Può fermarsi il Parlamento?

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La comunità di persone che fa parte dell’Italia, “Repubblica democratica fondata sul lavoro”, organizza la propria vita e svolge le proprie attività basandosi su una serie di principi e di regole inscritte in testi fondamentali, secondo la graduazione che a tali testi il nostro ordinamento attribuisce: viene in rilievo l’art. 1, comma 2, Cost, secondo cui “la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, nel suo collegamento con l’art. 117, comma 1, che impone al legislatore nazionale e a quelli regionali, e quindi a tutti i cittadini e gli operatori di operare “nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. Anche in una fase acuta di crisi come quella che viviamo, è nella lettura di questi principi e di queste regole che dobbiamo ritrovare la nostra bussola come comunità e come istituzioni.

Proviamo allora a rileggere questi principi e queste regole, partendo, come è doveroso, da quelle regole che hanno un grado di astrazione più elevato, non a caso ricomprese tra i principi della nostra Costituzione. La chiave di volta non può che essere l’art. 2, il

quale, affianco al riconoscimento e alla

garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali dove si svolge la sua personalità, “richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Il bilanciamento tra diritti e doveri costituisce dunque la prima chiave di lettura dell’equilibrio costituzionale, in via generale e in periodi ordinari. In particolare, in una fase di crisi derivata da una emergenza sanitaria, il bilanciamento che va costruito riguarda specificamente il diritto alla salute (art. 32), che la Costituzione definisce “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”, obbligandoci sin da un primo approccio a contemperare la dimensione individuale e quella collettiva del

diritto alla salute. L’una non può andare a scapito dell’altra: nel nostro ordinamento costituzionale non è ammissibile l’annichilimento del diritto individuale a favore della collettività, ma nemmeno è pensabile

che l’interesse collettivo possa travolgere la sfera della tutela soggettiva. Facendo riferimento ad uno schema di ragionamento che deriva dai testi costituzionali europei, si potrebbe dire che questo necessario

bilanciamento costituisce un tratto che definisce, ai sensi dell’art. 4, comma 2, TUE, l’identità nazionale italiana, non rendendo possibili soluzioni drastiche di deliberato scarso controllo sulla diffusione del virus,

come quelle che sembravano profilarsi per il Regno Unito. In nome dell’interesse collettivo

alla salute, possono essere limitati – già in situazioni ordinarie – situazioni soggettive che  rientrano nella dimensione dei diritti fondamentali. Per quanto riguarda il domicilio, trattato in generale con le stesse regole della libertà personale, “gli accertamenti e le ispezioni per motivi di sanità e incolumità pubblica … sono regolati da leggi speciali” (art. 14, comma 3). La legge può stabilire in via generale limitazioni alla libertà di circolazione e di soggiorno “per motivi di sanità e di sicurezza” (art. 16, comma 1).

“Per comprovati motivi di sicurezza e incolumità pubblica” le autorità possono vietare le riunioni in luogo pubblico (art. 17, comma 3). La tutela della dignità umana, a cui fanno riferimento gli articoli 2 e 3 Cost.,

e che costituisce un limite all’iniziativa economica, non è comprensibile se non tenendo presente la sfera della salute, sempre nella sua duplice dimensione, individuale e collettiva, secondo gli orientamenti della

più recente giurisprudenza costituzionale.

L’intervento limitativo sulle libertà, in  particolare su quelle di domicilio, soggiorno e  circolazione è tutelato – in funzione garantista, secondo una tradizionale, ma insuperata ricostruzione – da una riserva di legge che viene definita rinforzata, giacché è la stessa Costituzione che definisce gli interessi che possono giustificare l’intervento legislativo. La consolidata giurisprudenza costituzionale ritiene – è importante ricordarlo – che la riserva di legge sia assolta anche se si procede con i tradizionali atti con forza di legge (decreto di legge, decreto legislativo delegato).

La Costituzione italiana del 1948, per ragioni da rintracciarsi nella storia del nostro Paese, non contiene – a differenza di altre Costituzioni – disposizioni sulla distribuzione dei

poteri in una fase di emergenza. Vi sono nel  testo costituzionale tre diverse tipologie di situazioni che prevedono la possibilità dello

spostamento delle competenze costituzionalmente previste. La prima, regolata nell’art. 78, non a caso

inserita nella parte sul Parlamento, riguarda lo stato di guerra, che deve essere dichiarato dalle Camere, conferendo al Governo “i poteri necessari”. La seconda situazione è quella dei “casi straordinari di necessità e urgenza”, in cui il Governo adotta, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, che devono essere convertiti in legge entro sessanta giorni (art. 77). La terza riguarda il rapporto tra Stato, Regioni e autonomie locali (art. 120, commi 2 e 3), prevedendo che l’esercizio dei poteri sostitutivi, tra l’altro, nel caso di “pericolo grave per la sicurezza e l’incolumità pubblica”,

deve avvenire nel rispetto dei principi

di sussidiarietà e di leale collaborazione, così come procedimentalizzati da apposita legge.

In tutti i circuiti costituzionalmente previsti di gestione di situazioni extra ordinem, la Costituzione chiede il mantenimento di un rapporto – pur derogatorio del regime ordinario – tra legislatore, quale espressione della rappresentanza politica del Paese, e governo, quale titolare del potere esecutivo, affidando in tutti i casi un ruolo di garante e custode al Presidente della Repubblica, secondo i poteri a lui attribuiti dall’art. 87 (rappresenta l’unità nazionale rispetto a Regioni ed enti locali; dichiara lo stato di guerra; emana i decreti aventi valore di legge).

In mancanza di esplicite previsioni costituzionali, altri circuiti dell’emergenza non possono che essere di rango sub costituzionale, come dimostra tutta l’esperienza italiana della protezione civile, dalla prima legge del 1992 al dlgs. 1 del 2018.  Lo schema in questo caso è quello della dichiarazione dello stato di emergenza, ai sensi dell’art. 24 del dlgs. 1/2018, che determina ambito di intervento e poteri delle

ordinanze di protezione civile (art. 25), spettanti al Presidente del Consiglio dei Ministri (art. 7), secondo i limiti tradizionali delle ordinanze contingibili e urgenti.

Giusto o sbagliato che sia, la nostra Costituzione non contempla dunque la figura del dittatorio di altre forme commissariali diverse: se ne potrà discutere, anche facendo tesoro dell’esperienza di questi giorni. In ogni caso, già all’interno delle tre ipotesi ricordate previste in Costituzione ovvero secondo lo schema della protezione civile, ci si può muovere con spazi abbastanza ampi.

Nel caso dell’emergenza coronavirus, il Governo ha prima (31 gennaio 2020) adottato la dichiarazione dello stato di emergenza, ai sensi dell’art. 24, per poi utilizzare in primo luogo un decreto legge (6 del 2020, convertito in  legge con legge n. 13 del 2020), che ha autorizzato il Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro della sanità, sentiti i ministri dell’interno, della difesa, dell’economia e finanze, e gli altri ministri competenti (art. 3), ovvero altre autorità  competenti  (art. 2), ad adottare le misure urgenti per evitare la diffusione del Covid – 19, previste dall’art. 1. A questo decreto legge hanno poi fatto seguito numerosi decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, decreti di altri ministri, ma anche altri decreti legge, fino  al decreto legge n. 18, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 17 marzo 2020.

Lo strumento del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri è sicuramente strumento più rapido e flessibile in una situazione come  quella attuale, anche se sconta il rischio di una  sovraesposizione del titolare del potere. Tutti sappiamo che il Presidente del Consiglio, anche in fasi di emergenza, avrebbe lavorato a stretto contatto con gli esperti dei partiti. Ma in una fase di debolezza dei partiti, come quella attuale, il reale processo decisionale rischia di essere più oscuro: ad esempio, come è organizzata la catena che conduce dal Comitato tecnico scientifico al capo della protezione civile e infine al Presidente del Consiglio o ai ministri competenti? Il decreto legge, pur scontando tutti i tradizionali difetti che conosciamo circa il procedimento di formazione (riformulazioni e ripensamenti fino all’ultimo momento, che, cosi come succede per tutti gli interventi di questa portata, hanno bloccato il decreto legge approvato in Consiglio dei ministri il 16 marzo e pubblicato solo nella notte del 17) appare più garantista per il coinvolgimento del Presidente della Repubblica, chiamato all’emanazione dell’atto, e del Parlamento, chiamato alla conversione in legge. Lo schema finora seguito dal Governo appare invero scontare qualche incertezza nella scelta dello strumento e ha provocato in dottrina qualche dubbio. Tali dubbi potrebbero  essere sciolti facendo riferimento ai contenuti degli atti di volta in volta riguardati: laddove  i contenuti intervengano solo nei limiti tipici  delle ordinanze contingibili e urgenti, rispettando i criteri della provvisorietà, della non astrattezza, della proporzionalità con  l’emergenza a cui si fa riferimento, i decreti del  Presidente del Consiglio dei Ministri (che sembrano avere una duplice legittimazione, una basata sul primo decreto legge, l’altra in quanto ordinanze di protezione civile) possono essere uno strumento adeguato; qualora invece i contenuti non rispondano a queste caratteristiche ovvero abbiano effetti permanenti o incidano sul bilancio ovvero manchi la necessaria proporzionalità e pertinenza si dovrebbe ritenere doveroso – anche nel caso straordinario e urgente provocato dall’emergenza coronavirus – l’intervento con atto con forza di legge.

Nella conversione in legge del decreto legge – al fine di evitare la reiterazione, che pur in questi casi sarebbe possibile, ai sensi della  pronuncia 360 del 1996 della  Corte Costituzionale – si annida però un problema che sta emergendo proprio in questi giorni, quello della effettiva praticabilità delle due Camere. Nella solenne “democraticità” delle malattie, il virus non sta risparmiando politici

e parlamentari, molti dei quali, anche quelli sani, dovrebbero raggiungere Roma, spostandosi dai loro luoghi di lavoro e di residenza, cosi aumentando il rischio di contagio. Il Paese – si è ricordato giustamente da parte del Presidente del Consiglio – non si può bloccare. E, cosi, l’invito, la raccomandazione (che va sempre più assumendo la natura di un ordine) a rimanere a casa non può riguardare tutti  indistintamente: gli ospedali non possono  bloccarsi; le forze di polizia, i servizi pubblici, alcune filiere produttive, il trasporto delle merci e delle derrate nemmeno, pena la morte delle persone e l’asfissia di tutto il Paese. Può fermarsi il Parlamento? Per le ragioni che abbiamo sinteticamente provato a ripercorrere in questa nota, sicuramente no. Può

il Parlamento anche solo rischiare di fermarsi?

La risposta non può che essere altrettanto negativa. E, allora, come comportarsi in una situazione come quella che stiamo vivendo,  eccezionale, ma il cui ripetersi non può escludersi a priori? In definitiva, è

possibile organizzare i lavori delle Camere senza la presenza fisica dei parlamentari? Il primo riferimento costituzionale è dato dall’art. 64 Cost., che al terzo comma prevede che “le deliberazioni di ciascuna Camera e del Parlamento non sono valide se non è presente la maggioranza dei loro componenti, e se non sono adottate a maggioranza dei presenti, salvo che la Costituzione prescriva una maggioranza speciale”. La “presenza” a cui fa riferimento la disposizione significa necessariamente compresenza fisica in Aula (o nelle commissioni)? Senza voler qui

ricorrere a richiami filosofici, a me pare che in un mondo che si sta sempre più orientando verso ampie forme di collegamento virtuale (i processi possono essere telematici, i luoghi  da cui ci collega sono considerati a tutti gli effetti camera di consiglio, l’insegnamento può svolgersi on line, i consigli di amministrazione possono farsi in videoconferenza, l’attività politica delle Regioni e degli locali può svolgersi con collegamenti on line), l’idea che  il concetto di “presenza” richiamato dalla Costituzione debba necessariamente significare compresenza fisica sia obsoleta. Forse era l’interpretazione che ne

davano i Costituenti nel momento della  approvazione della Costituzione, ma il criterio  della cd. “pietrificazione” è abbondantemente superato, come dimostra la vicenda interpretativa del termine “paesaggio” contenuto nell’art. 9 Cost. L’apertura dunque a forme di collegamento virtuale o di voto a

distanza a me sembra, in via teorica, possibile  (non mi pare irrilevante peraltro che l’insindacabilità garantita dall’art. 68, comma 1, riguardi “le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle funzioni”, non solo quelli espressi in Aula). Ma ciò non basta a considerare chiusa la questione. Vale per i parlamentari, come per ogni cittadino, l’art.

48  Cost. “Il voto è personale ed eguale, libero e segreto”. Vale per i parlamentari l’art. 67:

“Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Ogni forma di collegamento virtuale, ogni forma di voto a distanza deve, per necessaria è imprescindibile garanzia della democraticità

e della trasparenza dell’ordinamento, garantire – al di là di ogni ragionevole dubbio – sia la possibilità di esercitare con pienezza la funzione rappresentativa, sia la libertà e, ove prevista, la segretezza del voto. Il che – oltre ad un considerevole sforzo organizzativo – comporta tre conseguenze non aggirabili. In primo luogo, è necessaria una adeguata strumentazione e una sufficiente fase di sperimentazione. In secondo luogo, una modifica di tale portata non può avvenire con meri strumenti interpretativi ovvero atti, anche

all’unanimità, della Giunta per il regolamento o degli Uffici di Presidenza, ma, trattandosi di modifica regolamentare, deve essere approvata ai sensi dell’art. 64, comma 1, Cost., vale a dire a maggioranza

assoluta, con il voto favorevole in Aula della metà più uno dei componenti. E, infine, qualsiasi modifica regolamentare non può certo aggirare i principi costituzionali sul procedimento legislativo dettati dall’art.

72 (ad esempio, se si ammettono i collegamenti virtuali e il voto a distanza, non è certo possibile intaccare altre regole costituzionali, prevedendo per situazioni di emergenza come quella attuale la formazione di una o due commissioni speciali). Siamo di fronte ad un passaggio difficile, ma il rischio di adottare misure non sufficientemente ponderate va attentamente valutato.

La sanità, nella maggior parte degli ordinamenti federali e regionali, è competenza spettante alle entità substatali. Anche l’Italia non si sottrae a questa linea di tendenza, anzi la sanità è la principale – anche per valore economico (il Fondo del servizio sanitario nazionale è ammontato nel 2019 a oltre 116 miliardi di euro, pari a poco meno di un sesto della spesa pubblica italiana) – delle competenze regionali. Anche la protezione civile è nel nostro ordinamento competenza concorrente tra stato e regioni. Ricostruire una

catena unitaria di comando non è stato fac

ile e, ancora oggi, ci sono protagonismi di Presidenti di Regione (talvolta comprensibili alla luce delle grandi difficoltà che le Regioni stanno affrontando o potrebbero affrontare nei prossimi giorni): tra le vicende clamorose i divieti di ingresso in alcune Regioni posti con

atti regionali in palese violazione dell’art. 120. Rimettere ordine nei rapporti stato – regioni, passata la crisi, sarà necessario: ma ciò non significa pensare di buttare a mare tutta l’esperienza del regionalismo italiano; occorrerà invece porre mano ad un ripensamento profondo di tutta l’organizzazione territoriale del Paese,

tirando le somme delle riforme effettuate in questi primi venti anni del millennio, a partire dalla riforma del Titolo V fino alla legge Delrio.

Con il passare dei giorni ci siamo resi conto la crisi della pandemia da coronavirus sarebbe stata lunga e avrebbe avuto effetti dirompenti,  non solo sulle nostre vite quotidiane, bensì anche sulla tenuta del nostro sistema economico. Per riprendersi – oltre a drastiche  misure di semplificazione del sistema amministrativo e dei meccanismi di controllo che hanno raggiunto una insopportabile e barocca superfetazione – sarà necessaria una massiccia iniezione di denaro, possibilmente congruamente mirata e non a pioggia, che andrà oltre le cifre, pur importanti, stanziate dal governo in questi giorni. Pur se in questi giorni la consapevolezza della portata della crisi sta diventando comune a tutto il mondo e a livello europeo, potrebbero prima o poi porsi problemi con la struttura burocratica dell’Unione, in particolare con la Commissione e con la Banca centrale europea, secondo le avvisaglie che abbiamo avuto. Dobbiamo, allora, come Paese fondatore dell’Unione, dimostrare tutta la nostra attenzione e dispiegare tutta la nostra forza. E, di fronte a letture del tessuto costituzionale europeo che volessero individuare nella “stabilità dei prezzi”, prevista dall’art. 3, comma 3, Tue, un valore fondante delle politiche europee,

superiore agli altri principi comuni, tale da impedire, per paura di innescare meccanismi inflativi, politiche espansive della spesa, noi dovremmo iniziare a rivendicare, come abbiamo fatto nel caso Taricco, i doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale, richiamati dall’art. 2, e il limite dell’utilità sociale posto all’iniziativa economica privata dall’art. 41, come tratti  caratterizzanti della nostra identità costituzionale, che possono operare come contro limite rispetto alla normazione dell’Unione. Ma speriamo che una presa di coscienza da parte dei governi nazionali del destino comune dell’Europa, insieme ad una forte presa di posizione politica del Parlamento europeo, finora silente, e ad una adeguata reazione della Commissione, che attivi tutti gli strumenti per uscire positivamente dalla crisi, possa evitare drammatiche conseguenze istituzionali per le sorti del nostro continente.

Evelyn Zappimbulso 

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