Hong Kong. La democrazia muore alla luce del sole

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Pechino non si nasconde, irride l’opposizione costretta alle dimissioni e instaura la dittatura nell’ex città autonoma davanti alle telecamere 

 
 
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LE LIBERTÀ CARPITE UNA DOPO L’ALTRA

Ieri tutti i deputati democratici di Hong Kong hanno deciso di dimettersi dal Parlamento. Lo hanno fatto per inscenare un’ultima, eclatante e disperata protesta contro un regime che, giorno dopo giorno, sopprime incontrastato una dopo l’altra le libertà dei cittadini. La legge sulla sicurezza nazionale, proprio come previsto, si è rivelata la pietra tombale sul modello “Un paese, due sistemi”. Pechino aveva giurato, firmando un trattato internazionale con il Regno Unito, di lasciare «ampia autonomia» alla città fino al 2047. Invece dopo appena 13 anni dalla restituzione dell’isola, e con ben 27 d’anticipo sulla scadenza prevista, il Partito comunista cinese ha deciso di farsi beffe dello stato di diritto, instaurando la dittatura che già vige nella Cina continentale anche al di là del fiume Sham Chun.

Xi Jinping si è preso Hong Kong con la forza utilizzando, come nella migliore tradizione sovietica, una legge per scardinare tutte le altre. Violando tre o quattro articoli della Costituzione della città, Pechino ha imposto all’isola una norma che prevede pene fino all’ergastolo (da scontare in Cina) per chiunque osi anche solo contraddire il verbo del Partito comunista. In soli cinque mesi ha abolito di fatto la libertà di espressione e di insegnamento, di stampa e di assemblea, ha cancellato l’indipendenza della giustizia, ha proibito manifestazioni pacifiche, ha rinviato le elezioni, minacciato i cittadini desiderosi di scendere in politica per opporsi al governo, ha fatto espellere i primi deputati democratici, ha trascinato in tribunale gli attivisti, costretto all’esilio i dissidenti, ha fatto arrestare studenti e giornalisti, parlamentari e insegnanti, bambini e adulti, a volte solo per aver esposto un cartello bianco, senza scritte, simbolo della censura che vorrebbe ridurre al silenzio ogni coscienza.

LA DEMOCRAZIA A HONG KONG È MORTA

Ma il regime non ha fatto tutto questo di nascosto. Ormai si sente così forte e inattaccabile da agire alla luce del sole. E due giorni fa è davanti alle telecamere dei più importanti quotidiani del mondo che Wu Chi-wai, presidente del Partito democratico di Hong Kong, ha annunciato le dimissioni sue e di tutti i suoi colleghi, scegliendo parole drammatiche: «Negli ultimi sei anni abbiamo visto la Cina estendere il suo dominio progressivamente sulla nostra città e questo è il risultato. Per combattere contro un governo centrale autoritario, noi dobbiamo stare dalla parte della popolazione di Hong Kong e combattere per la democrazia nel lungo periodo. Oggi hanno squalificato i nostri colleghi senza alcuna ragione e la cosa peggiore è che la Costituzione di Hong Kong prevede la separazione dei poteri rispetto a Pechino e invece oggi abbiamo capito che il governo centrale vuole prenderseli tutti. Carrie Lam è solo una marionetta nelle mani di Pechino. Oggi è la fine del modello “Un paese, due sistemi”. In questo periodo così incredibilmente difficile, non cederemo, combatteremo per la nostra democrazia».

Il regime è andato su tutte le furie per le dimissioni dei democratici, che hanno osato «sfidare» l’autorità cinese e rendere manifesta l’illegittimità di un Consiglio legislativo dove ormai siedono solo le «marionette» del governo. Pechino avrebbe preferito continuare ad agire indisturbato coperto da una parvenza di legalità. Ora anche l’ultimo paravento è stato tolto, la democrazia a Hong Kong è morta e l’annuncio funebre è stato dato in conferenza stampa. Ma con un’Unione Europea egoista e incapace di prendere posizione sulla scena internazionale e un’America troppo impegnata a farsi la guerra da sola, chi è disposto ad ascoltare il grido di Hong Kong?

Foto Ansa

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