Perché è meglio non fidarsi delle pubblicità online di bitcoin

Economia & Finanza

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Un’indagine giornalistica ricostruisce le truffe di cui sono vittime centinaia di migliaia di investitori nel mondo, nel giorno della quotazione record della criptovaluta più nota

© Ozan KOSE / AFP 
–  Un’imitazione fisica della criptomoneta “bitcoin” in vendita a Istanbul. 

Società di comodo a Cipro o Hong Kong, consulenti finanziari in Bangladesh, organizzazione in Bielorussia e Israele, call center in Ucraina: è la complessa organizzazione di una serie di truffe che, a partire dalle pubblicità online di investimenti in bitcoin con rendimenti mirabolanti, continuano ad ingannare centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo, facendo loro perdere grandi quantità di denaro.

Il meccanismo della truffa è raccontato, proprio nel giorno del record storico della quotazione della criptomoneta nata 11 anni fa, da Le Monde. Il quotidiano francese fa parte di un consorzio di testate internazionali, guidate dal giornale svedese Dagens Nyheter, che ha indagato sulle modalità utilizzate dai truffatori negli ultimi 3 anni.     

In una delle interviste del reportage, un truffato svedese racconta di avere investito circa 20 mila euro nel 2019 e di non sperare di recuperarli nonostante un’istruttoria in corso presso la magistratura. Come altre centinaia di migliaia di persone, anche Clas Backman è caduto nella trappola a partire da una pubblicità online, cliccando sul link a un fantomatico Bitcoin Trader. Richiamato da un operatore, ha cominciato a investire 250 dollari, ovvero 210 euro circa. Come accade in tutte le vicende di truffe finanziarie, inizialmente il suo capitale è aumentato a gran velocità, convincendolo ad aumentare la posta investendo altro denaro. Una volta esaurite le sue risorse disponibili, gli interlocutori si sono volatilizzati.

Le inchieste che partono dalla denuncia dei truffati fanno fatica a risalire ai responsabili, perché i circuiti di riciclaggio di denaro sporco utilizzati dai truffatori sono molto complessi e, dopo aver sfruttato i sistemi bancari europei (Polonia, Paesi baltici, Portogallo), si spostano sui mercati asiatici e finiscono per  depositarsi nei conti degli stessi autori della truffa. Spesso, si  spiega nel reportage, gli investigatori perdono tempo a risalire lungo le strade percorse dal denaro ma non arrivano da nessuna parte: a Hong Kong, spiega uno degli intervistati che ci ha provato in varie occasioni, serve un anno perché la domanda di investigare su un conto bancario abbia risposta: ma dopo un anno, il denaro si è spostato su un altro conto e serve una nuova domanda.

Ci sono poi giri di prestanome, trasferimenti nascosti, società fantasma. Le inchieste transfrontaliere sono ostacolate da procedure burocratiche complesse, durante le quali il denaro può sparire senza lasciare tracce, come chi lo ha intascato. Raramente si riesce ad arrivare a un processo o ad arrestare i responsabili, si legge sull’articolo di Le Monde, “in un settore dove molte maglie di una lunga catena possono sperare di guadagnare somme importante senza assumere troppi rischi”.

Al centro di tutto ci sono dei call center specializzati che si trovano spesso in Europa dell’Est, Bielorussia, Cipro o Israele. Il loro buon funzionamento dipende da una serie di intermediari e in particolare quelli incaricati di ottenere i contatti delle persone da incastrare. Le banche dati sono preziosissime, e spesso vengono trovate in modo fraudolento attraverso l’utilizzo di dati forniti online per gli usi più diversi. Ma nella maggior parte dei casi, come successo per l’intervistato svedese, tutto parte dalla curiosità destata da una pubblicità online e dalla capacità dell’operatore in cui ci si imbatte, a sua volta incentivato dai datori di lavoro, di convincerlo delle possibilità di guadagno. 

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