Di Maio ha davvero deciso di scaricare Huawei sul 5G?

Economia & Finanza

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Un incontro tra l’ambasciatore Usa e il ministro degli Esteri alimenta i rumors, ma sono in pochi a credere che il governo abbia già fatto marcia indietro. Anche se le pressioni sono tante e le alternative non mancano

 

© Cosimo Martemucci / AGF – Luigi Di Maio

L’Italia prende molto seriamente le preoccupazioni degli Stati Uniti sulla partecipazione di Huawei alla creazione dell’infrastruttura 5G nel nostro Paese, ma allo stato attuale non è cambiato molto nell’approccio del governo nei confronti del fornitore cinese.

Fonti della Farnesina confermano che l’incontro tra Luigi D Maio e l’ambasciatore americano Lewis Eisenberg per parlare della rete mobile di quinta generazione c’è stato e che si inserisce nel rapporto “fluido” tra il ministro degli Esteri e il rappresentante dell’amministrazione Usa, ma che sono stati affrontati anche altri dossier rilevanti, come quello libico e il ruolo della Turchia in qualità di membro della Nato in quello scenario.

Anche da parte americana è venuta la conferma dell’incontro e, anche se non sono entrate nel merito del colloquio, è stato fatto notare che non ci sarebbe da stupirsi se Eisemberg avesse ribadito l’appello a chiudere a Huawei, dato che questa è da sempre la linea della Casa Bianca sulla partecipazione della casa cinese alla rete 5G, non solo in Italia.

La notizia che Di Maio si sarebbe mostrato disponibile a rivedere la posizione di Huawei sul 5G in Italia ha lasciato sorpresi anche altri big della tecnologia.

La partita però, viene fatto notare da più parti, si sta giocando a Bruxelles più che a Washington, anche se in effetti l’Unione europea si è già pronunciata mettendo a punto quel ‘5G toolbox’ che dovrebbe aiutare i governi a valutare i partner internazionali ai quali affidare l’infrastruttura, ma lasciando poi ai singoli Paesi la libertà (e la responsabilità) della scelta.

Su questo fronte l’Italia si è ben attrezzata, a detta di tutti gli osservatori, grazie al perimetro di sicurezza cibernetica, finalizzato a garantire un livello elevato di  tutela delle reti, e soprattutto il Golden power, lo ‘strumento speciale’ che permette al governo di salvaguardare gli interessi strategici del Paese sul fronte delle infrastrutture e delle comunicazioni.

Anche i competitor di Huawei hanno confermato ad AGI che da Palazzo Chigi non è venuto alcun segnale riguardo un mutamento di atteggiamento nei confronti del colosso di Shenzhen, ma qualcuno ha rilevato una certa irritazione da parte del governo per l’atteggiamento arrembante del management della branca italiana dell’azienda. Il riferimento è, ad esempio, all’audizione dell’ottobre 2019 alla Camera in cui il presidente di Huawei Italia, Luigi De Vecchis, arrivava a ipotizzare il ritiro degli investimenti nel nostro Paese. Dichiarazioni al fulmicotone subito corrette e ammorbidite, ma che ben davano un’idea della tensione tra l’azienda e la frangia di parlamentari più apertamente ostile.

Ma quanto costerebbe all’Italia rinunciare alla tecnologia Huawei in questa fase dello sviluppo del 5G? Secondo uno studio realizzato dall’università di Oxford (e commissionato da Huawei) i costi di sviluppo della rete lieviterebbero – in media – di 282 milioni l’anno nel prossimo decennio. Cioè del 19%. Ci sarebbe una riduzione della concorrenza, un aumento dei prezzi e un generale rallentamento dello sviluppo. Con almeno altri due effetti: nel 2023, ci sarebbero 6,2 milioni di italiani in meno con accesso al 5G. E nel 2035, il Pil perderebbe 4,7 miliardi rispetto alla proiezione attuale.

Cifre contestate da Ericsson, la punta di diamante di quel polo europeo di sviluppo del 5G di cui fa parte anche Nokia e al quale la Casa Bianca guarda come alternativa allo strapotere cinese, tanto che ha circa il 60% del mercato statunitense del 5G e accordi con i 4 principali operatori, mentre ha già scalzato Huawei in alcuni contratti in Argentina, Germania, Canada, Gran Bretagna, Norvegia e Danimarca. Secondo la casa svedese, sostituire la tecnologia di Huawei avrebbe costi contenuti perché la attuale rete 4G, su cui dovrebbe appoggiarsi almeno in parte quella di quinta generazione, è già obsoleta e va comunque sostituita.

Resta ai margini del dibattito – e non a caso – l’altro grande player del 5G: Zte. La casa cinese che (non è un mistero) fa capo direttamente allo Stato, non viene mai attaccata frontalmente da Washington. Le ragioni sono due: è completamente assente dal mercato americano e ogni sua mossa, ovunque in Europa, è sottoposta a un rigido scrutinio da parte di funzionari del dipartimento del Commercio americano. Una misura che fa parte dell’accordo stipulato nel 2018 da Zte e dalla Casa Bianca per ottenere la revoca del bando imposto dopo che era emersa la violazione dell’embargo di tecnologia alla Corea del Nord da parte dell’azienda di Pechino.

Un capitolo a parte merita il tweet della candidata repubblicana al Senato per la California DeAnna Lorraine, una trumpiana di ferro che si trova a contendere il seggio nientemeno che a Nancy Pelosi e che in un post del 7 luglio domanda “come mai il premier Conte abbia incontrato in segreto lobbisti di Huawei”. Fonti dell’azienda cinese hanno smentito categoricamente che questo incontro sia mai avvenuto, mentre secondo gli osservatori il riferimento della DeAnna è all’incontro tra il presidente del Consiglio e Davide Casaleggio. Una maldestra imbeccata, l’ha definita qualcuno. 

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