L’inferno virgiliano tra violenti e suicidi

Arte, Cultura & Società

Di

di Stefania Romito

L’undicesimo canto dell’Inferno dantesco è caratterizzato dalla classificazione dei peccati puniti nell’inferno, fondata sull’etica di Aristotele e sul diritto romano. Il canto XII si apre con lo spettacolo di un dirupo (una delle tante ruine o frane dovute al terremoto che accompagnò la morte di Cristo) dove agisce come guardiano il mostro iroso Minotauro, che qui funge da icona della violenza. Siamo giunti al settimo cerchio, quello in cui si trovano i violenti, suddiviso in tre gironi.

Nel primo girone vi sono confinati i violenti “contro il prossimo nella persona e negli averi” immersi nel Flegetonte, il fiume di sangue bollente. Queste anime dannate sono custodite dai centauri (uomini-cavalli armati di archi e saette) guidati da Chirone. È proprio il precettore di Achille, nel mito, ad affidare i due poeti al centauro Nesso che li accompagnerà fino a un possibile guado e presenterà loro la serie di tiranni tra cui Ezzelino da Romano e Attila.

Oltre il Flegetonte inizia una foresta innaturale di cespugli contorti e pietrificati dove, al posto dei frutti, si hanno bacchi avvelenati da queste piante sulle quale nidificano le Arpie (uccelli rapaci dal volto di donna, ennesimo ricordo virgiliano). Da queste piante giungono strani lamenti. Il mistero si chiarisce spezzando un ramicello. Ne esce una voce che protesta contro questo sopruso.

L’idea era già abbozzata in un episodio dell’Eneide in cui l’anima di Polidoro parla dalla tomba sulla quale è cresciuto un mirto, di cui Enea ha infranto un virgulto. Qui gli arbusti non sono il semplice involucro delle anime dei suicidi (violenti contro se stessi), essi rappresentano invece le anime stesse, così trasformate. Chi parla è l’anima del primo ministro di Federico II, Pier delle Vigne, uccisosi perché incapace di sopportare le calunnie dei cortigiani. Il suo modo di esprimersi sembra alludere anche all’innaturalità del suicidio (vv58-72).

Dopo aver appreso da Pier delle Vigne come nel giorno del Giudizio i soli suicidi non potranno riunirsi al proprio corpo, Virgilio e Dante sono colti di sorpresa da una caccia infernale, una muta di diavoli-cagne che inseguono le anime degli scialacquatori dilaniandole. Uno di costoro si aggrappa a un cespuglio. Si avverte la voce di un anonimo fiorentino, esempio fra i tanti di una città sazia e disperata in cui i suicidi erano all’ordine del giorno.

Nel terzo girone il paesaggio si presenta come un sabbione infuocato, sotto una pioggia di fiamme, in cui i dannati, a seconda del loro peccato, si comportano in modo diverso. La prima schiera è quella dei violenti contro Dio: i bestemmiatori. Tra costoro spicca la figura di Capaneo (uno dei sette re all’assedio di Tebe). Personaggio che Dante attinge dalla “Tebaide” di Stazio privandolo di ogni magnanimità. Questo personaggio rappresenta quasi una caricatura di Farinata anche nel suo ipotizzare una ripetizione a oltranza della scena che lo vide sfidare Biove sulle mura della città ed esserne fulminato solo per ribadire la sua feroce resistenza alla volontà divina.

La vista di un ruscello che si dirama dal Flegetonte, consentendo di attraversare il sabbione, è occasione per una importante digressione di Virgilio sull’origine dei fiumi infernali. Essi derivano da un’enorme statua, al centro dell’isola di Creta, composta da materiali differenti le cui lacrime formerebbero i fiumi dall’Acheronte al Cocito. Si passa poi ad una schiera di violenti contro natura: i sodomiti. Fra questi, Dante personaggio ha la sorpresa di ritrovare il suo maestro negli anni della sua formazione: Brunetto Latini con il quale Dante personaggio intraprende un affettuoso colloquio. L’allievo lo ripaga del suo insegnamento che si desume anche dall’opera principale del Latini scritta in francese (Li livres dou Tresor) quello stesso Tesoro che Brunetto affida all’allievo perché ne perpetui la memoria. Nel XVI canto Dante incontra tre protagonisti della politica fiorentina appartenenti alla generazione che lo ha preceduto: Rusticucci, Guerra e Aldobrandi. Costoro sono angosciati avendo saputo tristi notizie sulla condizione di Firenze, priva di ogni ideale cortese e cavalleresco. È l’occasione per Dante di avviare una spietata diagnosi congruente con la sua ideologia antimercantile.

Nella seconda parte del canto prende avvio un’energica svolta narrativa con il distacco definitivo dal modello dell’Averno virgiliano. Il fragore della cascata del Flegetonte, che dal settimo cerchio piomba nell’ottavo cerchio, e l’ostacolo di un burrone che sembra insuperabile, lasciano luogo all’apparizione di una figura che sembra superare ogni immaginazione. È Gerione, nel mito pagano un gigante a tre corpi e tre teste che nutriva il suo gregge di carne umana ammazzando a tradimento i suoi ospiti, a sua volta ucciso da Ercole. Ma già il paragone iniziale, con il palombaro che a scatti torna alla superficie del mare dopo aver liberato l’àncora, segna un deciso distacco rispetto alla forma evocata nel  VI libro dell’Eneide. Sta proprio qui lo spartiacque fra l’Inferno virgiliano e quello totalmente dantesco.

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