Avvocati e magistrati: due facce di una stessa giustizia?

Attualità & Cronaca

Di

di Avv. Giovanna Barca

Le Avvocate Italiane

Stavo riflettendo su un post condiviso sul social network da uno stimatissimo collega casertano, il quale, forse sgomento dinanzi allo sfacelo della giustizia, rallentata anche dall’emergenza sanitaria e sporcata dall’operato di alcuni magistrati, vedi il caso Palamara, ricordava il passo del libro Elogio dei Giudici di Piero Calamandrei “…“Talvolta tra quei magistrati che siedono innanzi a me riconosco qualcuno del quale come uomo non ho molta stima. So che qualcuno come giurista vale meno di me; so che, mentre mi affatico a spiegare con chiarezza le ragioni del mio cliente, non riesce a capire ciò che dico, oppure non vuol capire perché già prima di udirmi ha deciso di darmi torto. Eppure, quand’egli veste la toga mi inchino a lui con sincero senso d’ossequio, perché vedo in lui l’idea della sua funzione… (omissis). Ma anche al giudice non sarebbe disdicevole l’umiltà di fronte all’avvocato: perché questi, anche se come difensore vale poco, rappresenta innanzi al giudice l’idea altrettanto augusta della difesa”.

Penso all’idea di un giovane avvocato che si appresta con orgoglio e passione a varcare per la prima volta la soglia di un Tribunale, che ha del giudice, enfatizzandolo ed ammirandolo, l’idea di colui che è garante della legge, nella piena imparzialità e neutralità, che difende con lavoro e sacrificio.

Invece, oggi, alcuni magistrati, per fortuna ancora pochi, per contare e per essere considerati, partecipano alle trasmissioni televisive ed ai talk show, mostrando, senza pudore, la loro potenza ed il loro orientamento politico.

Qualche giorno fa, non a caso, la ministra Giulia Buongiorno, avvocata, ha dichiarato “La sola idea che un giudice possa assolvere o condannare per non scontentare un pubblico ministero, in quanto esponente di una corrente capace di influenzare la valutazione della carriera di quello stesso magistrato – spiega -, mi fa pauraPiù in generale tra i cittadini si sta diffondendo sfiducia nei giudici, se non diffidenza“.“Ormai è prassi – aggiunge a proposito della sua attività di avvocato – che il cliente, appena può, ci chieda chi è quel magistrato, a quale corrente appartiene, se lo conosciamo. E noi avvocati li dobbiamo difendere: stia tranquillo, il giudice è bravo, è indipendente, valuterà secondo il diritto“.

Dichiarazioni pesantissime e gravissime che minano la credibilità della giustizia agli occhi dei cittadini e delle cittadine italiane, che credono ancora nello stato democratico e, quindi, in una giusta suddivisione ed autonomia dei tre poteri.

Mi sono, dunque, posta questa domanda: dinanzi a questo scempio, a questo degrado morale, gli avvocati e le avvocate cosa dovrebbero fare?

L’avvocato viene scelto dal cliente non solo per la sua professionalità, ma perché si fida e si affida allo stesso, il quale deve garantire che non vi sia un alterarsi dei corretti rapporti di potere nel processo e deve far uscire fuori la verità!

Dinanzi ad evidenti atteggiamenti di un giudice che si vuole sostituire al legislatore, lo esautora, superando volutamente la lettera della legge e agendo come un soggetto politico, travalicando la regola imposta dall’articolo 101 secondo comma della Costituzione, un avvocato o una avvocata dovrebbe ribellarsi o deve rassegnarsi senza alzare la voce dinanzi un simile comportamento?

Stavo leggendo alcune sentenze emesse dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, dove alcuni avvocati hanno lamentato la violazione del loro diritto di espressione e la ingiusta sanzione disciplinare irrogata e disposta nei loro confronti per avere criticato la sentenza di un magistrato o per avere diffuso una lettera contenente frasi lesive della reputazione di un magistrato.

Nel caso Ottan c. Francia, ric. 41841/12, la alla Corte europea dei diritti dell’uomo con sentenza, 19 aprile 2018, ha nuovamente definito gli elementi caratterizzanti la libertà di espressione degli avvocati in relazione alla limitazione posta, ex articolo 10, paragrafo 2, Cedu, a garanzia dell’autorità e dell’imparzialità del potere giudiziario.

Nel caso de quo dove un avvocato aveva subito una sanzione disciplinare per aver duramente commentato una sentenza di assoluzione, emessa in un processo che vedeva un poliziotto indagato per omicidio, con osservazioni dure, riferite alla composizione della giuria popolare ed attraverso una dichiarazione resa alla stampa, muovendo una critica al sistema giudiziario francese, partendo da una questione di interesse collettivo, i giudici di Strasburgo hanno colto l’occasione per riaffermare la necessità di un’intensa tutela della libertà di espressione degli avvocati e per ribadire la loro  funzione come intermediari fra la società e le corti.

Il buon funzionamento del sistema giudiziario è un elemento essenziale per il mantenimento dello Stato di diritto e, pertanto, è parimenti fondamentale che la fiducia dell’opinione pubblica e dei cittadini in coloro che amministrano la giustizia non venga minata da critiche che, senza sufficienti basi fattuali, ne possono compromettere l’imparzialità e l’autorità.

Le critiche al sistema giudiziario sono dunque ammesse ma, nell’ormai costante prospettiva adottata dalla Corte europea, l’esercizio concreto del diritto della libertà d’espressione è, in questi casi, condizionato da restrizioni più rigide. Se, da un lato, per essere considerate soggette all’ambito di applicazione e tutela dell’articolo 10, le osservazioni devono riferirsi a questioni di interesse generale ed essere poste su solide basi fattuali, dall’altro lato, non si ritengono, in qualunque caso, ammesse affermazioni provocatorie o attacchi distruttivi nei confronti dei magistrati.

Il diritto di libertà di espressione degli avvocati ha subito una concreta evoluzione, in termini di rafforzamento della tutela offerta, con l’affermazione di specifici principi enunciati nella sentenza Schöpfer c. Svizzera. In particolare, la Corte europea, nonostante non avesse riscontrato l’incompatibilità con l’articolo 10 Cedu di una sanzione amministrativa comminata contro un avvocato che aveva sostenuto la violazione continuata dei diritti umani da parte di una corte, ha colto tale opportunità per collocare la posizione degli avvocati all’interno di una società democratica. Affidando loro un ruolo centrale per l’amministrazione della giustizia, in qualità di «intermediaries between public and courts», la Corte europea ha sottolineato l’importanza di garantire un ampio perimetro alla libertà di espressione degli avvocati, al fine di incrementare la fiducia della collettività nel sistema giudiziario, ed al contempo tutelare concretamente il diritto alla difesa in tutte le sue svariate forme è. L’esercizio di quest’ultimo risulta, infatti, strettamente e funzionalmente legato alla libertà di espressione.

In un altro caso, Peruzzi c. Italia – Quarta Sezione – sentenza 30 giugno 2015 (ricorso n. 39294/09), il Peruzzi, invocando l’art. 10 CEDU relativo alla libertà di espressione, ha adito la Corte CEDU sostenendo di essere stato condannato per una lettera, nella quale esponeva le proprie considerazioni sui diversi modi di interpretare ed esercitare il mestiere di giudice. Le sue valutazioni sarebbero state interpretate in maniera incompatibile con il loro significato reale e sarebbero state collegate a un soggetto che non ne era il vero destinatario. A detta del ricorrente, sarebbe stato il sistema giudiziario nel suo complesso il bersaglio delle critiche, mentre non vi sarebbero prove della sua intenzione di minare la reputazione e l’integrità del giudice.

Nel caso de quo, la Corte ha sottolineato due aspetti particolari, ovvero il fatto che il ricorrente era un avvocato e la controversia che lo ha contrapposto al magistrato è scoppiata nell’ambito della sua attività professionale, e che il diffamato era un magistrato in servizio. Sotto il primo profilo; la Corte ha richiamato la sua precedente giurisprudenza, in base alla quale, considerato il ruolo cruciale degli avvocati nell’amministrazione della giustizia, ci si può aspettare che essi contribuiscano al buon funzionamento della macchina giudiziaria e, in tal modo, anche alla fiducia del pubblico nella stessa. Quanto al secondo profilo, in base alla giurisprudenza della Corte i limiti della critica ammissibile possono in alcuni casi essere più ampi per i magistrati che agiscono nell’esercizio dei loro poteri che per i semplici privati. Tuttavia essi, per adempiere alle loro funzioni, devono poter beneficiare della fiducia del pubblico, senza essere indebitamente infastiditi e può dunque risultare necessario tutelarli da attacchi verbali offensivi quando sono in servizio.

Tutto ciò premesso, la Corte ha condiviso le conclusioni dei giudici nazionali secondo le quali il giudice, parte offesa nel processo per diffamazione, era proprio la persona interessata dalle doglianze esposte nella lettera circolare. Spettava, dunque, alla Corte stabilire se queste ultime siano andate oltre i limiti di una critica ammissibile in una società democratica. Dal testo della lettera circolare risulta che il ricorrente aveva mosso al magistrato due contestazioni: a) il fatto di avere adottato delle decisioni ingiuste e arbitrarie; b) il fatto di essere un giudice «che prende partito» e di essersi sbagliato «volontariamente, con dolo o colpa grave o per imperizia ».

Se per i giudici di Strasburgo la prima contestazione mossa al magistrato, ovvero di avere adottato decisioni ingiuste ed arbitrarie, non poteva considerarsi una critica eccessiva, lo stesso non poteva dirsi per la seconda contestazione, ovvero quella relativa alla mancanza di imparzialità, indipendenza e obiettività che caratterizzano l’esercizio dell’attività giudiziaria.

Secondo la Corte, le sue accuse di comportamenti abusivi si fondavano solo sulla circostanza che tale magistrato aveva rigettato le domande formulate dal ricorrente nell’interesse dei suoi clienti. La Corte rilevava altresì che il ricorrente, che aveva presentato al CSM una denuncia contro il giudice, aveva inviato la sua lettera circolare senza attendere l’esito del procedimento dinanzi al CSM. Essa condivideva inoltre quanto osservato dalla corte d’appello in merito al fatto che la diffusione della lettera all’interno di una comunità ristretta, come quella di un tribunale locale, non poteva che nuocere alla reputazione e all’immagine professionale del giudice interessato. Alla luce di tali considerazioni, la Corte ha ritenuto che la condanna del ricorrente per le affermazioni diffamatorie contenute nella sua lettera circolare e la pena che gli era stata inflitta non fossero sproporzionate agli scopi legittimi perseguiti e che i motivi esposti dai giudici nazionali fossero sufficienti e pertinenti per giustificare tali misure. L’ingerenza nel diritto del ricorrente alla libertà di espressione poteva ragionevolmente sembrare «necessaria in una società democratica» allo scopo di tutelare la reputazione altrui e garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario ai sensi dell’articolo 10 § 2. Pertanto la Corte, con cinque voti contro due, ha dichiarato che non vi è stata violazione di questa disposizione.

Questi sono solo alcuni casi nei quali gli avvocati hanno esercitato la loro libertà di espressione, ma in entrambi i casi, questo diritto, pur essendo considerati come «intermediaries between public and courts, avrebbe travalicato i limiti della diffamazione della dignità di un giudice.

Ma se un giudice offendesse pesantemente l’onore e la dignità di un avvocato o di una avvocata subirebbe provvedimenti di egual contenuto?

Ricordo di aver letto sui quotidiani, l’episodio avvenuto nel settembre 2017, quando il presidente del Tribunale del Riesame di Trento, Carlo Ancona, nei confronti dell’avvocato palermitano Stefano Giordano, nel corso di una udienza tenutasi nel capoluogo trentino aveva pronunciato la frase “Avvocato, lei taccia, perché qua siamo in un posto civile, non siamo a Palermo”. “. La frase, considerata offensiva di tutti i palermitani, che Giordano ha ottenuto fosse messa a verbale, è approdata al Csm dove Piergiorio Morosini aveva chiesto l’avvio di una pratica per il contenuto “razzista” della stessa.  Oppure, ho memoria  di un caso approdato in Cassazione, nel mese di agosto 2012,  dove la Suprema Corte doveva decidere se fosse considerato reato da parte di un giudice rivolgere l’espressione “non hai le palle” ad un avvocato durante l’udienza.
La Cassazione aveva stabilito che dire a qualcuno «non hai le palle» significa accusarlo di essere privo di quei requisiti fisici e caratteriali che («a torto o a ragione», scrivono i giudici della Cassazione) sono considerati indispensabili per fare bene il proprio lavoro. 
«L’imputato – si legge nella sentenza della Suprema corte – era giudice di pace a Brindisi e la persone offesa è un avvocato (Vittorio G., ndr). La frase fu pronunziata in contesto lavorativo (ufficio giudiziario), a voce alta ed era udibile anche da terze persone. In tali circostanze, il pericolo di lesione della reputazione non poteva essere aprioristicamente escluso sulla base una pretesa “evoluzione” del linguaggio e volgarizzazione delle modalità espressive». 

Quindi, vi stata offesa, ma pare che conseguenze disciplinari non sembrano esserci state nei confronti di questo magistrato.

La preoccupazione di noi avvocati è a prescindere dal tollerare o meno il comportamento di alcuni magistrati è fare in modo che venga attuato il principio di un giusto processo sempre per una difesa piena dei diritti violati.

Non mi resta, quindi, che concludere questa riflessione con un’ altra storica  frase di Calamandrei “L’avvocato, che nel difendere una causa entra in aperta polemica col giudice, commette la stessa imprudenza dell’esaminando, che durante la prova si prende a parole coll’esaminatore.”

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