Report di AGI/Censis sull’‘Italia sotto sforzo. Diario della transizione 2020/2021’ durante la pandemia. Ecco come l’emergenza sanitaria ha cambiato i nostri ritmi e i nostri stili di vita.
Aeroporti deserti, stazioni vuote, città senza turisti e con il traffico quasi azzerato, abitanti ‘tappati’ in casa. Potrebbe essere lo scenario tipico di una pellicola cinematografica ambientata in un futuro prossimo. E invece è il quadro attuale, disarmante e sconfortante, che ci ha riservato la pandemia nel nostro Paese nei primi nove mesi del 2020 quando l’uso dello spazio e del tempo, due capisaldi dello sviluppo urbano contemporaneo, è letteralmente venuto meno.
A rivelarci come il Covid abbia rivoluzionato le nostre abitudini e i nostri stili di vita è il report AGI/Censis ‘Italia sotto sforzo. Diario della transizione 2020/2021’ nel capitolo ‘Lo spazio e il tempo all’epoca della pandemia’.
Un report che racconta di come sia venuta meno la facilità di viaggiare e di annullare distanze ‘impossibili’, della battuta d’arresto del turismo globale, del crollo degli incassi di musei, cinema e concerti, della vita da remoto cui siamo stati costretti (lavoratori con occupazione e studenti), e della stasi della capacità attrattiva delle grandi città d’arte. In compenso, però, abbiamo riscoperto la mobilità alternativa, con il ‘boom’ dei monopattini, e capito che si può sfruttare l’occasione per mettere a mano a quei malfunzionamenti che davamo per scontati, dal pendolarismo alla crescita della qualità della vita delle periferie, notoriamente trascurate.
Un colpo ferale al turismo
L’emergenza sanitaria non solo ha fermato il turismo straniero nel periodo del lockdown di primavera, ma ha prodotto un forte ridimensionamento dei flussi turistici internazionali anche nei successivi mesi estivi. Una fotografia la forniscono le movimentazioni negli aeroporti: tra marzo e dicembre 2019 nell’aeroporto di Fiumicino erano transitati 38 milioni di passeggeri, mentre nello stesso intervallo del 2020 i passeggeri sono stati appena 4,6 milioni, con un calo dell’88%. Nello stesso intervallo di tempo Milano Malpensa è passato dai 25 milioni di passeggeri del 2019 ai 3,6 milioni del 2020 (-85,5%). Per dare un’idea è come se l’operatività dello scalo di Fiumicino fosse diventata pari a quella dell’aeroporto di Bari.
Le brutte notizie arrivano pure sul fronte dell’Alta velocità ferroviaria con i passeggeri di Trenitalia che erano passati dai 6,5 milioni del 2008 ai 40 milioni nel 2019 (+515%). Eppure oggi, racconta il rapporto, si teorizza che l’alta velocità come l’abbiamo pensata all’anno scorso, probabilmente non ci sarà più. Un confronto numerico tra le corse offerte tra le principali città italiane nel 2018 e nel 2021 (marzo) mostra l’entità di questo ridimensionamento. Roma ha perso il 46% delle connessioni in ingresso. Il collegamento business per eccellenza, la tratta Roma-Milano, ha subito il taglio più pesante, un vero e proprio dimezzamento, passando dalle 65 corse quotidiane per senso di marcia del 2018 alle attuali 32 (-51%).
Freno d’emergenza
Non a caso è proprio su questa linea che Trenitalia ha introdotto i treni Covid free per i quali tutti i passeggeri saranno tenuti a sottoporsi al tampone rapido prima di salire a bordo. Il forte calo della domanda non è stato determinato solo al venir meno del segmento turistico, ma anche alla sostanziale scomparsa del traffico business, principale fattore di sviluppo dell’alta velocità. Le videoconferenze sono diventate il modo ordinario di tenere le riunioni di lavoro.
Chi ha conosciuto una imprevista battuta d’arresto per colpa della pandemia è anche il turismo globale, cresciuto esponenzialmente negli ultimi decenni. I dati relativi alle presenze negli esercizi ricettivi in Italia nei primi nove mesi del 2020, raccontano di un dimezzamento dei volumi complessivi (-50,9% rispetto allo stesso periodo del 2019) esito di un vero e proprio crollo della domanda straniera (-69%), e di un ridimensionamento rilevante del turismo interno (-33%), ridimensionamento contenuto grazie al fatto che molti italiani hanno dovuto rinunciare alla vacanza all’estero rimanendo in patria.
Riguardando l’andamento mensile, si vede come dopo un 2019 di ulteriore record dei flussi turistici negli esercizi ricettivi italiani (+2,6% di arrivi e +1,8% di presenze rispetto al 2018) e un mese di gennaio molto positivo (+5,5% gli arrivi e +3,3% le presenze) da febbraio si rendono visibili i primi effetti della pandemia e delle conseguenti misure di contenimento, che si segnalano già dal mese di febbraio (-12,0% gli arrivi e -5,8% le presenze).
Nel periodo del lockdown di primavera (11 marzo-4 maggio 2020) la domanda quasi si azzera e le presenze nelle strutture ricettive sono appena il 9% di quelle registrate nello stesso periodo del 2019. In particolare, il calo delle presenze è pari a -82,4% a marzo, a -95,4% ad aprile e a -92,9% a maggio. Pressochè assente la clientela straniera (-98,0% sia ad aprile che a maggio). Complessivamente nei mesi del lockdown, la variazione, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, è pari a -91,0% con una perdita di quasi 74 milioni di presenze, di cui 43,4 milioni di clienti stranieri e 30,3 milioni di italiani.
Il report AGI/Censis racconta, dunque, che la pandemia da Covid “ha fermato le attività, ha sconvolto abitudini e assetti, ha quasi azzerato i flussi extra-locali di persone” ma, soprattutto, ci ha insegnato che “la grande città – per il fatto stesso di essere spazio ad alta densità abitativa e luogo di precipitazione e gestione di grandi flussi di persone – esprime di per sé un elevato livello di rischio. In questi mesi l’elevata densità di persone e l’elevato e frequente numero di spostamenti tra luoghi anche lontani sono diventati il nemico da combattere”.
Questa nuova incertezza ha determinato due conseguenze: ha azzerato improvvisamente i flussi di persone nello spazio, temporaneamente azzerati o congelati, e ha favorito in modo inatteso la trasformazione digitale con il trasferimento sulla rete di una parte significativa delle attività lavorative, di studio, di impiego del tempo libero, nonché di gran parte della relazionalità inter-personale. E questo “rapido trasferimento sul digitale di tante e variegate attività”, oltre a compensare la diminuzione delle interazioni in presenza, ha messo in discussione il paradigma della lontananza dai grandi poli urbani come fattore di svantaggio e sembra segnare – per la prima volta dal dopoguerra – un rallentamento nella crescita di rilevanza dei poli urbani rispetto al territorio diffuso. In particolare, i loro centri storici sono diventati “aree fantasma”.
Sono andati in crisi soprattutto i luoghi specializzati nel trattamento dei flussi di persone (in movimento per lavoro, studio o svago): stazioni ed aeroporti, come si è visto, ma anche quartieri direzionali e centri delle città d’arte. E in crisi sono finite anche le attività collegate: bar e ristoranti, hotel e case per affitti brevi, musei, cinema, teatri, stadi, palazzetti dello sport. Un vero e proprio sconvolgimento, che ha prodotto dal punto di vista spaziale/territoriale una sorta di “crisi rovesciata” dove le periferie residenziali hanno invece tenuto e sono collassate le aree centrali, da tempo svuotate di residenti ed ora private anche di impiegati e turisti.
La scomparsa della cultura e del divertimento
Oltre a turismo e ristorazione, l’emergenza coronavirus ha fatto le sue vittime anche tra le imprese del commercio al dettaglio e del comparto del tempo libero. Attività artistiche, sportive e culturali: tutto sparito (o quasi) con un crollo pesante degli incassi e una ricaduta preoccupante della tenuta sociale ed economica delle singole città, da sempre considerate ‘macchine di intrattenimento.
Dal marzo 2020 sono stati chiusi al pubblico tutti i luoghi della cultura e sono stati annullati gli spettacoli di qualsiasi natura, inclusi quelli teatrali e cinematografici. Solo a partire dal maggio 2020 sono stati riaperti, con limitazioni e condizioni, i musei e gli altri luoghi della cultura e da mese successivo è stato possibile lo svolgimento di spettacoli in sale teatrali, sale da concerto, cinema e in altri spazi, sebbene con una diminuzione della capienza massima. L’impatto sul settore museale è stato molto forte. Solo nei musei statali è stato perso il 75% dei visitatori con un forte e corrispondente decremento degli incassi: dai 240 milioni di euro del 2019 si è passati ai 60 milioni del 2020, secondo i dati provvisori del Mibact.
Quanto al mondo dello spettacolo, le stime dell’Osservatorio SIAE relative a tutto il 2020 confermano in peggio le tendenze già emerse dal primo semestre: complessivamente gli ingressi hanno segnato un calo del 73%, mentre la spesa al botteghino (esclusi quindi i costi di prevendita) ha avuto una riduzione del 78% circa. Un dato drammatico se si considera che i primi due mesi dell’anno erano stati molto positivi con un aumento degli ingressi del 15,5% rispetto al 2019. I dati sono drammatici per tutti i settori, ma si distingue in negativo dei concerti (molto legato al periodo estivo) che perde quasi il 90% degli incassi.
Vivere da remoto
Fino all’anno scorso lavorare da remoto rappresentava un’eccezione. Con l’avvento della pandemia rischia di esserlo lavorare in presenza. I dati parlano chiaro: il 56,4% degli occupati ha cercato di lavorare pur chiusi in casa, mentre oscillerebbe tra i 3 e i 4 milioni il numero di chi presta servizio in quelle aziende o enti pubblici interessati ad adottare in futuro forme di lavoro che non prevedono la presenza in sede dei loro dipendenti.
Bocciata, invece, la remotizzazione della didattica che non può in alcun modo essere individuata come una prospettiva utile o proficua, ma al massimo come una soluzione emergenziale. Non a caso, nessun Paese l’aveva prevista nei suoi piano educativi prima dell’insorgere della pandemia. È infatti evidente che la scuola in presenza garantisce contemporaneamente la trasmissione delle competenze e i processi di socializzazione, scaricando tra l’altro le famiglie, per buona parte della giornata, dai compiti di sorveglianza e cura dei ragazzi. Va aggiunto, poi, che l’esperienza della dad durante il lockdown non può essere considerata positiva: è sufficiente pensare a come abbia amplificato i divari sociali tra gli studenti che dispongono di case grandi e di tecnologie informatiche e telematiche adeguate e quelli che ne sono privi, per non parlare dell’assistenza ai figli che in alcuni casi i genitori sono in grado di garantire e in altri no.
Sia in ambito lavorativo che di studio è stata rilevante l’accelerazione sul fronte dell’uso delle videoconferenze, una tecnologia già disponibile ma ancora poco utilizzata. Dopo circa un anno si può dire che fa parte stabilmente delle abitudini quella di partecipare a riunioni, workshop e finanche congressi che coinvolgono un numero significativamente alto di persone da remoto. L’altro ambito di remotizzazione forzata che tutti hanno iniziato a sperimentare durante la pandemia – si spiega nel report – è quella che si riferisce alla dimensione relazionale.
Lo smart working, ma senza Internet
La rete Internet e i sistemi per la connettività hanno supportato la gran parte della domanda minuta di scambio, di contatto, di relazione, di condivisione, espressa a tutti i livelli nel Paese. Spaventa pensare a cosa sarebbe successo in sua assenza o in presenza di significativi e prolungati black-out della rete. In particolare, l’uso della rete per videochiamata si è decuplicato su rete fissa e si è quintuplicato su rete mobile. Naturalmente, un ruolo importante in questo senso lo hanno avuto lo smart working e la didattica a distanza, ma certamente milioni di italiani hanno utilizzato lo strumento della videochiamata per rimanere in contatto con le persone per loro più significative: si stima che quasi 43 milioni di persone maggiorenni (e tra questa almeno 3 milioni di “novizi”) siano rimaste in contatto con i loro amici e parenti grazie ai sistemi di videochiamata che utilizzano internet.
Vivendo l’esperienza Covid, come emerge dal report, si è scoperto che solamente il 76,1% delle famiglie italiane dispone di un accesso internet e appena il 74,7% ha una connessione a banda larga. Una realtà che conferma quanto il nostro Paese sia ancora un passo indietro rispetto a buona parte degli Stati dell’Unione Europea.
Un tema da ricondurre certamente a fattori generazionali e culturali, ma che si incrocia fortemente anche con la dimensione territoriale. La realtà riferita all’Italia, infatti, peggiora notevolmente se si incrocia il dato con la dimensione demografica del comune: nei piccoli centri sotto i duemila abitanti quasi 1 famiglia su 3 (32%) non dispone di una connessione a banda larga, con difficoltà gravi di accesso, ad esempio, degli studenti alle lezioni on line con i propri insegnanti. E anche in questo caso si confermano i divari nord-sud: se la banda larga fissa al centro-nord copre il 56-59% della popolazione, al Sud scendiamo al 48% e nella ripartizione “Isole” addirittura al 44%.
Il futuro che ci aspetta
Quale futuro ci aspetta, dunque? Di sicuro, un’organizzazione del lavoro basata su una maggiore flessibilità, una riduzione tra il 10% e il 30% della domanda complessiva di spazi per uffici e una presenza non più costante dei dipendenti presso la sede aziendale. E, allo stesso tempo, un maggiore sfruttamento degli spazi all’aperto con un’attenzione particolare alla mobilità alternativa.
Un futuro che prevede una diversa impostazione della città almeno dal punto di vista del sistema della mobilità (tratte casa-lavoro) che finora si era basato sull’affollamento di mezzi e arterie stradali durante le ore di punta, con treni e autobus sovraffollati. In questo quadro, si legge nel report, oltre alla possibilità di immaginare una diversa organizzazione oraria, entra in gioco un’esigenza sempre più sentita di usufruire maggiormente degli spazi aperti, nelle loro varie forme.
A confermarlo è ad esempio l’aumento delle vendite di attrezzature e mezzi di trasporto per sport fuori casa, che va di pari passi con la crescente e sempre più ampia offerta di lezioni di fitness, personal training ed escursionismo. I consumi ci raccontano l’interesse degli italiani non solo per le biciclette e per i monopattini ma anche per delle semplici scarpe da trekking.
Anche gli enti locali hanno deciso di cogliere la palla al balzo investendo di più nella mobilità alternativa, in un Paese in cui la centralità dell’auto anche nei contesti urbani resta una sorta di dogma. In molte città sono stati realizzati nuovi percorsi ciclabili che spesso passano attraverso grandi aree verdi arrivando a congiungere non solo diversi quartieri, ma anche il centro con la periferia. Nell’incentivare l’uso della bici per il pendolarismo urbano, un ruolo determinante verrà giocato dalle aziende, dalle scuole e dalle università che dovranno disporre di parcheggi, spogliatoi e facilities per i pendolari.
L’altra novità importante riguarda il progetto degli spazi aperti. Nei parchi cittadini in questi mesi di pandemia sono state istituite numerose aree adibite all’allenamento all’aperto. Sono oggetto di interventi che cercano di interpretare questa fase anche i progetti di pedonalizzazione di strade e piazze (anche attraverso l’utilizzo del cosiddetto urbanismo tattico, con parcheggi trasformati ad esempio in aree giochi), o di riduzione della velocità del traffico a 30 km/h.
La pandemia, infine, ci ha mostrato altri due aspetti inediti: la sovrabbondanza di superfici improvvisamente svuotate, specie nel settore terziario, e la necessità di reperire nuovi e ad ampi spazi per attività sanitarie all’interno di edifici destinati a ben altri scopi. Due esempi tra tutti, la realizzazione di un polo di terapia intensiva alla Fiera di Milano e l’inserimento di un polo vaccinale dentro la Nuvola di Fuksas e dentro l’Auditorium di Renzo Piano a Roma.
AGI