Aung San Suu Kyi, due facce e un futuro incerto

Politica

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di Vincenzo Olita*

La situazione in Birmania continua ad aggravarsi in un quadro estremamente confuso, anche a livello internazionale; infatti, si passa dalla risoluzione del Consiglio Onu dei Diritti Umani del 24 marzo, estremamente vuota di contenuti, alla Dichiarazione del Consiglio di Sicurezza del 1° aprile in cui si assicura di essere “attivamente impegnati sulla questione”, raccomandando, alla Giunta militare, la moderazione e la necessità di rispettare i diritti umani. L’inefficacia di queste prese di posizione è il risultato di un complesso lavorio diplomatico verso la Cina al fine di assicurare, con il suo voto favorevole, l’unanimità alla Dichiarazione. La Cina, infatti, è l’alleato più vicino alla giunta militare del generale Hlaing e più volte ha posto il veto ad una risoluzione contro la Birmania in nome del rispetto della sua sovranità nazionale e dell’integrità territoriale, tant’è che il Consiglio di sicurezza non è intervenuto sulla repressione dei rohingya nel 2016 e fino alla metà dell’anno successivo.

Intanto, in Birmania si continua a morire, in uno scenario di tutti contro tutti, dove, su una popolazione di 55 milioni  il 30% è rappresentato da minoranze etniche e religiose, Rohingya, Karen e Rakhine le principali, in conflitto  non solo con l’esercito birmano ma anche tra loro. Con le ondate migratorie arabe, già a partire dal VII secolo d.C., si costituirono, nell’Arakan, le prime comunità musulmane; travagliatissime furono le vicissitudini del territorio nei secoli successivi. L’occupazione inglese, iniziata nel  terzo decennio del XIX secolo, e l’arrivo della Compagnia britannica delle Indie Orientali favorirono poi l’emigrazione di bengalesi come forza lavoro per le risaie. A Rangoon, l’antica capitale, negli anni venti, l’etnia indiana superava la popolazione musulmana generando le prime complicazioni. Nel corso della seconda guerra mondiale, gli scontri tra rakhine e karenni contro i rohingya causarono decine di migliaia di morti costituendo una pesante eredità coloniale. Ottenuta l’indipendenza dalla Gran Bretagna fu stipulato, con tutte le comunità, il trattato di Planglong che prevedeva, entro dieci anni, la loro autonomia, ma la mancata applicazione del trattato comportò l’inizio di violenze sempre represse dai militari.

Occorre  collocare  Aung San Suu Kyi  in questo contesto storico, figlia di  Aung San, Primo ministro ideatore del trattato di Planglong, dalla vita politica altalenante tra l’amicizia con l’Impero giapponese e l’alleanza con quello britannico, assassinato nel 1947; nel 1992, un anno dopo aver ricevuto il Premio Nobel per la pace, fu condannata agli arresti domiciliari, più volte rilasciata e arrestata, liberata definitivamente nel 2010. Furono gli anni in cui eravamo in pochi a manifestare per la sua liberazione e per la difesa del popolo Karen. Nel 2012, ottenne un seggio in Parlamento e l’Occidente la riscoprì, ospitandola ovunque con ritardate manifestazioni di solidarietà. Nel 2015, la Lega Nazionale per la Democrazia vinse le elezioni e, nel 2016, San Suu Kyi divenne Consigliere di Stato, carica che, di fatto, le assicurava la guida del governo. Nello stesso anno, la repressione della minoranza rohingya, di religione musulmana, s’intensificò e apparve evidente che si stava andando incontro ad una vera e propria crisi umanitaria nel più assoluto silenzio del Primo ministro, anche sul contemporaneo conflitto armato con le minoranze Karen e Rakhine. Alle Nazioni Unite, da leader del Myanmar, aveva assicurato il suo impegno nel contrastare eventuali scontri razziali nello stato del Rakhine. I Rohingya, dall’indipendenza, sono stati considerati degli scomodi intrusi ma è dal 2017 che la situazione è andata assumendo i caratteri di un genocidio. Scontri si sono sviluppati nello Kachin, al confine con la Cina, tra esercito birmano e KIA, Kachin Independence Army, identica situazione al confine con la Thailandia, tra l’esercito separatista Karen e la Giunta militare.               

Una situazione estremamente complessa, quanto mai lontana da un processo di pacificazione, che chiama in causa la responsabilità di San Suu Kyi e, ancor più, la sua ostinata difesa, negazionista, delle forze armate birmane dalle accuse di genocidio dei Rohingya. Nel 2019, alla Corte penale internazionale dell’Aia, Aung San Suu Kyi difese l’indifendibile sostenendo che l’esercito aveva solo risposto agli attacchi armati della formazione Rohingya “Arakan Rohingya Salvation Army”. Sicuramente la situazione birmana è estremamente complicata, contrasti etnici e religiosi affliggono alcuni Stati, tra le minoranze più numerose si sono formate milizie armate; a quelle già menzionate si aggiungono l’Arakan Army formazione buddista che rivendica l’indipendenza dell’Arakan, collegata a formazioni islamiche, ed altre narcomilizie etniche. Questo scenario, però, non può giustificare il terrore e l’uso della forza senza una visione che conduca ad un cammino di riconciliazione. 

Dalla politica San Suu Kyi ci si aspettava altro, il suo percorso di vita lo presupponeva.

Il suo è un caso in cui un perseguitato indossa i panni del persecutore ma, con il colpo di stato del 1° febbraio, si ha il ritorno della persecutrice nella posizione di perseguitata e il suo rientro sugli altari, venerata dall’informazione internazionale, dalle cancellerie occidentali e dalla solita filiera dell’opportunismo politico. Certo, in questo momento, la brutalità delle forze di sicurezza birmane, l’uccisione di centinaia di persone e l’incertezza sul futuro del Paese richiedono condanna e attenzione.

Società Libera, c’era nel difendere e pressare per la liberazione della San Suu Kyi, sin dal 2008, evidenziando la drammaticità birmana, aprivamo le nostre Marce per la Libertà con le sue foto, ma ora no: una difesa significherebbe avallare il genocidio dei Rohingya e la repressione dei Karen. E’ l’ora della condanna e del rifiuto, anche delle sue giustificazioni.

La politica e ancor più la storia, non sono una partita di ping pong in cui scelte e comportamenti, dignità e rispettabilità avanzano e indietreggiano secondo valutazioni connesse a variabili indipendenti.
Un mito è caduto e tramontato. La sua figura è stata riconsiderata dai grandi giornali internazionali, assente, al solito, buona parte dell’informazione italiana. Le sono stati ritirati i Premi Sakharov e Ambasciatore della coscienza, il primo, assegnato nel 1990 dal Parlamento europeo per la libertà di pensiero. Nel mondo l’affetto e l’entusiasmo scemano. La sua popolarità risale con il nuovo arresto. I silenti degli ultimi anni hanno ripreso i loro stonati megafoni: uno per tutti Piero Fassino che in varie interviste difende l’insostenibile. Pur di giustificarla, scomoda Max Weber che, a suo dire, ammoniva: “La politica non può essere guidata soltanto dall’etica della testimonianza, che valuta solo la mera coerenza dei principi”. Ma la politica in nessun caso può tollerare chi si macchia di complicità nel genocidio di un popolo. Per Fassino siamo dei moralisti digiuni di politica? Ha ragione, da ex comunista è sicuramente un buon conoscitore di repressioni popolari, ma noi abbiamo ben chiaro che schierarsi con chi difende i Diritti Umani non è scelta perpetua e irreversibile. Ancora siamo con i popoli birmani, ma non più in nome di chi ha negato i diritti naturali a una parte di quei popoli. Questa è la nostra libertà di pensiero.
 
* Presidente di Società Libera

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