storie più o meno deliranti prima di addormentarsi. Per anni, quindi, ho covato e ricovato questa idea nella mia testa, dando vita a un personaggio orgoglioso, fortemente deturpato nel corpo, ma con questa fissazione del “faccio tutto da solo nonostante sembri impossibile a chiunque”. Nel tempo la storia si è arricchita a dismisura (ci sono voluti infatti più di dieci anni prima che riuscissi a scriverla per davvero) e ha preso un taglio romantico grazie all’introduzione di una controparte tutto pepe. I protagonisti del romanzo sono infatti un architetto all’apice della propria carriera e una monella di periferia. Lei selvatica, tappetta, brufolosa, col sex appeal di una bietola: una ventiduenne dal carattere spumeggiante e allegro, in grado apparentemente di infischiarsene di tutto e tutti, sola al mondo e senza un soldo. Lui figlio di papà, solo per scelta, politically scorrect con chiunque. Un bell’uomo, certo, almeno dalla vita in su. Perché dalla vita in giù non gli è rimasto molto: anni addietro s’è giocato le gambe in un incidente stradale. Per quanto, obiettivamente, la loro si possa definire una storia d’amore, io preferisco vederla come un romanzo di formazione per entrambi i protagonisti. Metto infatti in scena due mondi “antiparalleli”, che hanno talmente poco in comune da arrivare a mettersi in discussione a vicenda per poi scoprirsi reciprocamente indispensabili.
Secondo lei è vero come nel caso dei protagonisti del suo romanzo che gli opposti si attraggono?
Io ritengo, francamente, che nella realtà possano attrarsi gli opposti così come i simili. E che entrambe queste attrazioni possano essere salvifiche o letali. Non credo ci sia una regola, men che meno uno standard. Vale per l’amore così come per l’amicizia. In letteratura è possibile mettere in scena l’uno o l’altro quadro, anche se forse il primo è più abusato. Io credo comunque che entrambi possano parlare alle menti e ai cuori dei lettori.
Dal suo romanzo emerge la verità che sono proprio le condizioni più disagiate e le difficoltà a creare il terreno fertile per sviluppare i propri talenti. Lei che ne pensa?
So di correre il rischio di suonare ripetitiva, ma penso che nella realtà siano valide entrambe e cose: le condizioni disagiate e le difficoltà possono forgiarci così come distruggerci. Dipende dal nostro carattere, dalle esperienze pregresse, da chi abbiamo intorno, dall’età che avevamo quando il mondo ha iniziato a crollarci addosso, dalle mani tese che incrociamo, dall’educazione che ci è stata impartita, dal numero di botte che la vita si è divertita a darci e da un migliaio di altre variabili personali e interpersonali. Ma, proprio perché sono cosciente di questa ambivalenza, io preferisco raccontare storie di personaggi che non si arrendono e non soccombono, nonostante le botte e la fatica del vivere, nella speranza di essere almeno un pochino di sostegno e aiuto a chi si batte con se stesso e la propria disagiata situazione. Diffondere pessimismo, disincanto e sfiducia non è nei miei interessi, anche se per qualcuno suona più realistico e maturo del mio sguardo fiducioso sulla vita.
“Quel che manca di te” è anche una storia di amicizia, quella che diventa una sorta di cura nelle situazioni difficili. Per lei cos’è’ l’amicizia?
Una cosa indispensabile per l’equilibrio psicologico di ogni individuo. Non siamo isole e possiamo comprendere appieno noi stessi solo specchiandoci negli altri. Il confronto è vitale. Personalmente sono piuttosto riservata e poco di compagnia. Ho pochi amici, scelti, spesso maschi (ho poco feeling con il gentil sesso, esattamente come la mia protagonista); non amo i pettegolezzi e le chiacchiere inutili. In compenso vengo spesso eletta a confidente o confessore da gente incasinatissima e mi ritrovo a sostenere le persone più disparate. È una cosa per cui sono molto grata: mi permette di crescere e di considerare con occhi sempre nuovi la mia vita e la mia esperienza. Oltre a permettermi di dare una mano se posso e dove posso.
Eleonora è una ragazza che si prende cura degli altri. È una ragazza altruista come poche al giorno d’oggi. Cosa significa prendersi cura degli altri?
Essere adulti. Ci riflettevo sopra giusto un paio di giorni fa. In natura, in specie animali paragonabili alla nostra, il cucciolo è naturalmente egoista: si tratta di creature fragili, per le quali l’essere ripiegate su se stesse e i propri bisogni è una strategia di sopravvivenza e per le quali la generosità potrebbe essere letale. L’adulto è invece colui che difende la cucciolata e gli altri soggetti fragili e provvede ad essi mettendo in gioco la propria forza e le proprie energie, spesso con grande spirito di abnegazione. Anche per noi non è tanto diverso: i bambini sono innocentemente egoisti, così come tornano ad esserlo, molto spesso, i grandi anziani, anch’essi soggetti fragili e vulnerabili. Lo spirito di sacrificio in vista del bene dei più piccoli e deboli è, o comunque dovrebbe essere, una prerogativa dell’adulto, del soggetto in grado di sobbarcarsi disagi perché i membri più deboli della propria cerchia non soccombano. Basti pensare a quante fatiche e sacrifici fanno tutti i genitori. In un contesto innaturale come quello in cui viviamo noi, però, è ovvio che alla cura degli altri è indispensabile educare. Ed educare sin da piccoli, perché le voci che spingono all’edonismo e all’individualismo sono attualmente molto più forti di quelle che decantano lo spirito di sacrificio e la compassione per gli altri. Probabilmente perché sono più redditizie. Ma restare ripiegati su sè stessi, incapaci di notare i bisogni degli altri, significa sostanzialmente restare immaturi. Ovvero cuccioli. Quindi rischiare di soccombere quando ci penserà da sola la vita a metterci davanti un bel predatore. Perdonate il taglio biologico che ho dato alla questione, ma io non ho una formazione umanistica. Quanto ad Eleonora, non credo sia poi così una rarità. Semplicemente, la generosità e le belle notizie al giorno d’oggi non fanno scoop. Nemmeno fra le pettegole del paese, figuriamoci sui rotocalchi. Ma la realtà è molto più sfaccettata e complessa di come la si descrive nelle classiche edizioni lament-time made in Italy.
Stefano è una persona tormentata dal suo passato fantasma. Che ruolo ha per lei il passato?
Premetto che Stefano, a differenza di Eleonora, non mi somiglia per niente. Infatti è stato, fra i due, il personaggio più divertente da muovere e far pensare. Ho sempre amato i personaggi tormentati e, volendone creare uno, un passato complesso era d’obbligo. Quando scrivo, amo svelare il passato dei personaggi poco a poco, spesso a mo’ di colpo di scena, per raccontarne il carattere e la psiche a tutto tondo. Perché, comunque sia, è il nostro vissuto a forgiarci. Siamo il risultato di quello che abbiamo passato e di come lo abbiamo affrontato. Mi piace giocare su questo, con le persone di carta che creo. Quanto a me, io non faccio a botte con il mio passato. Sono contenta di come la vita sia andata e sono cosciente di averla indirizzata io. Ho vissuto secondo la mia natura e, quando le cose si sono messe di traverso (perché prima o poi si mettono di traverso per tutti), mi sono rimboccata le maniche e sono sopravvissuta. Sfasciandomi un po’ la muscolatura della schiena, ma sono sopravvissuta. Niente di interessante, letterariamente parlando, non trovate?
Nel suo romanzo l’amore vero trionfa sulle difficoltà e sulle zone d’ombra che ognuno porta con sé e i difetti. Al giorno d’oggi in cui dilaga l’individualismo sfrenato, si può parlare ancora di amore vero e autentico?
Se ne è mai potuto parlare? O è sempre e solo stata un’invenzione dei poeti o di noi cantastorie? La mettiamo ai voti? Forse tutto dipende da cosa intendiamo con Vero Amore. Perché, se intendiamo un qualche Principio Primo che dimora lassù, fra le nubi e la folgore, e ogni tanto si degna di pioverci in testa a tradimento scombussolandoci la vita, forse no, non esiste proprio. Né mai è esistito. Si tratta solo di un mito. Se dobbiamo intendere invece un particolare assetto ormonale allora esiste eccome ed esiste da sempre, ma non merita l’appellativo “Vero” tanto più di una cotta di tre giorni. In fondo, sono entrambi solo un balletto di mediatori chimici nel nostro cervello. Niente su cui valga la pena di spargere i fiumi di inchiostro che da secoli si sprecano sull’argomento. Cosa esiste, dunque? Solo persone che si vogliono bene. Solo persone attratte reciprocamente che decidono, ostinatamente, di continuare a volersi bene e a sostenersi a vicenda nonostante tutte le grane che la vita si divertirà a disseminare sul loro cammino. E queste persone possono esistere in qualsiasi luogo e in qualsiasi tempo, e possono volersi bene qualunque sia il contesto. Anche al giorno d’oggi. Quindi sì, secondo me l’amore vero esiste eccome. Ed esiste tuttora. Ma esiste solo se e quando qualcuno decide di coniugarlo attivamente al tempo presente. Con forza e ostinazione. Anche per tutta la vita. E fuori dal mito. Tali sono i miei personaggi. E tali siamo io e mio marito. Come dicevo poco fa, a me piace definire “Quel che manca di te” un romanzo di formazione per entrambi i protagonisti. Che poi fra loro ci sia del tenero… beh, non lo nega nessuno! Ma è l’incontro stesso di un “pianeta diverso” a dare il “la” al cambiamento in ognuno dei due, non tanto l’attrazione reciproca. Finché la psiche dei personaggi è malata, anche il loro amore sarà malato. Sarà solo quando ognuno avrà saldato i propri conti in sospeso con la vita, che anche l’amore entrerà in una dimensione vivificante. E passerà da passione indesiderata ad azione scelta e portata avanti con coraggio.
Ora parliamo di Elena. . . quando e com’è nata la passione per la scrittura?
Probabilmente quella della scrittura è una strategia che ho inconsciamente messo in atto per sopravvivere alla mia stessa testa. Perché, sapete, non è facile convivere con un cervello che non se ne sta mai zitto e, in back-ground, macina e frulla, impasta e reimpasta, rifrulla e rimacina tutto il santo giorno. La fantasia non mi è mai mancata: già a sei anni sognavo ad occhi aperti di fatine gemelline telepatiche. Da qui a riuscire a creare delle storie sensate, però, il passo è stato molto lungo. E il gap temporale pure, dato che sono riuscita a mettere in fila qualche passaggio coerente solo dopo aver passato abbondantemente la trentina. In mezzo ci sono stati il liceo, il volontariato, il matrimonio, la laurea e due figli (tradotto: esserini urlanti e insonni): uno sfogo mi serviva proprio, per sopravvivere al mio nuovo ruolo di lavoratrice part-time e mamma/casalinga per tutto il resto del time (diurno e notturno). Il ritorno di fiamma, a dire il vero, è stato dapprima con i fumetti e il cinema di animazione, passioni che avevo da ragazza e che si erano un po’ perse fra le centomila cose sedicenti serie in cui mi ero impegnata negli anni precedenti. A differenza del passato, questa volta avevo le condizioni per coltivarle: quello degli sfegatati di fumetti è infatti un mondo vispo e variegato, che non manca di offrire possibilità di espressione e condivisione. Bazzicando in rete ho scoperto che esisteva la possibilità di scrivere e pubblicare on-line avventure di propria invenzione con i personaggi dei fumetti di altri autori. Si tratta di storie non originali e per questo non commercializzabili, note fra gli appassionati col termine di fanfiction. Niente di serio, quindi l’ideale per rilassare i nervi: nessuna competizione, nessuna pianificazione delle vendite, nessuna ansia riguardo a come ti valuterà il grande pubblico. Perché il pubblico è ristretto e, soprattutto, pazzo come te. Per me e il mio stress questo mondo è stato un toccasana. Vuoi perché nickname e monitor mi hanno sempre fatta sentire al sicuro, vuoi perché, parlando da appassionata ad appassionati, ho sempre trovato un grande appoggio. Sono stati i lettori che avevo on-line ad esortarmi a provare a lavorare su personaggi miei, in storie del tutto originali. Devo moltissimo a tutti loro.
Quanto è cresciuta artisticamente Elena da “Quasi a casa” (Mursia) a “Quel che manca di te”?
Niente. Zero. Nemmeno una virgola. Semplicemente perché “Quel che manca di te”, in verità, è stato scritto due anni prima di “Quasi a casa”. Se ne stavano entrambi nel mio cassetto virtuale: il rimo risale al 2012, il secondo al 2014. Quando nel 2017 ho sentito in radio del concorso RTL e Mursia e ho deciso di partecipare, ho scritto “Quasi a casa” perché mi sembrava fosse più a tema. Tramite il concorso si cercava un romanzo che potesse esprimere tutta la potenza della parola e, per quanto il protagonista di “Quasi a casa_” (un adolescente difficile) parli peggio di come magia, mi sembrava che di cose potenti ne dicesse parecchie, quindi ho scommesso su quel romanzo. Purtroppo, dal 2017 ad oggi, la mia salute è stata piuttosto fragile, di conseguenza la possibilità di ritagliarmi del tempo per la scrittura è andata praticamente morendo. Mi auguro la situazione migliori un poco nell’immediato futuro.
Perché il lettore de IlCorriereNazionale.net dovrebbe leggere il suo romanzo?
Non credo di essere la persona più a adatta a dirlo: purtroppo sono di natura riservata, timida e molto vergognosa, per me è molto destabilizzante pensare che il frutto delle mie fantasie arrivi in mano a tanta gente e sia in qualche modo giudicato e vivisezionato. Cerco sempre di non pensarci. Per questo sono negata a farmi pubblicità, non so creare aspettative, perché poi sarei terrorizzata dall’idea di deluderle. Forse la nostra Mariangela è più adatta di me per questo compito. Io lascerei volentieri a lei la parola.
Mariangela Cutrone