2021: il problema della classe dirigente

Politica

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Il 2021 dovrà essere anche l’anno di una ristrutturazione del sistema politico e sociale in Italia, fondato sulla cultura, la serietà e le competenze.

Il nuovo anno, si spera, dovrà costituire il viatico per uscire dall’era  dell’incertezza e dell’insicurezza, generate, in primo luogo, dalla pandemia in atto. Solo nella visione apocalittica del millenarismo è possibile ravvisare un tempo così gravido di incertezze come quello attuale, in cui si è diffusa una forma di insicurezza collettiva indotta dalla situazione pericolosa, violenta e incontrollabile in cui si trova una società globale allo sbando.

E sì, perché il covid-19 ha radicalmente messo in questione le certezze che sembravano costituire il paradigma del XXI secolo, fondato essenzialmente sul superamento delle barriere economiche e spazio-temporali, ma non di quelle sociali, che, anzi, sono state riproposte in forme nuove e anche più discriminanti nei confronti di chi sta più in basso.

In questo 2021 da poco sorto, l’elemento costitutivo del nostro tempo, la globalizzazione, appare profondamente in questione e, per riprendere le analisi di Zygmunt Baumann, l’insicurezza nasce dalla nostra interdipendenza planetaria, proprio dallo spazio globale prevalente sulle comunità territoriali.

Le nostre città, specie nell’ultimo periodo natalizio, sono divenute quasi desertiche, senza vita, veri e propri non-luoghi in cui il tempo è apparso sospeso e lo spazio svuotato, richiamando alla mente la letteratura apocalittica e distopica rappresentata visivamente in diversi film.

La stessa democrazia, che sembrava un elemento acquisito per l’organizzazione politica e sociale delle civiltà, ha subito e continua a subire forme sospensive, con i rischi paventati di vulnus a causa delle misure straordinarie adottate a giustificazione di uno “stato di eccezione” quale espressione di un potere sovrano autolegittimato che sospende le leggi. Una condizione, quest’ultima, evocatrice delle teorie di uno dei maggiori filosofi del diritto del Novecento, Carl Schmitt, secondo il quale lo “stato di eccezione” è il paradigma costitutivo della sovranità e, quindi, dell’ordine giuridico, mentre la “peste del XXI Secolo” ha riproposto anche altri temi dialettici, come quello tra potere politico-istituzionale e ruolo della scienza.

L’umanità è ad un bivio e può (e deve!) cogliere l’opportunità di ridiscutere il dogma della globalizzazione, di cui il virus altro non è che il viaggiatore oscuro e beffardo che si è inserito nella riduzione del rapporto spazio-tempo.

Servono i valori di un nuovo umanesimo, con regole economiche e sociali che pongano al centro il valore della persona, che devono sostituire l’ideologia mercatistica e l’egoismo, per affrontare le nuove sfide che la nostra fragile civiltà dovrà vincere in futuro. Virus, migrazioni, riscaldamento globale, ambiente, tutela del lavoro, povertà sono solo alcune delle principali sfide con cui dovremo fare i conti e che potremo vincere solo se saremo capaci di guardarvi con una visione più ampia e con un’adeguata cultura di governo.

Quest’ultimo rappresenta il problema centrale per il nostro Paese, alle prese con un ceto dirigente, non solo politico, percepito e nei fatti non adeguato rispetto alla situazione drammatica dell’Italia, descritta nell’ultimo Rapporto Annuale del Censis come “una ruota quadrata che non gira: avanza a fatica”, in cui il Covid-19 ha dimostrato che “il grado di protezione del lavoro e dei redditi è la chiave per la salvezza”: a pensarlo, infatti, è l’85,8% degli italiani. La pioggia dei sussidi, 26 miliardi di euro erogati a una platea di oltre 14 milioni di beneficiari, non è riuscita neanche lontanamente a rimettere in pareggio una situazione disastrosa che, solo nel terzo trimestre di quest’anno, ha portato via il lavoro a quasi mezzo milione di giovani e di donne, le categorie più fragili del mercato del lavoro, e che si è abbattuta con violenza sui redditi degli autonomi, marginalizzando ancor di più il nostro Mezzogiorno.

Servirebbe una classe dirigente all’altezza di quella che, dopo l’ignominia della dittatura fascista e il disastro della Seconda guerra mondiale, seppe ricostruire il Paese, anche se su sponde diverse: Alcide De Gasperi, Luigi Einaudi, Pietro Nenni, Giueppe Saragat, Palmiro Togliatti, Ugo La Malfa, Giuseppe Di Vittorio, Enrico Mattei, Raffaele Mattioli, Donato Menichella solo per citare politici, sindacalisti, banchieri e manager pubblici che diedero l’impulso per costruire quella democrazia sociale, poi devastata dall’avvento della cosiddetta “Seconda Repubblica”. Rino Formica, ministro e autorevole dirigente del “Nuovo corso socialista” di Craxi, ha individuato per questo 2021 “il problema della classi dirigenti, che “è innanzitutto quello di essere autorevoli, di godere della fiducia del Paese” e “oggi quello che manca è l’autorevolezza della classe dirigente. Ed è molto grave”.

E servirebbe, a sinistra, il superamento, come ebbe a scrivere nella sua “Storia del socialismo italiano” (Baldini Castoldi Dallai Editore, 2007) uno dei maggiori politologi italiani, il compianto Giorgio Galli, che il terribile anno trascorso si è portato purtroppo con sé, all’“assenza di un Partito socialista (che) è dunque un’anomalia del sistema politico italiano”.

Il 2021 dovrà essere anche l’anno di una ristrutturazione del sistema politico e sociale in Italia, fondato sulla cultura, la serietà e le competenze per un futuro di speranza della comunità nazionale.

Maurizio Ballistreri

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