I meravigliosi anni settanta

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A quei tempi il motto delle Brigate Rosse era il celebre detto di Mao Zedong “colpirne uno per educarne cento”.

Il motto degli strateghi della tensione invece era “destabilizzare per stabilizzare”. Ma non c’erano solo gli omicidi di politici ad opera delle Brigate Rosse (si seppe dopo che c’erano infiltrazioni ed erano manovrate) e le bombe sui treni ad opera di neofascisti con  esponenti della criminalità organizzata, massoni e  agenti di servizi segreti deviati ( ma in questo caso furono molti i depistaggi e i muri di gomma).

C’era molto altro ancora. Erano gli anni di piombo in un contesto più generale che era quello della guerra fredda. Dagli scontri di Valle Giulia si passò alle pistole: dall’estremismo al terrorismo il passo fu breve e da alcuni giustificato come una risposta allo stragismo di stato. Ma non c’era nulla di cui stupirsi.

Il paese viveva un grande paradosso: era sotto la Nato e aveva il più grande partito comunista occidentale. Per alcuni non era possibile cambiare il sistema dall’interno.

Dall’analisi delle questioni sociali e dalla protesta dei movimenti studenteschi ci fu quindi il passaggio ai gruppi extraparlamentari, che non disdegnavano la lotta contro l’autorità e consideravano l’avversario politico un nemico.

Alcuni militanti vollero passare all’azione, definendosi non terroristi ma rivoluzionari. Diventarono quindi brigatisti a tutti gli effetti. Negli anni settanta molti giovani di sinistra uccisero giovani di destra e viceversa.

Fu una “guerra civile a bassa intensità” (secondo Lazar e Bonucci) o forse sarebbe meglio definirla ideologica. Bastava prendere parola in un’assemblea, indossare un certo capo di abbigliamento, ascoltare un certo tipo di musica, frequentare un locale piuttosto che un altro, leggere un certo quotidiano.

Bastava poco per rimanere esangui a terra a causa di un colpo di arma da fuoco o a causa di sprangate. Allora un giovane con una precisa coscienza politica non poteva camminare mai da solo, soprattutto nelle grandi città: c’era sempre il rischio di venire aggredito da giovani della fazione opposta.

Come se non bastasse allora capitava talvolta che forze dell’ordine ammazzassero giovani manifestanti o che giovani estremisti ammazzassero giovani carabinieri. A onor del vero non c’era solo la politica a rovinare i giovani (chi moriva e chi andava in galera). Allora moltissimi giovani si rovinavano anche con la droga (l’eroina).

Erano anni di grandi ideali, di grandi contestazioni (il ’68, il’ 77) ed anche anni caratterizzati da una grande autodistruzione. Eppure tutto era cominciato bene con il maggio francese e il suo slogan “l’immaginazione al potere”. Finì tutto con il sangue e fu tutto inutile perché i politici praticavano il consueto consociativismo all’italiana e le conseguenti spartizioni di poltrone. Vennero poi gli anni ottanta e iniziò il ritorno al privato, il cosiddetto riflusso nel privato. I giovani divennero paninari. Ritornò il modello delle 3 m (macchina,mestiere, moglie).

Finì per sempre l’impegno civile e politico da parte dei giovani. Gli unici luoghi di aggregazione diventarono le discoteche.

La violenza venne trasferita tutta negli stadi dove i giovani potevano regredire psichicamente e picchiarsi. Buona parte di quei giovani degli anni settanta finirono in carcere per lotta armata o perirono con la droga.

Gli altri si imborghesirono. Oggi gli anni settanta sono stati definitivamente rimossi e ai giovani di oggi non interessa minimamente volgersi indietro e sapere qualcosa di quel periodo. Per loro quella non è cronaca, non è storia: è semplicemente preistoria.

In futuro qualche generazione, non sapendo niente di quegli anni, potrebbe finire per ripeterne gli errori.

Gli anni settanta erano gli anni dello spontaneismo politico, che in piccola parte purtroppo sfociò anche in spontaneismo armato   (qualcuno portava la p38 alle manifestazioni). Ma furono anche anni fecondi dal punto di vista intellettuale.

Nacquero riviste e gruppi di giovani intellettuali destinati ad entrare nella storia. Cito ad esempio i Quaderni piacentini di Bellocchio (che arrivarono a vendere 11000 copie) e Tam Tam edita da Adriano Spatola e Giulia Niccolai, che vissero per anni nel mulino di Bazzano, dando ospitalità a giovani poeti.

Allora essere intellettuale era una missione. L’intellettuale doveva cambiare il mondo, trasformarlo.

Doveva fare presa sulla realtà. Oggi i termini di paragoni sono improponibili e non è questione solo di statura intellettuale dei protagonisti o di levatura morale. Assolutamente no. Gli intellettuali dovevano trasformare il mondo.

Il mondo invece li ha trasformati profondamente. Sono sempre più precari, marginali e perciò ricattabili dal potere.

La rivoluzione marxista non è arrivata. Le strutture economiche sono mutate completamente e con esse anche le dinamiche sociali.

Non c’è più la produzione di massa. Tutti guardano al Just in time (magazzini snelli, gestione delle scorte ridotte al minimo). Ci sono la robotica, l’informatica, la connettività, i sistemi socio-tecnici, lo sviluppo dell’automazione, l’e-commerce, le forme atipiche di lavoro, i sindacati che non rappresentano più adeguatamente certi lavoratori, l’avvento della crisi globale, l’esternalizzazione, l’invecchiamento della popolazione nei paesi industrializzati. Oggi sono aumentati i servizi nel mondo del lavoro.

Ci sono sempre più lavoratori della conoscenza. Un tempo c’era il capitalismo di stato a fare da padrone. Oggi con la globalizzazione delle merci e dei capitali fanno da padroni la delocalizzazione e il capitalismo finanziario.

Il capitalismo ha trovato altre strade. Forse più subdole. Gli intellettuali sono rimasti spaesati. Sono rimasti, come si suol dire, al palo. Ma la cosa più difficile è fare gruppo oggi. È molto difficile fare rete come si suol dire.

Siamo alla frutta. Si è innalzato il tasso di scolarizzazione, c’è più alfabetizzazione, ma probabilmente non esistono più i grandi intellettuali di una volta ed anche se esistessero pochi darebbero loro credito.

Una volta su un muro ho letto questa scritta: “sempre più connessi, sempre più soli”. Con questo non voglio dare assolutamente la colpa ad Internet, che è solo un segno dei tempi.

Voglio solo dire che l’impegno e la partecipazione alla politica da parte degli intellettuali sono finite. In parte si sono ritirati a vita privata. I politici non li vogliono più come guide, ma al massimo solo come consulenti di immagine o estensori di discorsi.

Al massimo i più cortigiani stanno dietro le quinte. Insomma disadattati oppure riciclati.

Davide Morelli

Redazione Corriere Nazionale

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